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Parte prima

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Indice

Introduzione

Parte I Esposizione della Filosofia di Kant

Art. I. Teoria della Sensibilità pura. Modo con cui si formano in noi le percezioni degli oggetti sensibili. Dello Spazio e del Tempo

Art. II. Teoria dell’Intelletto puro. Generazione delle leggi universali che regolan gli oggetti sensibili. Categorie e forme del pensiero. Schematismo. Riflessione trascendentale. Natura

Art. III. Teoria della Ragione pura. Della legge dell’assoluto. Delle Idee trascendentali. Paralogismi, antinomie, e ideale della Ragione pura. Delle prove specolative dell’esistenza di Dio

Art. IV. Teoria della Ragione pratica. Sentimento fondamentale della coscienza. Libero arbitrio. Imperativo categorico. Unione necessaria delle due tendenze verso la felicità e verso il dovere. Immortalità dell’anima. Dio

Parte II Esame della Filosofia di Kant

Art. I. Esame della Teoria della Sensibilità pura

Art. II. Esame della Teoria dell’Intelletto puro

Art. III. Esame della Teoria della Ragione pura

Art. IV. Esame della Teoria della Ragione pratica

Art. V. Esame della Filosofia sperimentale opposta alla trascendentale di Kant


ARTICOLO IV.

Teoria della Ragione pratica.

Sentimento fondamentale della coscienza – Libero arbitrio. – Imperativo categorico. – Unione necessaria delle due tendenze verso la felicità e verso il dovere. – Immortalità dell’Anima. – Dio.

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Tutto quello che l’Uom percepisce o concepisce nel mondo sensibile per mezzo della sua Sensibilità e del suo Intelletto, prosegue l’Interprete di Kant, non è che fenomeno, apparenza, illusione: tutto il mondo intelligibile ch’ei si crea colla sua Ragione pura non è che un fantasma ideale, un ente di ragione. Niun oggetto reale, niuna reale esistenza ei può arrivare a conoscere fuor di sé stesso.

Ma questo oggetto reale ei lo conosce finalmente in sé stesso. Egli è, è in sé, è una cosa reale, un noumeno; e questa sua maniera d’essere in sé, ei l’apprende immediatamente della sua propria coscienza.

In due modi però egli può ravvisare sé stesso; 1. mediatamente considerando sé medesimo per mezzo della sua Sensibilità, e del suo Intelletto; e allora ei diventa per sé stessa un oggetto percepito e concepito, come tutti gli altri, un fenomeno, una parte della Natura sensibile; ei suppone in sé medesimo un corpo ed un’anima, e in questa supposizione egli è soggetto riguardo a sé medesimo a tutte le illusioni del mondo fenomenale: 2.

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immediatamente pel sentimento fondamentale del suo essere, ripiegando la sua coscienza sopra la sua coscienza; e si scopre allora tal quale egli è, come noumeno, come oggetto insieme e subbietto, come cosa reale e realmente esistente.

Né può egli temere, che questa sua coscienza, questa immediata percezione che ha di sé stesso, sia ideale e illusoria come le altre. Perciocché ei sente in sé medesimo non solamente la facoltà di conoscere e di sapere, ma anche quella di volere e di agire; e gli atti della sua volontà che determinan le sue azioni, ei sente che partono da lui medesimo, che sono realità, le quali hanno in lui medesimo la lor sorgente e il loro principio; e son quindi perpetui mallevadori della sua propria realità.

Se la vita dell’Uomo non avesse altro scopo finale che il sapere, s’ei stesse immobile sopra il mondo che osserva, se finalmente non fosse che uno specchio dell’Universo unicamente organizzato a ricevere delle immagini a misura che si presentassero, a qual certezza potrebbe egli appoggiarsi, quando scoprisse, che queste immagini, vere in quanto immagini, sono false come oggetti effettivi? La sua esistenza sarebbe un sogno, ed un’illusione continua. Ma ei vuole, egli agisce; gli atti della sua volontà sono realità effettive; sono essi dunque la prova più indubitata della realità della sua esistenza.


Sente egli oltreciò che la sua facoltà di volere non è sottoposta in alcun modo alle leggi della facoltà di conoscere; che è

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indipendente e spontanea; che è per la stessa un principio attivo; che si determina da se stessa; che insomma egli è libero. Né v’ha raziocinio o sofisma che possa a lui togliere quest’intima persuasione, questa coscienza intima ch’egli ha della propria libertà.

Il sofisma per esempio, che «essendo tutto ciò che accade nella natura prodotto da una causa, anche gli atti della volontà debbon essere necessariamente determinati da qualche causa», non può aver presa sopra di lui; perciocché egli sa, che la natura e tutto ciò che vi accade non son che fenomeni, sa che causa ed effetto non sono leggi delle cose in sé, ma puri concetti del suo intendimnto; vede egli per conseguenza, che non han punto che fare cogli atti della sua volontà, che sono di un ordine totalmente diversi, che sono prodotti immediati di una cosa in sé, quale è egli medesimo.

Nell’atto però ch’egli sente di esser libero, sente eziandio di avere nell’essenza medesima della sua coscienza delle regole per dirigere la sua volontà; e in quanto siffatte regole si stabiliscono e si annunziano sotto la forma di un concetto assoluto, appartengono alla Ragione, che allora prende la qualificazione di Ragione pratica.


Due tendenze distinte ed opposte l’Uomo sente in sé stesso, l’una delle quali lo trae al ben-essere, alla felicità, l’altra lo spinge al giusto, al buono, alla virtù. L’una gli grida: Sii felice; l’altra: Sii virtuoso.

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I Moralisti e antichi e moderni arrestati dall’antinomia di questi due Principi, e disperando di conciliarli, hanno preso diversamente partito per l’uno o per l’altro.

L’Epicureo ha adottato per principio supremo della Morale la tendenza verso la felicità: lo Stoico al contrario l’inflessibile necessità del buono e del giusto.

Tutti i sistemi di Morale si riferiscono a questi due principali sistemi. Gli uni han posta la felicità or nei piaceri sensuali, ora in quelli de’ sentimenti dell’animo, della beneficenza, dell’amicizia ec., restando la felicità per principio e scopo finale, e non essendo il resto considerato che come mezzo per arrivarvi. Gli altri han veduto nella necessità del giusto e del buono ora il riposo dell’anima, ora la perfezione dell’uomo, or la sommissione alla volontà divina ec.

Una terza opinione ha cercato di unire le due tendenze non facendone che una, e sforzandosi di provare che la felicità si trova costantemente nell’esercizio del buono e del giusto; ma questa conciliazione è illusoria; perciocché il sentimento d’aver bene operato, comeché sia un sostegno, un conforto, non toglie che uno non possa contuttociò essere infelice.

Kant lasciando separatamente sussistere l’uno e l’altro principio, perché l’uno e l’altro sono egualmente nell’Uomo, gli ha riguardati sotto di un nuovo aspetto, e conciliati in una nuova maniera.

Egli ha cercato in primo luogo se uno di

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questi Principi avesse il primato sopra dell’altro, ed ha trovato realmente che il primato appartiene al secondo.

Sii felice, grida la voce interiore, se puoi e se vuoi: tu vi tendi per te medesimo, egli è un bisogno della tua natura: io non comando, e non divieto.

Ma quando la medesima voce interiore ne grida: Sii giusto, fa il bene, ella adopera tutt’altro tono. Non dice più: Se puoi e se vuoi; ella ordina e prescrive senza restrizione o eccezione; intima senza riserva: Fa d’uopo, tu devi; e ministri del suo potere la stima e il disprezzo vegliano all’esecuzione della legge.

L’Uomo resta libero tuttavia: la legge è precisa, ma non lo costringe. Fa d’uopo sotto pena del disprezzo: Tu devi sotto pena di arrossire a’ tuoi propri occhi. Del resto agisci pur come vuoi: se l’inclinazione al ben-essere ti alletta più che l’inclinazione al buono ed al giusto, nulla ti vieta di secondarla. Ma secondandola, una voce più possente in te che qualunque sentimento di piacere o di dolore, una voce superiore all’Uomo della natura ognor grida: Tu non devi mai ricercare il tuo ben-essere e la tua felicità a spese del giusto e del buono; anzi pure sentenziando sopra la proposizione inversa, grida del pari: Tu devi fare ciò che è giusto anche a spese del tuo ben-essere e della tua felicità.

Questa voce inflessibile e incorrottibile non è più quella dell’Uomo della natura, è quella dell’Uomo in sé stesso, innalzato sopra tutta la natura, indipendente da ogni legge

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esteriore. E la sua libertà consiste nel pieno e spontaneo potere di determinarsi fra questi due contrari Principi, d’agire e di volere come Uom sensuale, o di agire o di volere come Uomo razionale.

Da quanto si è detto risulta che il primato morale appartiene al principio disinteressato del giusto e del buono, il qual comanda e impone de’ limiti al principio interessato del benessere e dell’amor proprio.

E l’obbligo di adempiere senza riserva la legge interiore, che ci mostra il giusto e il buono come regola delle nostre azioni e delle nostre volontà, è ciò che si chiama Dovere.


Poichè l’Uomo è libero nella sua volontà, le leggi che ne regolan l’esercizio debbon esser fondate nell’Uomo stesso. Ciascuno porta dentro di se la legislazione suprema della sua condotta. La Ragione pratica in ogni Essere ragionevole è la propria legislatrice.

Segue da ciò naturalmente, che la legislazione d’ogni Ragione individua deve esser tratta da lei medesima, non già da alcun oggetto esteriore. Non farà dunque l’allettamento delle sensazioni piacevoli, né quello del ben-essere, non la considerazione della salute e dell’interesse dell’individuo nell’ordine delle cose naturali, non quello della salute e dell’interesse d’un certo numero d’individui, d’una famiglia, d’una nazione ec.; non farà nemmeno l’interesse della propria perfezione, nemmeno l’ubbidienza ad una Volontà soprannaturale; finalmente non sarà alcun oggetto fuori della Ragione, e

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nemmeno alcun risultato de’ suoi atti quello che formerà il principio fondamentale e formale della sua legislazione. Questo principio dovrà esser tale che non dipenda né dalle circostanze né dalle inclinazioni, e non lasci luogo a presupporre altro principio da cui derivi.

La Ragion pratica non prescriverà dunque nulla che tenda verso un fine qualunque fuori di lei. Tutto ciò ch’ella prescriverà, lo prescriverà a un tal modo, perché tale è l’essenza della Ragione, ed ella cesserebbe d’esser Ragione, se prescrivesse altramente. Questa verità può esprimersi nella seguente maniera: La Ragione debb’essere a sé medesima il proprio motivo ed il proprio scopo.

Quando io sono ben penetrato da questo principio, dice Villers, ogn’Essere dotato di Ragione acquista a’ miei occhi l’alta importanza e il diritto irrefragabile d’essere scopo a sé medesimo; ogni pretensione di assoggettarlo a’ miei fini particolari, di abbassarlo alla condizione di mezzo sembrami l’iniquità più assurda. L’applicazione del principio ha luogo per qualunque persona dotata di ragione; e così le assicura l’indipendenza, la consistenza personale, la spontaneità, senza di cui sarebbe degradata dallo stato di Essere ragionevole. Questa legge di eguaglianza e d’indipendenza razionale è contenuta nella seguente formola: Riguarda costantamente e senza eccezione l’Essere ragionevole come fine a sé medesimo, non come mezzo per altri.

Se l’Essere ragionevole fosse destinato a vivere e ad agir solo, gli basterebbe di non mai

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prescrivere alla sua Ragione altri fini che sé medesimo, di non mai agire se non conformemente alle proprie inclinazioni, in quanto non contraddicessero ai precetti della sua Ragione. Ma destinato a vivere, ad agire, ad esercitare una certa influenza fra i suoi simili, l’Essere ragionevole dee avere attivamente ad essi riguardo. Dee lor concedere i medesimi diritti, la medesima legislazione, la medesima indipendenza per giugnere a’ loro fini individui. Il precetto della Ragione in questo caso si esprimerà a questo modo: Opera in guisa, che il motivo prossimo, ossia la massima regolatrice della tua volontà possa divenire una regola universale nella legislazione di tutti gli Esseri ragionevoli.

Questi due precetti assoluti, che costituiscon l’essenza di ogni Ragione pratica, sono i Principi de’ Principi, i Principi primi e fondamentali d’una legislazione morale fondata sopra la Ragione. Kant ha nominato questi precetti, per l’autorità irrevocabile e senza restrizione con cui si stabiliscono da sé stessi, l’IMPERATIVO CATEGORICO della coscienza.

Nella sommissione a questo imperativo consiste la Moralità dell’Uomo; e nel sentimento ch’egli vi si sottomette liberamente consiste la sua Dignità. Lo stato d’una volontà sempre disposta a conformarvisi è uno stato al di sopra di quello dell’Uomo, cui le inclinazioni e le voluttà del mondo sensibile trascinano suo malgrado ad ogni istante. Un tale stato è quello della perfetta Moralità, a cui però dee l’Uomo tendere incessantemente.

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Dalle due leggi supreme dianzi esposte derivano tutte le leggi particolari d’una morale razionale. Queste s’annunziano tutte coll’autorità della fonte da cui discendono; ciascuna è un imperativo, un dettame della Ragione pratica.

Da queste medesime leggi supreme i precetti secondari e subordinati, su cui si fondano alcuni edifici particolari di Morale ricevono una validità e una purità tutta nuova. Per esempio quello dell’amor di sé che preso in sé stesso comanda indefinitamente la ricerca di tutto ciò che ne può esser piacevole, si trova da quelle modificato in questa guisa: Fa tutto ciò che ti ordina l’amor di te stesso, purchè tu non facci servire di mezzo a’ tuoi fini niun Essere ragionevole, e purché il tuo desiderio possa divenire una legge universale, che valga per tutti gli Esseri dotati di ragione.

Il principio Stoico del perfezionare sé stesso modificato dalla legislazione suprema dell’Imperativo categorico si presenta così: Ricerca la tua perfezione individua, ma senza abbassare per questo fine alcun altro Uomo senza far servire alcun Essere ragionevole di mezzo all’adempimento delle tue mire.

Il precetto de’ Cristiani, altronde sì bello e sì convenevole all’Uomo: Non fare al tuo prossimo se non ciò che vorresti che a te fosse fatto, si collega in questa guisa col precetto supremo della Ragione: Non desiderare per te e pel tuo prossimo che gli oggetti i quali possono convenire nella legislazione universale di tutti gli Esseri ragionevoli.

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Per questo modo la legislazione suprema della Ragione non rigetta alcuna delle massime morali fondate nella natura dell’Uomo, e che sono l’espressione delle sue diverse tendenze: solamente le rettifica e le sanziona, subordinandole in maniera assoluta a’ suoi precetti. Questi soli rimangon Principi, archie, regole fondamentali: gli altri son mezzi sussidiari che la Morale impiega; ma suppongono sempre e necessariamente i primi, e tacitamente su questi riposano.


Or tornando alle due tendenze contraddittorie, che si manifestan nell’Uomo morale, e che amendue pretendono la direzione della sua condotta: l’Uomo aspira ad esser felice; l’Uomo sente di dover essere virtuoso: la felicità lo tira da una parte; il dovere gli comanda dall’altra.

Noi abbiamo veduto, che la felicità è subordinata al dovere, che questo è inflessibile, e non può in verun caso rilasciar nulla delle sue pretensioni.

L’Uomo in mezzo ad amendue e armato della sua libertà si decide a suo talento per l’una o per l’altro. Da una parte è la soddisfazione delle sue inclinazioni, dall’altra l’adempimento delle leggi imperative della sua coscienza. Là il piacere, il godimento, la felicità lo attendono; qui la stima di sé stesso, e quella voce d’interna approvazione: Tu fai ciò che devi.

Questi due Principi estremi, durante il corso della vita dell’Uomo e nel torrente del

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mondo sensibile, si trovano quasi sempre in opposizione, dimanieraché fare il proprio dovere, ed esser felice sono troppo sovente due cose assai diverse. A che s’ha egli a determinare? Fra il dovere e la felicità s’interpone l’intima coscienza, che s’alza per conciliarli. Questa nuova sua voce egualmente forte come quella che parla per la felicità, come quella che comanda il dovere, perché è la voce di tutto l’Essere, dice assolutamente: L’Uomo non è degno della felicità, se non in quanto fa il suo dovere: l’Uom vizioso in vece è degno di pena.

La felicità annessa all’adempimento del dovere, cioè alla virtù, la pena annessa al vizio, è legge inalterabile impressa nella realità del mio essere. Io non posso essere quel che sono e non credervi. Questa legge è la mia stessa Ragione pratica, in quanto esprime le sue proprie affezioni. Veder la virtù felice, e il vizio infelice, veder ciò come uno scopo finale d’una irrevocabile necessità, è un bisogno invincibile della mia Ragione pratica. Io non posso esistere come Ente dotato di volontà e d’attività che in questa credenza. La felicità appartiene all’Uom virtuoso: non v’ha ragionamento che possa distruggere questo fatto stabilito dalla mia coscienza.

Contuttociò questa viva legge della mia coscienza è quasi sempre smentita nel mondo sensibile e fenomenale che è nello spazio e nel tempo, in questo mondo ov’io abito fra due istanti, cui chiamo la nascita e la morte.

Io son dunque costretto ad adottare (perché io sono Ragione, perché io sono essere,

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perché l’illusione non è fatta che pel mondo fenomenale, perché le due tendenze dell’Uomo reale in sé sono di piena realità, perché finalmente la sua tendenza alla virtù, e la sua tendenza alla felicità, divergenti nella vita sensibile, debbono ben convergere ed unirsi ad uno scopo finale, e dee una volta verificarsi quest’intima manifestazione: la felicità appartiene di diritto all’Uom virtuoso) io sono, dissi, costretto ad adottare, che l’Essere ragionevole uscendo dal mondo fenomenale troverà in quello delle cose in sé la virtù e la felicità riunite.

Vale a dire, per parlare il linguaggio degli oggetti sensibili sottoposti alla successione nel tempo, l’Essere ragionevole è immortale; e dopo questa vita fenomenale saravvene un’altra, dov’egli troverà il premio della sua virtù nella felicità.

Se ciò non fosse, i risultati immediati della più profonda realità del mio essere sarebber menzogne, il mio essere medesimo sarebbe una menzogna; sarebbe falso ch’egli esistesse.

Se ciò non fosse, tutta la mia esistenza sarebbe una contraddizione continua, assurda, inesplicabile. Io porto in me la mia legislazione, l’ordine d’essere virtuoso, il bisogno di diventare felice; e la felicità non diverrebbe mai il premio della virtù! e l’io morale, degli Esseri a cui mancasse uno scopo, una finalità ragionevole!

Se ciò non fosse, perché l’Uomo dovrebbe egli sopportare una vita, dove nulla corrisponde al bisogno della sua coscienza? una vita,

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dove la felicità e la virtù, ch’ei vede unite nella sua idea, son così spesso disunite nel fatto? Il suicidio diverrebbe per la metà del genere umano un ricorso indispensabile.

Ma se ciò è, lo Stoico ha ragione quand’egli dice, che l’Uom dabbene lottante coll’avversità è lo spettacolo più degno degli Dei.


E come dubitar che ciò sia? Uno stato, dove la presente contraddizione fra la virtù e la felicità si troverà conciliata; una vita reale, ove per conseguenza l’Essere ragionevole non sarà più sottomesso alle forme subbiettive d’estensione, di durata, di causalità, d’esistenza ec.; la certezza d’un tale stato e d’una tal vita; la ricompensa dovuta al giusto, la punizione dovuta al malvagio, sono il risultato immediato del sentimento della mia vita, e dei sentimenti morali, che in questo sono essenzialmente compresi, son cose che mi son date immediatamente quand’io discendo nel più intimo del mio essere, ove mi trovo tutt’insieme obbietto e subbietto, e dove non interpongo più fra me e me tutto il giuoco e il meccanismo della mia cognizione.


In questo santuario del mio essere io trovo la necessità di premio e di pena: dunque la necessità di un Giudice.

Io vi trovo una voce più possente delle mie inclinazioni che ordina il giusto: questo tipo del giusto e del buono mi è dato: vi ha dunque una Giustizia e una Bontà assoluta e in sé.

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La Ragione pratica, che è la realità delle realità, è invariabile, è la stessa presso tutti gli Esseri ragionevoli finiti; v’ha dunque una ragione suprema, universale, infinita, che si manifesta a tutti, che annunzia a tutti le medesime leggi.

Questa Ragione suprema, quella Giustizia e questa Bontà assoluta, questo Giudice rimuneratore della virtù, è DIO.

Dio m’è dato nel segreto della mia propria vita; ei si manifesta in me per l’imperativo della mia coscienza; ei si rivela per mezzo della virtù. La sua volontà è la legge dell’ordine morale universale: la Ragione sovrana non vuole che ciò ch’è sovranamente ragionevole.

Questa cognizione semplice e immediata di Dio data dal cuor dell’Uomo è ben più imperturbabile, più viva, più chiara di quella a cui pretende di sollevarsi col suo spirito. Perciò trovasi pura e viva presso di tutti gli Uomini. La certezza logica valutabile nel mondo fenomenale sparisce qui, e fa luogo alla certezza morale.

Da questa certezza morale però dell’esistenza di Dio anche le prove teoretiche della Ragione specolativa ricevono un’importanza ed una sanzione che le rende rispettabili al Filosofo, nel tempo stesso che l’adozione di questa medesima prova morale finisce di togliere ogni consistenza agli argomenti della specolazione contra l’esistenza di Dio. Per esempio la prova fisico-teologica, cavata dall’ordine che regna nell’universo visibile, si fortifica qui da

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questa doppia riflessione, che la più mirabile armonia regna nelle leggi dell’ordine morale, e che se noi potessimo, come conosciamo l’universo fenomenale, così conoscer le cose quai sono in se stesse, vi scopriremmo senza dubbio un ordine degno di quello che è il fonte d’ogni ragione e d’ogni giustizia.

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