Prima contraddizione delle idee trascendentali
Scolio all'antinomia prima
Seconda contraddizione delle idee trascendentali
Scolio all'antinomia seconda
Terza contraddizione delle idee trascendentali
Scolio dell'antinomia terza
Quarta contraddizione delle idee trascendentali
Scolio all'antinomia quarta
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Tutta quanta l’antinomia della ragione pura verte sulla seguente argomentazione dialettica: dato e
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posto il condizionato, è pure data l’intiera serie delle condizioni del
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medesimo; ma gli oggetti dei sensi ci sono dati come condizionati, per conseguenza ecc. Ora con questo raziocinio, la cui proposizione superiore sembra sì manifesta e naturale, secondo la diversità delle condizioni (nella sintesi delle apparizioni), in quanto costituiscono desse una serie, vengono introdotte altrettante idee cosmologiche, dalle quali è postulata la totalità assoluta delle serie respettive; con che appunto esse trascinano la ragione ad essere inevitabilmente in contraddizione con sé medesima. Ma, prima di farci alla scoverta di quanto v’ha di falso ed ingannevole in cotesto argomento sofistico, ci è mestieri prepararci a tale impresa, rettificando e definendo alcuni concetti, che nel detto raziocinio s’incontrano.
È chiara, in primo luogo, ed, a non dubitarne, sicura la proposizione,
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la quale stabilisce, che, dato il condizionale, appunto perché dato, ne viene anche proposto un regresso nella serie di tutte quante le di lui condizioni. Perciocché gli è già inerente al concetto del condizionale, o subordinato a condizioni, che alcunché, per ciò stesso, riferiscasi quinci ad altra condizione più remota e così lunghesso tutti gli articoli della serie. È dunque analitica la detta proposizione e trovasi al sicuro da ogni timore di una critica trascendentale. Essa consiste nel postulato logico della ragione, che mira te tener dietro, coll’intendimento, a quella congiunzione di un concetto colle sue condizioni, che trovasi già inerente al concetto medesimo, non che a progredire il più lontano possibile, inseguendola.
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Oltre di che, se tanto il condizionato, quanto la sua condizione, sono cose in sé stesse, in tal caso, dato una volta il primo, non solo è proposto il regresso al secondo, ma questo è, per ciò stesso, effettivamente già dato insieme a quello; ed, avendo siffatto argomento valore per tutte le anella della respettiva catena, viene a quindi essere data, nello stesso tempo, la intiera serie delle condizioni ed è, per conseguenza, dato eziandio l’assoluto, o viene anzi presupposto essere dato il condizionato, come tale, che non sarebbe stato neppure possibile, a meno di quella serie. Costì la sintesi del condizionato colla sua condizione consiste in una sintesi del solo intelletto, il quale rappresenta le cose quali sono senza darsi cura né del se, né del come, potremo giungere alla cognizione delle medesime. Allorquando,
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per lo contrario, abbiamo che fare con apparizioni, che non sono punto date come semplici rappresentazioni, se non perveniamo a conoscerle (vale a dire, se non giungiamo sino ad esso loro; poiché in altro le non consistono che in cognizioni empiriche), non siamo già, in tal caso, autorizzati a dire, che, dato il condizionale, sieno pure date le di lui condizioni tutte quante (in qualità di apparizioni); e, per conseguenza, non possiamo, conchiudendo, inferire l’assoluta totalità della serie delle medesime. Perciocché nel comprendimento altro non sono le stesse apparizioni, tranne una qualche sintesi empirica (nello spazio e nel tempo) e non vengono perciò date che in questa. Del che non è punto conseguenza, che, dato (nell’apparizione) il condizionale, sia pure data seco lui e premessa la sintesi, che ne costituisce la condizione
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empirica; poiché tal sintesi non ha luogo prima che nel regresso, e senza il medesimo non mai. Bensì che ne sarà lecito in tal caso asserire, qualmente vien proposto, se non anzi prescritto, un regresso alle condizioni, vale a dire, una continuata sintesi empirica dalla parte loro, e che non sarà mai per essere penuria di condizioni, come di quelle, che offerte vengono la mercé di siffatto regresso.
Dal che risulta manifesto, che nella maggiore (preposizione) del raziocinio cosmologico il condizionato vien preso in significazione trascendentale di una categoria pura; che nella minore (assunzione) però lo si riceve nel senso empirico di un concetto intellettuale, applicato a mere apparizioni; e che, per conseguenza, in tale raziocinio si riscontra quell’inganno dialettico, al quale si dà nome di sophisma figurae
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dictionis. Anzi che però fosse artifizioso cotale inganno, esso consiste in una illusione affatto naturale della comune ragione. Con ciò sia che, in grazia di questa, noi supponiamo (nella preposizione), comeché inavvertite, le condizioni e la serie loro, alloraquando è dato qualche cosa come condizionale: altro non essendo questo che il precetto logico, il quale ne impone di ammettere le intiere premesse ad una conclusione data; il perché non è mai che si riscontri alcun ordine di tempo nella congiunzione del condizionato colla sua condizione; quindi è che le condizioni e serie in discorso vengono presupposte, quasi che per sé date insieme (col condizionale). Egli è in oltre altrettanto naturale (nell’assunzione o minore) il risguardare quali cose per sé le apparizioni e quasi che date al mero intelletto,
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siccome accade nella preposizione (maggiore), facendosi per noi astrazione da tutte le condizioni della visione, in grazia delle quali soltanto possono essere offerti gli oggetti. Nel che però fu per noi trascurata una differenza di moltissimo rimarco fra i concetti. Alla sintesi del condizionale sì colla condizione, cui esso va subordinato e sì con tutta la serie delle condizioni, era ben lungi (nella maggiore) dall’essere inerente né alcuna circoscrizione di tempo, né il menomo concetto di successione. Ora, per lo contrario, è necessariamente successiva la sintesi empirica nell’apparizione (presunta nella minore), né può esservi data che una dopo l’altra nel tempo la serie delle condizioni; per la qual cosa io qui non poteva presupporre, come ho là presupposta, la totalità assoluta della sintesi e della serie
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quindi rappresentata; stante che ivi sono tutti dati per sé (senza la condizione del tempo) gli articoli della serie; mentre costì non sono possibili che mediante il regresso consecutivo; il qual regresso non è dato altrimenti che in quanto lo si compie nel fatto.
Dopo la convinzione di cosiffatto errore nell’argomentazione, cui si pone ordinariamente a fondamento (delle asserzioni cosmologiche), potrebbero essere ad ogni buon dritto rimandate ambedue le parti combattenti; come quelle, che la presunzione loro appoggiano ad un argomento, che manca (esso medesimo) di base. Con ciò per altro non avrebbe ancor fine la contesa loro; giacché non basterebbe avere, con vinte le parti, od una delle due comeché le avessero torto nella cosa medesima, cui sostengono (nella conclusione), atteso che non avevano,
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per avventura, saputo agguerrirla di solidi e valorosi argomenti. Conciossia che nulla di più evidente come pare, che delle due fazioni una delle quali pretende, avesse il mondo incominciamento, l’altra sostiene, ch’ei non ebbe alcun principio, ma esiste ab eterno, debba la ragione competere a questa od a quella. Dato però anche ciò, è tuttavia sì pari d’ambidue i lati la chiarezza, che riesce impossibile il rilevare da qual mai parte militi la verità e si protrae interminata per sempre la controversia, non ostante che il tribunale della ragione abbia sentenziato riposo e pace alle fazioni. Non rimane dunque altro spediente, per cui terminare con ragionevolezza non pure che soddisfazione d’ambedue la lite, se non quello di fare in modo, che possano sì bellamente confutarsi a vicenda le parti, perché vengano
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finalmente persuase ch’elleno si straziano per un nulla; e che una certa quale illusione trascendentale abbia loro dipinta la verità, ove non è chi possa incontrarla. Or via poniamoci su questo cammino di comporre un litigio, cui non può altronde (con sentenza decisiva) giudicarsi.
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L’elestico Zenone, dialettico sottile, fu già redarguito aspramente da Platone, qual temerario sofista, che, per ostentazione dell’arte sua, davasi con illusori argomenti a provare proposizioni d’ogni maniera ed tantosto, con altri argomenti d’egual forza, farvi contro e distruggerle. Egli sosteneva, che Dio (probabilmente il suo dio non era che il mondo) non fosse né finito né infinito, né in movimento né in quiete, né simile né dissimile ad altra cosa che fosse. A coloro, che su
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di ciò lo giudicarono, parve ch’egli si proponesse di affatto impugnare due proposizioni, ogni qualvolta esse fossero fra di loro contradditorie. Il che ha dell’assurdo; quantunque io non vegga, perché ciò potesse apporsegli, con ragione, a delitto. Dovendo fra non molto esaminare davvicino la prima delle accennate progressioni, per ciò che risguarda le altre, osservo, qualmente, se quel sofista sotto la parola Dio intendeva l’universo, non egli poteva, in tal caso, a meno di pronunziare, un tal dio non essere né perseverantemente presente (in riposo) al suo posto, né ch’esso un tal posto cambiasse (fosse in movimento); giacché, tutti essendo unicamente nell’universo i luoghi, non può essere lo stesso universo in verun luogo. In oltre, se l’intiera università delle cose comprende in sé tutto quanto esiste, sotto questo rapporto non
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sarà essa né simile né dissimile ad alcun’altra cosa, non dandosi fuori di lei altra cosa, colla quale potesse quella paragonarsi. Allorché due giudizi, ripugnanti a vicenda fra loro, presuppongono (ciascheduno) una condizione impossibile, cadono ambidue, non ostante la contraddizione loro (che non è tuttavia propriamente contraddizione reciproca), poiché manca la condizione, data soltanto la quale, avrebbe valore ciascuna delle dette proposizioni.
Se alcuno dicesse, ogni corpo tramandare odore aggradevole o non aggradevole, potrebbe aver luogo un terzo: non, cioè, guari olezzare (mandar vapori odorosi) ogni corpo; il perché sarebbero false le due prime contrarie proposizioni. Ma se dico, ogni corpo aver buon odore o non darne di buoni (vel suaveolens, vel non suaveolens), sono allora contradditoriamente opposti fra loro i
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due giudizi e non è falso che il primo. L’opposto suo contradditorio però, vale a dire, la proposizione, che stabilisce alcuni corpi non essere piacevolmente odoriferi, abbraccia eziandio i corpi, che non olezzano punto. Nella prima opposizione (per disparata) rimaneva tutatavia, nel giudizio contraddicente, e non era stata perciò tolta con questo, la condizione accidentale, del concetto del corpo (l’odore); quindi è che, il secondo non era l’opposto contradditorio del primo.
In conseguenza di che, se dirò, che il mondo, ne’ suoi rapporti collo spazio, è infinito o non è infinito, essendo falsa in tal caso la prima proposizione, dovrà essere vero il suo ripugnante contrario: il mondo non è infinito. Perciocché non sarebbe che, ammettendo un altro mondo, vale a dire, il finito, che io potrei togliere un mondo
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infinito. Se però dico, il mondo essere o infinito o finito (non infinito), potrebbe falso essere l’uno e l’altro. Conciossiaché in tal guisa io risguardo il mondo come in sé stesso e, rispetto alla grandezza, determinato, stanteché, nella proposizione contraria, non tolgo solamente l’infinità (e forse tutta, con essa, la separata esistenza del mondo), ma una determinazione aggiungo al mondo, come a cosa positiva in sé stessa. Il che può essere ugualmente falso; tuttavolta, cioè, che non dovesse il mondo essere dato qual cosa per sé, quindi neppure secondo la sua grandezza, né come infinito né come finito. Mi sia concesso chiamare dialettico un contrapposto di questa fatta, chiamando però analitica l’opposizione della ripugnanza. E conchiudo, che due giudizi, dialetticamente fra loro contrari, potranno essere falsi
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ambidue; perciocché non solo ripugna l’uno all’altro, ma esprime ciascuno qualche cosa di più che non si richiede alla contraddizione.
Se consideriamo quasi come contradditoriamente opposte a vicenda le due proposizioni, una delle quali dichiara infinito il mondo, rispetto alla grandezza (quantità), l’altra lo giudica, risguardo alla stessa grandezza, finito, supponiamo essere cosa per sé stessa il mondo (l’intiera serie delle apparizioni). Giacché il mondo rimane, sia che io tolga il regresso infinito nella serie delle apparizioni o che tolga nella medesima il finito. Tolta però questa supposizione o questa illusione trascendentale e negato, che il mondo sia cosa per sé stessa, la ripugnanza contradditoria (ex disjunetis) d’ambedue le asserzioni si trasforma in una semplice contraddizione dialettica; e, siccome
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il mondo non esiste punto per sé (indipendentemente della serie regressiva di mie rappresentazioni), così esso non esiste più come un tutto né per sé infinito, né finito per sé. Né occorre mai d’incontrarlo per sé stesso, ma soltanto nel regresso empirico della riserie delle apparizioni. Per la qual cosa, essendo mai e sempre condizionale cotesta serie, non sarà mai ch’ella sia data per intiero. Il mondo non costituisce quindi alcun tutto assoluto e nemmeno esiste, per conseguenza, come tale, né con infinita né con finita grandezza.
Quanto si è detto finora intorno alla prima idea cosmologica, voglio dire, intorno alla totalità assoluta di quantità nelle apparizioni, vale ugualmente rispetto alle altre (idee cosmologiche). La serie delle apparizioni occorre solamente nella sintesi regressiva, non però in sé,
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nell’apparizione, come sarebbe in cosa propria e data prima d’ogni regresso. Quindi è che dovrò in oltre dire, in un’apparizione data, la moltitudine delle parti essere in sé né finita né infinita, perché non è nulla d’esistente per sé stesso l’apparizione e perché non sono prima date le parti che mediante il regresso della sintesi decomponente, anzi non prima che nel regresso medesimo, e che non è mai dato neppur questo assolutamente intiero (tutto), né come finito, né come infinito. Dicasi lo stesso della serie delle cause ordinate fra loro, una sopra l’altra, o dalla esistenza condizionale sino all’esistenza necessaria e senza condizioni (assoluta); la quale non può essere in sé risguardata né come finita, né come infinita, rispetto alla sua totalità. Perciocché, nella sua qualità di serie di rappresentazioni subalterne,
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essa consiste solamente nel regresso dinamico, ma non può in veruna guisa esistere per sé stessa prima del medesimo e come serie di cose per sé consistente.
Per la qual cosa, ecco tolta l’antinomia della ragione pura nelle proprie idee cosmologiche. Il che si ottiene, dimostrando, una tale antinomia non essere che dialettica e consistere nel contrasto di un’illusione; la quale nasce dall’applicarsi l’idea dell’assoluta totalità, che solo ha valore qual condizione delle cose in sé stesse, ad apparizioni, le quali, esistono soltanto nella rappresentanza o nel regresso consecutivo, quando esse costituiscono una serie, ma non esistono altrimenti giammai. D’altra parte, però, quest’antinomia può somministrare, a cui sa cavarcelo, un vantaggio positivo, per verità, non dogmatico, ma tuttavia critico e dottrinale, può, cioè, servire a per
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essa indirettamente convincere la trascendentale idealità delle apparizioni; quando pur fosse chi non si trovasse a bastanza pago della prova diretta, cui offre l’estetica trascendentale. E la nuova prova consisterebbe nel seguente dilemma: se il mondo è un tutto esistente per sé, esso è o finito od infinito. Ora è falso tanto il primo, quanto il secondo (in forza degli argomenti addotti nell’antitesi, per un verso, e degli addotti nella tesi, per l’altro). È dunque ugualmente falso che il mondo (il complesso di tutte le apparizioni) sia un tutto esistente per sé stesso. Dal che segue in oltre, le apparizioni in generale non essere nulla fuori delle nostre rappresentazioni: ed è ciò, cui precisamente alludeva colla idealità trascendentale delle medesime(1).
(1) Perché scompaiano le sin qui più che
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È importante quest’osservazione; siccome quella, onde risulta, che non
diffusamente ragionate contraddizioni, Kant insegna doversi dipartire dallo stile ordinario di considerare il mondo qual cosa per sé stessa e doverselo, in vece risguardare come l’insieme dei fenomeni. E dichiara esserci assolutamente sconosciuta la cosa per sé stessa, come base dei fenomeni, e nella quale deve contenersi l’assoluto, cui fa consistere Kant in un bisogno della ragione, ond’effettuare, a norma delle proprie idee, la totalità delle condizioni.
Rispetto in fatti alla prima delle antinomie, se il mondo consideri qual fenomeno, ti è mestieri ammetterlo infinito in quanto allo spazio ed al tempo; per ciò che lo spazio non conosce limiti, e che ogni fenomeno ne suppone un altro nel tempo. Non puoi dire, all’opposto, come casa per sé stessa, il mondo essere infinito, tuttoché dal non potersi trovare l’assoluto nel mondo sensibile, e quantunque finite le serie dei fenomeni, non ne segua, dovere il mondo assoluto essere finito.
Venendo alla seconda antinomia, la materia
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erano già illusori, ma fondati, gli esposti più indietro argomenti sulla
è divisibile all’infinito, poiché non potrebbe altrimenti esistere nello spazio; e, per conseguente, non può la sperienza condurci mai sino al semplice, rimanendo però sempre occulta è sconosciuta la causa del composto. Quindi è che, non facendoci la sperienza percepire il semplice, non può dirsi, che esso esiste, come non può dirsi, che non esiste, atteso ch’ei può essere contenuto nelle cosa per sé stessa.
In quanto alla terza, essendo che la cosa per sé stessa differisce dai fenomeni essenzialmente, quantunque ne costituisca la base, così essa non può soggiacere alle leggi dei medesimi. Non è quindi necessario perché sia essa determinata esclusivamente dall’efficienza del mondo fisico e potrà esserlo da un’altra, come sarebbe quella della libertà. Ma non prima ne fai un’apparizione, un fenomeno, ch’ella dee conformarsi alle leggi del mondo fenomenico, tuttoché le rimanga la sua causalità particolare; la quale, in tal caso, non è che intelligibile. Il perché si comprende, secondo
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quadruplice antinomia; ritenuta però la premessa, comeché fossero cose per sé stesse le apparizioni e con il mondo sensibile, che le comprende in sé tutte quante. Solché
Kant, come possano coesistere l’efficienza della natura e quella, cui produce la libertà.
Rapporto finalmente alla quarta, nel mondo sensibile non c’è verso d’incontrare l’assoluto necessario, dal quale dipende l’esistenza del moltiplice o delle varietà n’ fenomeni. Solché, dovendo il mondo sensibile avere, a senso di Kant, una base trascendentale, che ci è sconosciuta, potrà esistere in essa l’assoluto necessario. Quindi è che una cosmologia razionale, che al mondo risguardi non come a fenomeno sensibile, ma come a cosa per sé medesima, è impresa, che della ragione trascende i confini. Tutto ciò, che noi conosciamo, riducesi al mondo sensibile od all’insieme dei fenomeni; e, benché atti a conoscerne uno intelligibile, vale a dire, un insieme di cose al di là dei fenomeni, però non ne abbiamo che una qualche idea vaga e vuota di senso.
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la lotta delle indi emergenti asserzioni prova, nella premessa celarsi una falsità e ne guida con ciò allo scovrimento della vera natura delle cose, come oggetti dei sensi. La dialettica trascendentale adunque non è per verun conto sgabello al setticismo; quantunque favorisca il metodo scettico, il quale trova in essa un esempio della sua grande utilità, lasciando che si misurino l’un l’altro all’aperta e colla massima libertà gli argomenti della ragione: dai quali quantunque non si ottenga ciò, cui si cercava, essi però arrecano sempre alcun che di vantaggioso e giovano rettificare i nostri giudizi.