Sezione prima
§ 13
Dei principi di una deduzione trascendentale in generale
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I giureconsulti, allorché discutono le ragioni o pretese di una lite, sogliono distinguere nella quistione ciò che si riferisce al dritto (quid juris), da ciò che il fatto risguarda (quid facti); e, trattandosi di
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addurre le prove all’appoggio, chiamano deduzione quella che deve convincere la ragione, od anche solo appianare il punto giuridico. Noi ci serviamo d’infiniti concetti empirici, senza mai contraddizione per parte di chicchessia, e ci reputiamo autorizzati accordar loro, anche senza deduzione ed una significazione immaginaria: il che arbitriamo, avendo presta ognora la sperienza, onde giovar a comprovare la realtà obbiettiva di que’ concetti. Ve ne sono intanto di usurpati, o posti ben anche in circolazione per quasi universale connivenza, come sarebbero fortuna e destino: i quali se avviene, come talora, che si richiamino alla questione quid juris, non è lieve l’imbarazzo, in che ci troviamo nella relativa deduzione; non essendo noi al caso di addurre alcun fondamento giuridico evidente, per
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parte né della sperienza né della ragione, che valga dichiarare la legittimità, e l’uso giustificare di quei concetti.
Tra i diversi concetti, quali concorrono alla moltiplice tessitura dell’umano sapere, ve ne sono alcuni determinati a priori (affatto indipendenti da ogni sperienza), e l’uso affatto puro dei quali richiede pur sempre di essere giustificato con una qualche deduzione. Ché, mentre le prove della sperienza non sono bastevoli a legittimare di siffatti concetti la pratica, importa ciò non di meno il sapere come si possano riferire ad oggetti, ch’eglino mai tuttavia non derivano da veruna sperienza. Quindi è che io chiamo deduzione trascendentale dei concetti la dichiarazione del modo, con che possono essi riferirsi a priori agli oggetti: e tal deduzione distinguo dalla empirica; siccome quella
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che indica il modo perché un concetto si acquisti dalla sperienza, o riflettendo sulla medesima, e non risguarda quindi la ragione ma il fatto, la cui mercé né viene che ci siamo di quel concetto impadroniti.
Noi possediamo già un doppio ordine di concetti, che, sebbene di gran lunga differenti fra loro, convengono però in quanto, sì gli uni che gli altri, si riferiscono assolutamente a priori agli oggetti: e sono, come forme della sensibilità, i concetti dello spazio e del tempo, e, come concetti dell’intendimento, le categorie. Sarebbe vana fatica il voler cercare, intorno a questi concetti; una deduzione sperimentale; consistendo appunto in ciò il distintivo di loro natura, ch’eglino si riferiscono agli oggetti, senz’aver preso il gran nulla in prestito dalla sperienza per la rappresentazione respettiva. Ogni qual volta pertanto
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richieggasi una deduzione intorno ai medesimi, questa non potrà essere che trascendentale.
Anche su questi concetti frattanto, come sopra ogni cognizione in generale, se non il principio della possibilità loro, ci rimane sempre facoltativo indagare le cause occasionali del respettivo nascimento nella sperienza: dove le impressioni dei sensi offrono la prima volta motivo, perché si attivi la facoltà consecutiva, rispetto ai medesimi costituendo con ciò la sperienza. Consta quindi la sperienza di due molto dissimili elementi; della materia del sapere, per parte dei sensi, e di una certa forma (onde ridurre a cert’ordine la materia), per parte dell’intima sorgente della intuizione pura e del pensare: i quali elementi vengono a porsi in esercizio, e producono concetti, non prima che data occasione alla visione.
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Siffatta investigazione di quei primi conati della nostra facoltà conoscitiva, onde salire dalle singole percezioni ai concetti universali, è del più gran vantaggio non v’ha dubbio, e siamo debitori al celebre Locke, perché aperto ne abbia il primo a tale investigazione la strada. Solché non può quindi aver luogo giammai una deduzione di concetti puri a priori, e non sarà mai che la si trovi su questa via per ciò che, rispetto all’uso a venire di tali concetti, come quello che dev’essere affatto indipendente dalla sperienza, essi debbono poter mostrare tutt’altro certificato di provenimento, che non di genealogia sperimentale. Per la qual cosa chiamerò dichiarazione del possedimento di una cognizione pura la filosofica derivazione che andrò tentando; giacché non potrei chiamarla deduzione, come quella che si riferisce
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ad una quistione di fatto. Ed è per verità manifesto non potere di siffatte cognizioni esibirsi che una deduzione trascendentale; attesoché, rispetto ai concetti puri preconceputi, le deduzioni empiriche si risolvono in vani tentativi, coi quali s’impaccia soltanto chi la natura propria e particolare non comprese di queste cognizioni.
Data però anche la trascendentale, come l’unica strada e maniera di possibilmente inferire il saper puro anticipato, non però quindi chiaro apparisce tale maniera e strada essere assolutamente necessaria. Servendone, più sopra, della deduzione trascendentale, già fummo alla traccia dei concetti dello spazio e del tempo, sino alla prima loro sorgente; con che abbiamo dichiarato e stabilito il loro valore obbiettivo a priori. Ciò non di meno la geometria s’inoltra ed avanza
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di piè fermo, come suole, framezzo a nozioni tutte quante anticipate; senza che le sia mestieri mendicare dalla filosofia un certificato di guarentigia sul provenimento legittimo del suo concetto costitutivo e fondamentale dello spazio. Ma l’uso di tale concetto non si estende, in detta scienza, che al mondo sensitivo esteriore, dove lo spazio è già forma pura della di lei visione; e nella quale ha quindi evidenza immediata ogni cognizione geometrica, poiché fondata sopra intuizione a priori, e, poiché per la stessa cognizione vengono gli oggetti offerti a priori (in quanto alla forma). Per lo contrario nasce già, ed incomincia cogli stessi concetti intellettuali puri, il bisogno indispensabile di cercare una deduzione trascendentale, non solamente di essoloro, ma sì pure dello spazio. Perciocché, siccome tal deduzione ragiona degli
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oggetti a priori, per via di predicati, non già della visione o della sensibilità, ma del puro pensiero, ed hanno questi rapporto cogli oggetti, senza la menoma delle condizioni della sensibilità in generale; e, siccome non basando gli stessi predicati sulla sperienza, non possono indicare, nella visione a priori, alcun oggetto su cui, prima d’ogni sperienza, fondassero là sintesi loro; e non solo si rendono quindi sospetti, risguardo al valore obbiettivo ed ai confini dell’uso loro, ma sì pure ambiguo rendono quel concetto dello spazio, perocché propendono ad usarlo oltre le con dizioni della visione sensitiva; così da tutto ciò ne viene la necessità di una deduzione trascendentale, anche intorno allo spazio. E così deve il lettore convincersi dell’assoluta necessità della medesima, prima che abbia fatto un sol passo
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nel campo della ragione pura; ché altrimenti avanzerebbe come cieco, e, dopo essersi aggirato per vari sentieri, si troverebbe ricondotto suo malgrado a quell’ignoranza o onde credeva od era per sortire. Dev’egli però anche prevedere con evidenza le inevitabili difficoltà che sarà per incontrare, affinché non abbia quindi né a portar lagnanze d’oscurità, ove la cosa è profondamente involta e tenebrosa per sé stessa, né a presto stancarsi della fatica per la quale rimuovere gli ostacoli. Imperocché trattasi o di affatto in conseguenza rinunziare ad ogni pretensione di penetrare la ragione pura, nel campo amenissimo al di là dei confini di ogni sperienza possibile, o di condurre a perfezionamento questa critica indagine.
Ragionando, più sopra, i concetti dello spazio e del tempo, non mi riescì disagevole il far comprendere
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come, nella qualità loro di nozioni preconcepute, debbano essi tuttavia riferirsi necessariamente ad oggetti, e come fosse possibile una cognizione sintetica dei medesimi, indipendentemente da qualunque sperienza. Non potendo infatti apparirci alcun oggetto, od essere oggetto di empirica visione, tranne che per mezzo di coteste forme pure della sensibilità, ne viene che lo spazio ed il tempo sono le intuizioni pure, che in sé già contengono a priori la condizione della possibilità degli oggetti come fenomeni, ed avere la sintesi valore obbiettivo nei medesimi.
Le categorie dell’intendimento all’opposto non ci presentano le condizioni, per le quali ha luogo la visione degli oggetti; ond’è che possono questi ad ogni modo apparirci, senza che debbano di necessità riferirsi a funzioni dell’intelletto,
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né che abbia desso a capire in sé medesimo a priori: le dette condizioni. Ed ecco perciò una difficoltà, cui non incontravamo nel dominio della sensibilità; ed è come debbano le condizioni del pensiero avere valore obbiettiva, come cioè possano fornire le condizioni della possibilità di ogni cognizione degli oggetti; dappoiché, senza funzioni dell’intelletto, possono assolutamente aver luogo nella visione i fenomeni o le apparizioni. Prendiamo ad esempio il concetto della causa, come tale che indica una specie di sintesi, supponendo ad un dato A, in forza di qualche regola, un dato B, affatto diverso dal primo. A priori non è manifesto perché debbano le apparizioni contenere alcunché di simile (giacché non si possono addurre prove sperimentali, trattandosi che deve potersi esporre per anticipazione il valore obbiettivo
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di tale concetto); egli può adunque a priori dubitarsi, che sia per avventura vuoto il detto concetto, e non trovi oggetto che gli corrisponda fra le apparizioni. Che gli oggetti della visione sensitiva in fatti debbano corrispondere alle già nell’animo riposte condizioni formali della sensibilità, ciò risulta chiaro; poiché altrimenti ei non sarebbono oggetti per noi. Ma che debbano questi, oltre di ciò, corrispondere eziandio alle condizioni, onde ha duopo l’intendimento, perché vegga e conosca sinteticamente, gli è ciò che non è sì agevole a comprendersi come accada. E di vero, non potrebbero trovarsi qualificati in maniera i fenomeni, che l’intendimento non li trovasse punto corrispondenti alle condizioni della propria unità? Non potrebbe mo essere il tutto sì confuso, che nella successione delle apparizioni, a cagion
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d’esempio, nulla si presentasse di quanto può somministrare una norma per la sintesi, e rispondere quindi al concetto di causa ed effetto, cosicché tale concetto fosse affatto vuoto, nullo, e privo di significazione? Ciò non di meno però le apparizioni offrirebbero sempre oggetti alla nostra visione; come a quella che non ha minimamente bisogno delle funzioni del pensiero.
Che se avvisassi liberarti da quanto hanno di faticoso coteste indagini, col dire: che la sperienza ne offre di continuo esempli di siffatta regolarità ne’ fenomeni, onde averne arra e motivo più che bastevole a cavarne il concetto della causa, e confermare nello stesso tempo la validità obbiettiva di siffatto concetto; mostreresti che mal comprendi, non poter quindi nascere per verun conto il concetto della causa, ma o dover esso fondarsi affatto a priori
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nell’intelletto, o doverselo qual pretta chimera bandire del tutto. Perciocché tale idea richiede ad ogni modo che il dato A sia tale, che ne segua di necessità l’altro B, in virtù di legge assolutamente uni versale. Ben si hanno casi dai fenomeni, onde qualche regola o legge possibile arguire intorno a cose che ordinariamente succedono, mai però tale che ne renda necessario il successo. Quindi è che alla sintesi della causa coll’effetto è per così dire inerente una certa quale importanza, cui non è fattibile colla sperienza esprimere, che cioè l’effetto non solo tien dietro alla causa, ma è dato e posto in grazia di lei, e da esso lei proviene. Anche l’assoluta universalità della regola non è mai proprietà delle leggi empiriche; siccome quelle che, per via d’induzione, altra non possono conseguire universalità, se non comparativa,
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quella cioè di indeterminatamente estensibile applicazione: e considerandole o trattandole come semplici prodotti empirici, verrebbe affatto a cangiare il destino e l’impiego dei concetti intellettuali puri.