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DOTTRINA TRASCENDENTALE DEL METODO
CAPO I – DISCIPLINA DELLA RAGIONE PURA
Del non essere possibile tranquillare la ragione pura in contraddizione con sé stessa
Del capo primo
Sezione III – Della disciplina della ragione pura, rispetto alle ipotesi
Sezione IV – Della disciplina della ragione pura risguardo ai di lei ragionamenti
Capo II – Canone della ragione pura
Sezione I – Dell’ultimo scopo dell’uso puro dell’umana ragione
Sezione II – Dell’ideale del sommo bene, come causa determinante lo scopo ultimo della ragione pura
Capo III – Architettonica della ragione pura
Capo IV – Storia della ragione pura
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La convinzione della propria ignoranza (purché non sia questa insieme riconosciuta quasi come necessaria), invece che dovrebbe far alto, ed impor fine alle nostre investigazioni, è anzi la causa, che propriamente le risveglia ed accende. Qualunque sia l’ignoranza, o ch’essa concerne le cose, o che alla determinazione risguarda ed ai confini del nostro sapere. Ora quando l’ignoranza è solamente accidentale, nel primo caso la ci deve spingere ad investigare dogmaticamente le cose (gli oggetti), e nel secondo,
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a criticamente i limiti rintracciare della possibile nostra cognizione. Che però sia necessaria senz’altro la nostra ignoranza, e debba quindi esimermi da ogni ulteriore investigazione, ciò non può decidersi empiricamente per via d’osservazioni, bensì unicamente colla critica, mediante perscrutazione delle sorgenti primitive del nostro sapere. Dunque non può la determinazione dei confini dell’umana ragione aver luogo, tranne dietro motivi a priori: la di lei circoscrizione però, la quale consiste in una benché solamente indeterminata cognizione di una ignoranza, cui non è mai fattibile sradicare del tutto, è anche riconoscibile a posteriori, per via di quanto ci rimane pur sempre di sconosciuto in qualsivoglia cognizione. È dunque scienza quella cognizione della propria ignoranza, la quale non è possibile che mediante
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la critica della stessa ragione; mentre l’altra non è che percezione, della quale non ci è lecito asserire, sin dove sia per giungere il conchiudere dalla medesima. Allorché mi rappresento (coerentemente alla illusione sensitiva) la superficie della terra come un disco, non posso guari sapere sin dove tal superficie si estenda. Ma la sperienza m’insegna, che, dovunque io mi rechi, trovo pur sempre uno spazio all’intorno di me, nel quale spazio mi sarebbe lecito progredire più oltre: con che riconosco limiti alla mia sempre vera nozione della terra, ma non conosco i confini di tutte le possibili geografie. Se però sono avanzato quanto basta per sapere, la terra essere un globo, e circolare la di lei superficie, già posso, in tal caso, conoscere in una maniera determinata e per via di principi a priori, anche da
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una picciola parte della detta superficie, come sarebbe quella della estensione di un grado, il diametro della terra e, mediante il diametro, quanta è la circoscrizione periferica della medesima, voglio dire, la superficie del globo. E quantunque ignaro degli oggetti, quali saranno per capire in tal superficie, non però ignoro la circonferenza, che li comprende, come nemmeno i confini e la grandezza della medesima.
Pare, alla cognizione, che ne abbiamo, il complesso di tutti gli oggetti possibili costituire una superficie piana ed aver questa il suo apparente orizzonte, voglio dire, ciò che tutta comprende la di lui circonferenza e cui abbiamo denominato concetto intellettuale dell’assoluta totalità. Non è possibile attingerlo empiricamente questo concetto; e furono vani quanti si fecero
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tentativi, onde a priori e conforme ad un qualche principio determinarlo. Ciò non di meno, le quistioni della nostra ragione pura si riferiscono tutte a quanto sta riposto al di là di tale orizzonte (o che anche si trovasse, per avventura, nella di lui linea di confine).
Fra cotesti geografi dell’umana ragione fu già il celebre David Hume, il quale portava avviso, come ché soddisfatto avesse bastevolmente alle accennate quistioni, rilegandole tutte insieme: al di là dell’orizzonte della ragione medesima; orizzonte però, ch’ei non sapeva determinare. Egli si tenne fermo specialmente alla massima fondamentale della causalità, intorno alla quale osservava giustissimamente, non darsi essere alcuno perspicace, voglio dire, non darsi cognizione a priori, che ne costituisca la verità (anzi neppure il valore obbiettivo del concetto
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di una causa efficiente in genere), né tal verità fondarsi quindi minimamente sulla stessa necessità della detta legge; ma che tutta la di lei forza ed autorità è da non altro costituita che dalla facile, non che utile, applicazione respettiva, nel corso della sperienza, e dalla quindi emergente necessità subbiettiva, cui egli dà nome di abitudine. Ora dalla impotenza della ragione dell’uomo a fare tal uso di questa massima, che trascendesse ogni sperienza, Hume conchiuse la nullità di ogni pretesa della ragione in generale a trasmigrare oltre i confini dell’empirismo(1).
Un tal procedere, nel sottoporre ad esame e nel redarguire, se occorre, in conseguenza, le operazioni (facta) della ragione, può chiamarsi la censura della ragione
(1) V. la Not. alla pag. 349. Tom. I.
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medesima. Non v’ha dubbio che tal censura conduca inevitabilmente a dubitare di ogni uso trascendentale delle massime fondamentali. Ma questo è ben lungi dall’opera condurre a compimento: non consistendo in esso che il secondo passo della censura; giacché, nelle cose di ragione pura, il primo non fa che indicarne l’età fanciullesca. Mentre questo primo passo è dogmatico e scettico l’altro testé nominato, viene da esso manifestata la circospezione della facoltà di giudicare, fatta ingegnosa ed accorta per esperienza. E qui diventa necessario un terzo passo, il quale però non compete che a forza di giudizio virile o matura e che abbia fondamento su massime di già provata universalità. Perocché non si tratta già di sottoporre ad estimazione i fatti della ragione, ma di sottomettervi nella sua piena facoltà di attitudine, rispetto
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alle cognizioni pure a priori, la stessa ragione. Il che non è più censura, ma critica; la quale non solo cancelli stabilisce alla ragione, ma ne determina i confini e non si accontenta sospettarne, bensì ne dimostra, in forza di principi, l’ignoranza in questa o quella parte non pure che rispetto a tutte le quistioni possibili di un certo qual genere. Per l’umana ragione adunque il setticismo è un asilo (temporario) di riposo, perché ella vi rammemori e passi a rassegna il già fatto pellegrinaggio dogmatico e perché vi disegni la topografia della contrada, ove si trova ridotta, onde abbia quindi a scerre con più di sicurezza il futuro cammino; ma non è per lei stanza ed abitazione, ove stabile fissarvi debba soggiorno. Imperocché non può questo aversi altrove che in luogo di piena sicurezza, cioè, sulla cognizione e
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degli oggetti medesimi o dei termini, entro i quali è rinchiuso ogni nostro sapere intorno agli oggetti.
La ragione dell’uomo non è da quandomai pareggiarsi ad una indeterminata pianura, della quale si riconoscessero i limiti solamente in un modo generale: ma essa dee piuttosto rassomigliarsi ad una sfera, onde sia possibile rilevare il diametro dalla curva dell’arco nella di lei superficie (dalla natura delle proposizioni sintetiche a priori); essendo quindi agevole a dedursene con sicurezza, non che apprezzarne, il complesso e la circoscrizione. Oltre questa sfera (il campo della sperienza), non è cosa, che oggetto sia per essolei; anzi le stesse quistioni e dimande, intorno a questi pretesi oggetti, non risguardano che a principi subbiettivi di una determinazione universale dei rapporti, che possono entro questa
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sfera occorrere, in fra’ concetti intellettuali.
Noi siamo effettivamente al possesso di cognizioni sintetiche, inerenti ad essonoi per anticipazione; siccome lo dimostrano i principi dell’intelletto, i quali precedono la sperienza. Ora, sempreché riescisse assolutamente impossibile ad alcuno il comprendere la possibilità di siffatte cognizioni, nulla osta perché possa egli da principio dubitare, se le ci sieno di fatto indigene a priori; non gli è però lecito né una tal dubbiezza imputare ad impossibilità delle medesime colle sole forze dell’intendimento, né il dichiarare perduti e nulli tutti i passi, quali fa colla scorta loro la ragione. Egli può solamente asserire, che, se ne fosse nota sì l’origine che l’indole genuina, potremmo determinare la circonferenza ed i confini della nostra ragione, che però, avanti che
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ciò abbia luogo, sono tutte azzardate alla cieca e temerarie le di lei pretensioni. Ed in tal maniera sarebbe giusto e fondato un dubitare continuo e generale di ogni dogmatica filosofia, che progredisse da sola e senza critica il suo cammino: ma ciò non pertanto, se tale progredimento fosse preparato e guarentito da migliori costituzioni fondamentali, non sarebbe da poi rifiutarsi del tutto alla ragione un tale progredimento. Che non istanno finalmente riposti nella sperienza tutti, per avventura, i concetti, anzi tutte le quistioni, che ci esibisce la ragione pura; ma sono esclusivamente inerenti alla stessa ragione: il perché dee pur essere possibile risolverle non pure che gli uni e le altre comprendere, giusta il valore o la nullità loro. E non siamo neppure autorizzati a repudiare siffatti problemi, né a quindi esimerci dallo ulteriormente
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investigarli, col pretesto della nostra inettitudine a risolverli, anche ammettendo effettivamente inerente alla natura delle cose la soluzione, onde si discorre. Imperocché la sola ragione ha generate siffatte idee nel proprio grembo e dee render conto, per conseguenza, di quale abbiano valore od illusione dogmatica.
Ogni polemico setticismo è rivolto propriamente soltanto contro i dogmatici, che senza la menoma diffidenza pe’ loro principi originari obbiettivi, cioè a dire, senza critica, procedono con arroganza nel loro cammino, solo per confondere lo scettico ne’ concetti e ridurlo a conoscere sé medesimo. Rispetto sì a ciò, cui sappiamo, sì a quanto, non siamo al caso, per lo contrario, di sapere, la critica di per sé non decide il gran nulla. Tutti i tentativi dogmatici della ragione, che mal
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riuscirono, sono tali di lei gesta (facta), che giova ognora il sottoporle alla censura. Ciò però non serve a decidere alcunché sulle aspettazioni e lusinghe della stessa ragione, onde abbiano quindi a conseguire miglior successo le di lei fatiche avvenire; il perché non è mai che sappia la sola critica ultimare o comporre la controversia intorno ai diritti dell’umana ragione.
Essendo forse Hume il più ingegnoso fra tutti gli scettici e quello, che tutti, senza forse, li supera nell’influenza, cui può avere il procedere scettico, rispetto all’eccitare un serio e solido esame della ragione, così porlo avviso, essere più che prezzo dell’opera il porre sott’occhio, per quanto addirsi al mio scopo, tanto il procedere delle sue conclusioni, quanto gli errori di un filosofo di sì gran va glia e perspicacia; come quellino,
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che finalmente incominciarono seguendo le vestigia della verità.
Era per avventura in pensiero di Hume (quantunque non abbia egli mai sviluppato siffatto pensamento), qualmente nei giudizi di un certo qual ordine noi trasmigriamo al di là della nostra nozione degli oggetti; e giudizi di questa fatta sono quelli, che ho chiamati sintetici. Come possiamo sortire, mediante la sperienza, dal concetto, cui possediamo già degli oggetti, su di ciò non v’ha né dubbio, né incertezza. Imperocché la medesima sperienza costituisce tal sintesi di percezioni da non potere, coll’aggiungervene di nuove, che accrescere il concetto già per noi acquistato mediante una percezione. Se non che noi portiamo avviso di potere trasmigrare a priori dal nostro concetto e quindi ampliare il nostro sapere. Il che si
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tenta o mediante il puro intelletto, risguardo a quanto può costituire, se non altro, un oggetto di sperienza, o sinanche mediante la ragione pura, trattandoci di cosiffatte proprietà delle cose o sì eziandio dell’esistenza di oggetti, che non saranno mai per occorrerci nella sperienza. Il nostro scettico non distinse una dall’altra, come ad ogni modo avrebbe dovuto, queste due specie di giudizi ma reputò a dirittura e spontaneo il detto aumentarsi od aggiungersi di concetti a concetti, ed impossibile il parto, per così dire, spontaneo del nostro intendimento (non che della ragione) senza previo accoppiamento colla sperienza. Il perché giudicò imaginari quanti sono i già creduti principi dell’intelletto a priori e trovò, essi non consistere in altro che in un’abitudine provegnente dalla sperienza e dalle sue leggi, ed alla
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quale venga per noi attribuita una pretesa necessità ed universalità. A sostenimento però di questa, nel vero, strana proposizione, si riportò egli alla nota legge o massima universale della relazione tra causa ed effetto. Imperocché, siccome non v’è forza o capacità d’intelletto, la quale valga dal concetto di una cosa guidarne all’esistenza di qualche altra, che sia quinci data come necessaria ed universale, così egli avvisò poterne inferire, qualmente, a manco della sperienza, non avessimo che fosse capace né di accrescere il nostro concetto, né di autorizzarci a siffatti giudizi amplificanti spontaneamente sé medesimi a priori. Che lo stesso raggio solare, il quale indura l’argilla, faccia liquefare nello stesso tempo la cera, cui esso accende, parve ad Hume non poterselo indovinare, molto meno poi legalmente conchiudere
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da verun intendimento per via di concetti, che avessimo di tali cose in prevenzione, e gli parve dalla sola sperienza potersi per noi apparare siffatte leggi. Ma vedemmo invece, nella logica trascendentale, che, sebbene, a dir vero, non ci sia mai permesso di sortire immediatamente dal contenuto (dalla materia) del concetto, che ci è dato, siamo al caso di tuttavia conoscere in via pienamente anticipata la legge di copulazione con altre cose, quantunque solo nella relazione con il terzo, vale a dire colla sperienza possibile, per conseguente, a priori. Se dunque squaglia, solida poc’anzi, la cera, potrai sapere a priori, che dev’essere preceduto qualche cosa (p. e. il calore del sole), a cui conseguisce il detto squagliamento in forza di una legge costante; quantunque non ti sia concesso di rilevare a priori,
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e senza la sperienza, né dall’effetto la causa, né dalla causa l’effetto, e neppure di l’una o l’altro determinare, a manco di esserne dalla sperienza istruito. Gli è dunque a torto ed in onta del vero che dall’accidentalità della nostra determinazione, conforme alla legge, il filosofo conchiuse accidentalità della stessa legge e che scambiò il trasportarsi, dal concetto di alcunché, alla sperienza possibile (il che ha luogo a priori e costituisce la realtà obbiettiva di quel concetto) colla sintesi degli oggetti, appartegnenti positivamente alla sperienza; la qual sintesi, non v’ha dubbio, essere ognora empirica. Quindi è che dal principio dell’affinità, il quale risiede nell’intendimento ed annunzia necessaria cognizione, Hume ne fece una regola d’associazione, la quale non s’incontra che nell’immaginazione imitativa,
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e non mai congiunzioni obbiettive, ma può solamente presentarne di fortuite.
Ma gl’inganni scettici di questo uomo, cui distingue altronde una penetrazione straordinaria, ebbero specialmente origine dal difetto, ch’egli ebbe tuttavia comune con quanti furono dogmatici, quello, cioè, di non tutte sistematicamente percorrere e fissare le specie della sintesi dell’intelletto a priori. Ché, altrimenti, nel decreto fondamentale, p. e., della perseveranza, per non costì far menzione degli altri, egli avrebbe trovata una massima, la quale precede la sperienza, niente meno che la legge di causalità. E così, mediante una tale anticipazione, avrebbe anch’egli potuto fissare confini determinati alla ragione pura non meno, che all’intelletto, che si dilata a priori. Ma non facendo egli che restringere il nostro
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intelletto, anzi che lui prescrivere limiti, produsse bensì una diffidenza universale, ma niuna determinata cognizione di quella, che non possiamo evitare, ignoranza. E sottoponendo alla censura alcune leggi dell’intelletto, senza la intiera potestà dello stesso intelletto cimentare, non che sottoporre, alla pietra di paragone della critica, mentre lo dichiara incapace di quanto essa potestà non può effettivamente somministrare, non si arresta il filosofo, ma contrasta in oltre all’intendimento qualunque facoltà di allargarsi a priori, non ostante che non abbia istituita perizia sul merito di quanta è la intellettuale. E così avvenne pure ad Hume ciò, che sempre invilisse il setticismo, voglio dire, di essere poste in dubbio esso medesimo, dacché le di lui obbiezioni poggiano sopra fatti, che sono accidentali, anzi che poggiare
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su principi, che atti fossero produrre un rifiuto necessario al diritto delle asserzioni dogmatiche.
Siccome poi quest’autore non conosce distinzione veruna tra i diritti dell’intelletto e le pretensioni dialettiche della ragione, contro le quali vanno pure diretti specialmente i suoi colpi, così, non essendo quindi né punto né poco disturbata, ma solo trattenuta, la spinta propria della ragione, questa sente non essere affatto chiuso per anco lo spazio al di lei allargamento; e, quantunque tribolata qua e là ne’ suoi tentativi, non è però mai ch’ella ne venga pienamente rimossa. Ché l’armarsi alla difesa contro i mossi attacchi, anzi l’incapricciarsi via davvantaggio, onde venire a capo di sue pretensioni, sono cose troppo naturali. Dove che, in vece, un calcolo esatto e compiuto di tutte le sue facoltà e la quindi
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emergente persuasione di un tenue possedimento, non ostante la vanità di maggiori pretese, pongono fine ad ogni controversia e ci riducono a starci tranquilli e contenti ad una limitata e mediocre sì, ma certa ed incontrastabile proprietà.
Questi attacchi scettici sono pericolosi non solo, ma sì anzi eziandio rovinosi e fatali, ove rivolti contro il dogmatico mancante di critica e che non abbia misurata la sfera del proprio intendimento, quindi non determinati, in forza di principi, di sua possibile cognizione i confini: ond’è ch’ei non sa, in prevenzione, quanto stia in suo potere, ma crede soltanto poterlo scoprire per via di tentativi ed esperimenti. Imperocché, se avviene, che tu lo sorprenda in una sola asserzione, ch’egli non sappia giustificare; mentre non è però neppure capace di svolgere l’illusione per via
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di principi, eccoti che il sospetto si dilata e cade su tutte, non ostante qualunque forza persuasiva, onde le fossero dotate.
Per le quali cose, viene lo scettico ad essere il correttore del sofista dogmatico, richiamandolo ad una sana critica dell’intelletto e della stessa ragione. Ove sia quello pervenuto, al qual punto, non ha più da temere né offese né opposizioni; poiché già distingue il proprio possesso da tutti quellino, che lui sono stranieri, e sa, non doversi egli arrogare su questi così lontani alcun dritto, come sa di non poter essere implicato in controversie rispetto ai medesimi. Così, quantunque non soddisfacente per sé stesso il procedere scettico, nel rispondere alle inchieste della ragione, riesce tuttavia di un esercizio preparatorio a risvegliare la di lei circospezione, non che ad indicarle i
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mezzi più solidi, onde secura mantenersi ne’ suoi legittimi possedimenti.