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DELLA CRITICA 

ELEMENTARE TRASCENDENTALE

PARTE SECONDA

LOGICA TRASCENDENTALE

DIALETTICA TRASCENDENTALE

avanti

Indice

Dell'antinomia della ragione pura

Sezione IX. Dell'uso empirico del principio regolativo della ragione, risguardo a tutte le idee cosmologiche

I. Soluzione dell'idea cosmologica della totalità di composizione delle apparizioni di un tutto cosmico

II. Soluzione dell'idea cosmologica della totalità della divisione di un dato tutto nell'intuizione

Scolio finale alla soluzione delle idee matematico-trascendentali, e premonizione alla soluzione delle idee dinamico-trascendentali

III. Soluzione delle idee cosmologiche della totalità di derivazione degli avvenimenti del mondo dalle cause dei medesimi

Possibilità dell'efficienza, mediante libertà, in combinazione colle leggi universali della necessità della natura

Dichiarazione dell'idea cosmologica di una libertà in combinazione colla necessità universale della natura

IV. Soluzione dell'idea cosmologica della totalità di dipendenza delle apparizioni, secondo la loro esistenza, in genere

Scolio finale a tutta l'antinomia della ragione pura

Del secondo libro della dialettica trascendentale

Cap. III. Dell'ideale della ragione pura

Sezione I. Dell'ideale in genere

Sezione II. Dell'ideale o prototipo trascendentale

Sezione III. Degli argomenti della ragione contemplatrice, dai quali conchiudere l'esitenza di un essere supremo

Sezione IV. Dell'impossibilità della prova ontologica per l'esistenza di Dio

Sezione V. Dell'impossibilità di una prova cosmologica dell'esistenza di Dio

Scoverta e spiegazione dell'illusione dialettica in tutte le prove trascendentali dell'esistenza di un essere necessario

Sezione VI. Dell'impossibilità della prova fisico-teologica dell'esistenza di Dio

Sezione VII. Critica mossa dai principi della ragione contemplatrice a qualunque teologia

DICHIARAZIONE DELL’IDEA COSMOLOGICA DI UNA LIBERTÀ IN COMBINAZIONE COLLA NECESSITÀ UNIVERSALE DELLA NATURA

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Ho creduto opportuno abbozzare da prima ombreggiato il disegno per la soluzione del nostro problema trascendentale; onde potesse quindi meglio rilevarsi l’andamento, cui serba in tale scioglimento la ragione. Ora sporremo in dettaglio quei momenti della sua decisione, dei quali specialmente si tratta, e li prenderemo in particolare considerazione ad uno per uno.

La legge fisica, intorno all’aversi una causa da tutto quanto accade, stabilisce, qualmente, siccome l’efficienza, vale a dire, l’azione di questa causa precede nel tempo e non può dessa, rispetto all’effetto quindi prodotto, avere ognora 

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esistito, ma dev’essere accaduta, così compete pure ad essa efficienza, in fra le apparizioni, una causa, che la determini, e che in un ordine di natura empirico sieno tutti, per conseguenza, determinati gli avvenimenti. Ora questa legge, in forza di cui le apparizioni costituiscono finalmente una natura e valgono somministrare oggetti ad una sperienza, consiste in una legge dell’intelletto, dalla quale non è permesso né per qualunque siasi pretesto allontanarsi, né da essa eccettuare alcuna mai apparizione. Ché altrimenti verrebbero queste ad escludersi da ogni sperienza possibile, quindi però ad eziandio distinguersi da tutti gli oggetti della medesima; e le si ridurrebbero a meri esseri d’immaginazione, a capricci e chimere.

Quantunque peraltro abbiasi con ciò unicamente risguardo ad una concatenazione 

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di cause, che non ammette veruna totalità assoluta, nel regresso alle sue condizioni, tuttavia questa difficoltà non è tale da punto arrestarne, come quella, che fu già tolta nella decisione universale dell’antinomia della ragione, che, nella serie delle apparizioni, tende all’assoluto. Se vogliamo piegare alla illusione del realismo trascendentale, non più natura ci resta e non più libertà. Qui è solamente quistione, se, anche riconoscendo nell’intiera serie di tutti gli avvenimenti una mera e pretta necessità di natura, quello stesso effetto, che, per un verso, è solo effetto di natura, sarebbe tuttavia possibile risguardarlo, per altro verso, come un prodotto della libertà, o se fra queste due maniere di causalità s’incontri una diretta contraddizione.

Nell’apparizione certo è che non vi ha nulla fra le cause, che atto 

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fosse a di per sé stesso assolutamente incominciare una serie. Ogni azione, considerata come apparizione, in quanto essa produce un avvenimento, consiste già in un accidente od avvenimento, il quale presuppone un altro stato, in cui venga trovata la causa; e così tutto quanto accade non è che una continuazione della serie, nella quale non può mai essere incominciamento, che avesse luogo per virtù propria e spontanea. Dunque tutte le azioni delle cause naturali, nella successione del tempo, in altro non consistono, esse medesime, che in effetti vicendevoli, i quali cercano e suppongono egualmente le cause loro nella successione del tempo. Un’azione originaria, in virtù della quale abbia luogo alcuna cosa, che prima non era, non è azione, cui possa mai aspettarsi dalla catena causale, che le apparizioni associa e connette. 

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Ma è poi eziandio necessario, quando e perché gli effetti sono apparizioni, che la efficienza della causa loro, la quale (causa) è già pure apparizione, debba essere soltanto empirica? Non sarebbe anzi più leggermente possibile che, quantunque ogni effetto nell’apparizione abbia di tutta necessità un congiungimento colla propria causa, giusta le leggi dell’efficienza empirica, tuttavia, senza menomamente interromperne il contesto colle cause naturali, questa stessa efficienza empirica fosse l’effetto di una causalità non empirica, ma intelligibile? Con che intendo indicare l’effetto della (rispetto ai fenomeni) azione originaria di una causa, la quale perciò, e sotto questo rapporto, non sarebbe apparizione, ma sarebbe intelligibile risguardo alla facoltà in discorso, quantunque la si potrebbe, nel resto, ascrivere benissimo 

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al mondo sensibile, come un anello della catena della natura.

Onde potere investigare, non che indicare, le condizioni fisiche degli avvenimenti naturali, vale a dire, le cause nell’apparizione, abbiamo d’uopo la legge della causalità vicendevole delle apparizioni fra di loro. Ove ci si conceda la qual legge, senza nullamente infievolirla con eccezioni, ha tutto quanto può mai pretendere l’intendimento, il quale, durante l’uso empirico di sue facoltà, non vede che natura, e non è autorizzato a veder altro, in quanti sono gli avvenimenti; e le spiegazioni fisiche progrediscono, senza trovare ostacoli, nel loro cammino. Imperocché non viene minimamente interrotto il corso di queste spiegazioni, quand’anche non fosse altronde che mero effetto d’immaginazione l’ammettere fra le cause naturali anche di quelle, alle quali 

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competesse una facoltà semplicemente intelligibile; non poggiando mai sopra condizioni empiriche la di lei determinazione ad agire, ma sopra fondamenti e ragioni del sole intelletto; in maniera, però, che l’azione di questa causa nell’apparizione sia coerente a tutte le leggi dell’efficienza empirica. Giacché in e tal maniera il soggetto agente, in qualità di causa phaenomenon, si troverebbe indissolubilmente collegato colla natura e colla dipendenza di tutte le sue operazioni; e ciò solo, che in questo soggetto è fenomeno (con tutta l’efficienza del medesimo nell’apparizione), capirebbe in sé certe condizioni, che, volendo salire dall’oggetto empirico al trascendentale, dovrebbero essere considerate come semplicemente intelligibili. Imperocché, se noi ci atteniamo alla legge fisica solamente in ciò, che nelle apparizioni può 

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essere causa, ben possiamo starci tranquilli e non curanti su quale abbiano cagione o fondamento sì nel pensiero coteste apparizioni, sì l’insieme delle medesime nel soggetto trascendentale, che ci sta empiricamente sconosciuto. Siffatto fondamento intelligibile non solletica punto a quistioni empiriche, ma solo risguarda quandomai al pensare nel puro intendimento: e, quantunque vengano riscontrati nelle apparizioni gli effetti di questo pensare ed agire del puro intelletto, esse però debbono potersi, niente per ciò meno, perfettamente spiegare dalla causa loro nell’apparizione, conforme alle leggi di natura. Imperocché non si fa che seguirne il carattere empirico, qual fondamento sapremo della spiegazione (delle apparizioni), ed il carattere intelligibile, in che consiste la causa trascendentale dell’altro, si 

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trascura e trascende affatto, come sconosciuto, se non in quanto vien esso indicato dall’empirico medesimo, come da indizio sensibile del carattere intellettivo. Ora facciamo di ciò applicazione alla sperienza. L’uomo è fra le apparizioni del mondo sensitivo e, come appari zione, appartiene pure alle cause fisiche, la efficienza delle quali dee starsi alle leggi empiriche subordinata. Come tale, vuolsi avere anche da lui, per conseguenza, un carattere empirico, nientemeno che da tutte altre cose della natura: e tal carattere noi l’osserviamo nelle facoltà e forze, ch’egli esercita negli effetti per esso prodotti. Nella natura esanime, o solo animata come nei bruti, non troviamo alcun fondamento, per cui altrimenti che sensitiva ed a condizioni soggetta raffigurarci una qualche facoltà. Ma l’uomo, che nel resto conosce l’intiera 

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natura, unicamente in grazia dei sensi, conosce poi sé medesimo anche mediante la sola appercezione, avendo anzi di sé contezza rapporto ad azioni ed interne determinazioni, quali non è che lo autorizzi a scrivere ad impressioni dei sensi. L’uomo, nel vero, è fenomeno a sé stesso, per una parte, per l’altra però, voglio dire, rapporto a certe facoltà, egli è a sé medesimo un oggetto meramente intelligibile, poiché non può la di lui azione attribuirsi alla suscettività del potere sensitivo. Di queste facoltà, che noi chiamiamo intendimento e ragione, l’ultima specialmente va distinta in un modo affatto proprio e particolare da quante sono forze dipendenti empiricamente da condizioni, come quella, che i suoi oggetti considera nelle idee soltanto e determina in conseguenza l’intelletto, che fa quindi 

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un uso empirico de’ propri concetti (nota bene, quantunque puri).

Ora, che a questa ragione competa efficienza, o che per lo meno ce la rappresentiamo di efficienza dotata, ciò è manifesto dagl’imperativi, quali assegniamo, come regole, a tutte le azioni esercitate per via di forze. La parola dovere indica ed esprime una specie di necessità e di connessione coi motivi; necessità e connessione, che altronde non occorrono in quanta è la natura. Né altro può intorno alla natura conoscere l’intelletto, se non quanto esiste o fu già o sarà per essere. Gli è impossibile che debba in essa qualche cosa essere altri menti da quello, che già è di fatto in tutte coteste relazioni di tempo. Quando anzi non si risguarda se non al corso della natura, il dovere non ha punto né poco significazione. Né ci è guari più lecito 

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chiedere cosa dee accadere, nella natura, di quello che sarebbe, quali aver debba un circolo proprietà; ché solo possiamo dimandare cosa nella natura succede, o quali sieno le proprietà del circolo.

Or dunque il detto dovere significa un’azione possibile, il motivo della quale non è altro che un mero concetto; mentre, per lo contrario, il motivo di una semplice azione fisica è di necessità e sempre apparizione. Ora è mestieri che, date le condizioni della natura, sia possibile ad ogni modo l’azione ogni qual volta il dovere si riferisce ad essolei. Queste condizioni fisiche però non risguardano già la determinazione dello stesso arbitrio, ma sì unicamente l’effetto e la conseguenza del medesimo nell’apparizione. E sieno pur quanti si vogliono i motivi naturali ed altrettanti gli stimoli sensitivi, che mi spingono 

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a volere, non essi però valgono a produrre il dovere: ma solo cagionano un volere, che, ben lungi dall’essere necessario, è sempre a mala pena condizionato. Che anzi col dovere, cui la ragione pronunzia, essa contrappone termini e modi (scopo e misura), se non anche autorità o proibizione, al volere. Se poi anche si trattasse per avventura di un oggetto di mera sensibilità (di piacere) od anche di ragione pura (di utile o buono), non cede per questo la ragione ai motivi dati empiricamente, né tien già dietro all’ordine delle cose, quali nell’apparizione le si presentano: ma essa costituisce a sé medesima, con affatto piena spontaneità un ordine ideale proprio; ed a quest’ordine adatta e riduce le condizioni empiriche. A grado anzi di sue idee, osa essa dichiarare necessarie azioni tali, che non per 

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anco accaddero, né forse avverranno giammai; premesso però nelle stesso tempo, comeché possa essa ragione aver efficienza rispetto a tutte le dette azioni, giacché, senza di ciò, la non avrebbe di che aspettarsi effetti nella sperienza dalle proprie idee.

Or dunque arrestiamoci su questo punto ed ammettiamo, come possibile, per lo meno, competere di fatto alla ragione una causalità, risguardo alle apparizioni. In tal caso, per quanto e benché già ragione in sé medesima, dovrà essa dare a divedere un carattere empirico, atteso che ogni causa presuppone una regola, giusta la quale succedono certe apparizioni in qualità di effetti, e che ogni regola richiede in questi una uniformità, che serve di fondamento al concetto della causa (qual facoltà). In quanto il qual concetto è mestieri perché 

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da mere apparizioni si manifesti potremo chiamarlo carattere empirico della medesima. Esso però è carattere costante; mentre, secondo che differiscono le condizioni, che gli accompagnano ed in parte circoscrivono, gli effetti appariscono con sembianze variabili.

Dato, nondimeno, a ciascun uomo un carattere empirico del proprio arbitrio, questo carattere non consisterà in altro che in una certa causalità della propria ragione, in quanto questa dimostra una regola ne’ suoi effetti nell’apparizione; per la qual regola è permesso argomentare i motivi e le azioni della ragione dalla maniera e dal grado loro, non che giudicare i principi subbiettivi del proprio arbitrio. Essendo necessario perché il carattere empirico in discorso venga dedotto, qual effetto egli stesso, dalle apparizioni, e dalla regola cui presta 

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intorno alle medesime la sperienza, ne viene, tutte le azioni dell’uomo nelle apparizioni essere determinate dal di lui carattere empirico e dalle altre cause coattive, secondo l’ordine della natura. E se in grado fossimo di perscrutare, sino alle fondamenta, le apparizioni di sua volontà, né una sola si darebbe azione umana, cui non potessimo con sicurezza presagire, non che riconoscere necessaria, dalle relative condizioni antecedenti. Avuto pertanto risguardo a siffatto carattere empirico, non si dà libertà e non è tuttavia se non sotto questo solo carattere che siamo in caso di contemplare l’uomo, sempreché vogliamo limitarci a solamente osservare e fisiologicamente indagare di sue azioni le cause moventi, come suol farsi nell’Antropologia.

Se però le stesse azioni consideriamo nel rapporto loro colla ragione 

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(non però come ragione speculativa), onde spiegare le dette azioni secondo l’origine loro, ma unicamente in quanto è ragione stessa la causa che le produce: in una parola, se le azioni confrontiamo colla ragione rispetto alla pratica (morale), una regola troviamo ed un ordine diversi affatto da quellino di natura. Troviamo, di fatto, che non avrebbe dovuto accadere, per avventura, tutto ciò, che pure avvenne, conforme all’andamento della natura, e dovette inevitabilmente succedere a’ suoi motivi empirici. Di quando in quando però troviamo eziandio o crediamo, se non altro, di trovare, qualmente le idee della ragione palesarono effettivamente causalità, rapporto alle azioni dell’uomo, in qualità di apparizioni; e che tali azioni ebbero quindi luogo, non che le fossero determinate da cagioni empiriche, 

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ma sì piuttosto perché provocate da motivi di ragione.

Dato pertanto, potersi asserire, che alla ragione competa efficienza, rispetto alle apparizioni, anche la di lei azione potrebbe dirsi benissimo libera, trovandosi essa necessaria e con tutta precisione determinata nel di lei carattere empirico (nella maniera di sentire): il quale trovasi, dal canto suo, determinato nel carattere intelligibile (nella maniera di pensare). Non però conosciamo questa seconda maniera, bensì la dinotiamo col mezzo di apparizioni, le quali non hanno propriamente a conoscere(*), in un

(*) Quindi è che ci rimane affatto sconosciuta la moralità propria delle azioni (merito e colpa), quella persino della nostra propria condotta, e che le nostre imputazioni sono riferibili unicamente al carattere empirico. Ma ciò, che nelle azioni effetto è

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modo immediato, che il solo carattere empirico (la maniera di sentire). Ora, in quanto è l’azione da attribuirsi alla maniera di pensare, come a cagione della medesima, essa non vi consegue tuttavia nullamente secondo le leggi empiriche, in maniera, cioè, che precedano le condizioni di ragione pura, ma in modo che precedono gli effetti loro nell’apparizione del senso interno. La ragione pura, qual facoltà meramente intelligibile, non è alla forma del tempo subordinata; il perché non soggiace neppure alle condizioni della successione del 

puro di libertà, e quanto è da imputarsi alla sola natura, od a vizio incolpabile di temperamento, oppure alla di lui felice costituzione (merito fortunae), non è chi sappia indagarlo a fondo, né chi possa quindi sentenziare in proposito con piena giustizia.

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tempo. Non è già che nasca la causalità della ragione nel carattere intelligibile, od abbia quando mai principio in qualche tempo, affine di produrre un qualche effetto. Ché altrimenti andrebbe soggetta essa pure alla legge fisica delle apparizioni, come a quella, che determina le serie causali secondo il tempo; con che l’efficienza in discorso diventerebbe natura e più non sarebbe libertà. Saremo dunque autorizzati a dire, che, potendo alla ragione competere causalità, rispetto alle apparizioni, essa ragione consiste nella facoltà, per mezzo e non prima della quale incomincia la condizione sensitiva di una serie empirica di effetti. Giacché non è sensitiva e non ha incominciamento, per conseguenza, essa medesima la condizione inerente alla ragione. Ed ecco pertanto aver luogo ciò, che ne mancava, o di cui non ci 

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accorgevamo, in tutte le serie empiriche; che la stessa condizione, cioè, di una serie successiva di avvenimenti può essere assoluta e libera empiricamente da altre condizioni. Imperocché, in tal caso, è straniera la condizione alla serie delle apparizioni (appartenendo all’intelligibile), né può conseguentemente soggiacere ad alcuna condizione sensitiva, come neppure a qualchesiasi determinazione di tempo, in forza di causa preceduta.

Considerata, ciò non pertanto, sotto altro rapporto, la stessa causa appartiene pure alle serie delle apparizioni; essendo finalmente apparizione l’uomo egli stesso ed avendo il di lui volere un carattere empirico, il quale è motivo (empirico) di tutte le sue azioni. Né v’è alcuna delle condizioni determinanti l’uomo, coerentemente a questo carattere, che non fosse compresa 

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nella serie degli effetti naturali e che non obbedisse alla legge dei medesimi; la quale stabilisce, non darsi alcuna causalità, empiricamente assoluta, di quanto accade nel tempo. Quindi è che non può assolutamente incominciare per sé stessa e spontanea verun’azione data (essendo unicamente percepibili, come fenomeni, le azioni date). Ma non può della ragione asseverarsi, comeché prima dello stato, in cui essa determina la volontà, ne preceda un altro, nel quale venisse il detto stato a determinarsi. Conciossiaché, siccome non è guari fenomeno, quindi neppure subalterna, la stessa ragione, alle condizioni della sensibilità, così, anche rispetto alla di lei efficienza, non ha punto luogo in essolei veruna successione di tempo e non le si può conseguentemente applicare la legge dinamica della natura, onde 

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viene per via di regole determinata la successione del tempo.

Consisto adunque nella ragione medesima la condizione costante di quante sono le azioni volontarie, sotto le quali apparisce l’uomo: e ciascuna di tali azioni è prestabilita nel carattere del medesimo, già prima che dessa avvenga. Ma non v’ha né prima né dopo, che valga, rispetto al carattere intelligibile, di cui lo stess’uomo non è che lo schema sensitivo; e sempre che non abbiasi alcun risguardo alla relazione di tempo, nella quale trovansi le azioni dell’uomo insieme con altre apparizioni, ogni azione consiste nell’effetto immediato del carattere intelligibile della ragione pura. Questa, per conseguente, agisce di libero arbitrio, senza essere dinamicamente determinata, nella catena delle cause naturali, da motivi esteriori od interni, però sempre antecedenti, 

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rispetto al tempo. E questa sua libertà non è da solo negativamente risguardarsi come una indipendenza dalle condizioni empiriche (perocché, in tal caso, la facoltà della ragione cesserebbe di appartenere alle cause delle apparizioni), ma sì pure da positivamente indicarsi qual facoltà capace d’incoare di per sé stessa una serie di avvenimenti. Non è già che nulla in essa incominci, bensì che, qual condizione assoluta di tutte azioni arbitrarie, tale facoltà non permette al di sopra di sé alcuna condizione antecedente, rispetto al tempo, e che, mentre il di lei effetto incomincia pur sempre nella serie delle apparizioni, non è però mai che possa costituire nella medesima un assolutamente primo incominciamento.

Onde più manifesto rendere il principio della ragione, mediante un esempio, fra quelli dell’adoperamento 

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empirico del medesimo, anziché allo scopo di quindi confermarlo (giacché siffatti argomenti non hanno valore nelle asserzioni trascendentali), diamo un’azione volontaria, come sarebbe una menzogna maliziosa. Avendo alcuno, con tale menzogna, recato confusione o disturbo in qualche brigata, si cercano prima le cause moventi, onde ebbe origine il mentire, quindi si giudica di quanto la stessa menzogna e le di lei conseguenze possano essere imputate a quelle cause. Al primo di questi scopi, si passa in rassegna il di lui carattere empirico, sino alle sorgenti del medesimo, e rilevansi queste nella trista educazione, nella cattiva compagnia in parte anche nella malvagità di un naturale indurato alla vergogna, in parte se ne fa carico a spirito leggiero, ad imprudenza o sconsideratezza, né si trascura di prendere 

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in egual considerazione le cause occasionali sul proposito. Tutte le quali cose risguardano ad un qualche dato effetto di natura, come accade generalmente, investigando una serie di cause determinanti. Ora, quantunque si avvisi essere determinata per tali effetti l’azione, non si ristà, ciò non dimeno, dal vituperare l’agente e non lo s’incolpa già del suo malagurato naturale, né delle circostanze aventi su di esso influenza, anzi neppure a motivo dell’antecedente suo tenore di vivere. Perciocché si premette, ben potersi prescindere da qualunque si fosse abitudine o contegno e considerare come non avvenuta la serie trascorsa delle condizioni, anzi doversi considerare il fatto come assolutamente indipendente da condizioni relative allo stato precedente; quasi che il facitore avesse con esso incoata, di 

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tutta spontanea forza, una serie di conseguenze. Il qual gravame ha fondamento sopra una legge di ragione, in forza della quale, dessa è risguardata come una causa, tuto e dovuto altrimenti determinare la condotta dell’uomo, a malgrado di tutte le accennate condizioni empiriche. Che anzi, non si considera già per una quandomai semplice concorrenza la causalità della ragione, ma come piena ed assoluta in sé stessa, quand’anche le molle sensitive, non già favorevoli, ma sì anzi contrarie fossero al caso. L’azione si attribuisce al carattere intelligibile dell’agente; il quale ha tutta la colpa della bugia, li proprio al momento, in cui mente. Per conseguenza, era la ragione affatto libera e padrona del fatto, non ostanti le condizioni empiriche tutte quante: ond’è che il fatto è tutto imputabile a trascuratezza (o colpa) della medesima. 

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In questo giudizio aggravante si comprende leggiermente, aversi avuto nel pensiero, comeché la ragione affetta non venga da quanta è la facoltà sensitiva, né cangi sé stessa (sebbene cangino le di lei apparizioni, voglio dire, il modo, con che la si appalesa ne’ suoi effetti), che niuno stato preceda in essolei, che il successivo determini, ed essa ragione, per conseguenza, non avere la minima parte nella serie delle condizioni sensitive, che necessarie rendono le apparizioni, conforme alle leggi di natura. Sta presente mai sempre la ragione a tutte le azioni dell’uomo ed è sempre la stessa in tutte le situazioni del tempo, non è però essa medesima nel tempo, né la s’imbatte per avventura in uno stato novello, in cui dianzi la non fosse; ché, rispetto al nuovo stato, essa è determinante, ma non determinabile. 

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Quindi è che non è lecito chiedere, perché non siasi determinata altrimenti la ragione, bensì e soltanto, perché non abbia essa colla propria efficienza determinate altrimenti le apparizioni. Al che però non è possibile fare alcuna risposta; atteso che un altro carattere intelligibile avrebbe dato un altro carattere empirico. E quando noi diciamo, che, tutto non di meno il contegno sino allora tenuto nella vita, avrebbe tuttavia dovuto intralasciarsi dal bugiardo la menzogna, ciò altro non significa, se non che il mentire sta immediatamente subordinato al dominio della ragione, che nella sua efficienza questa non soggiace ad alcuna delle condizioni delle apparizioni e del corso del tempo e che anche la differenza del tempo è bensì differenza capitale, rispetto al collocamento vicendevole dei fenomeni fra di loro, ma che, non 

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costituendo questi né cose, né quindi cause per sé stesse può darsi alcuna differenza d’azione, rispetto alla ragione.

Nel sentenziare pertanto le azioni libere, sotto il rapporto di loro causalità, ben possiamo giungere alla causa intelligibile, non però allargarci al di sopra della medesima. Possiamo riconoscere, libera poter essere l’azione, vale a dire, determinata indipendentemente dalla sensibilità, e poter essa in tal guisa costituire la sensitivamente assoluta condizione delle apparizioni. Ma per cosa il carattere intelligibile produca mo giusto ed annunzi queste apparizioni e questo carattere empirico, sotto le attuali circostanze, ciò trascende ben da lontano qualunque facoltà di nostra ragione a rispondervi, anzi trascende ogni di lei diritto a chiedere, quasiché si chiedesse: perché mai l’oggetto trascendentale 

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di nostra visione sensitiva esteriore fornisca soltanto intuizione nello spazio e non mai verun’altra. Solché a ciò non ci provoca punto la quistione, cui ne incombeva risolvere, siccome quella che limitossi proporre, se libertà e necessità contraddicansi fra loro in un’azione medesima. Alla qual quistione abbiamo sufficientemente soddisfatto col dimostrare qualmente, nell’una (libertà) essendo possibile un rapporto con tutt’altro genere di condizioni che nell’altra (necessità fisica), la legge dell’ultima non affetta la prima, possono conseguentemente aver luogo ambedue, indipendenti una dall’altra e vicendevolmente imperturbate.

* * *

Gli è d’uopo notare, non aver noi con tutto ciò inteso a convincere la effettività della libertà, come 

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di una delle prerogative, nelle quali è compresa la causa delle apparizioni del nostro mondo sensibile. Oltre che, di fatto, non sarebbe stata questa meritevole, perché si annoverasse fra le considerazioni trascendentali, alle quali sono argomento e scopo i soli concetti, essa non avrebbe neppure potuto in ciò riescire; attesoché dalla sperienza non ci è concesso giammai di conchiudere cosa, che non può essere né punto né poco pensata secondo le leggi della sperienza medesima. Aggiungasi, qualmente non ebbimo neppure in pensiero di provare la possibilità della libertà; nel che pure non avremmo conseguito miglior successo, stanteché da meri concetti a priori non ci è guari fattibile riconoscere, come possa essere né alcuna causa reale, né alcuna efficienza. Costì la libertà non è trattata se non come idea trascendentale, 

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con cui pensa la ragione di senza forse incoare una serie di condizioni, nell’apparizione, con quanto è sensitivamente libero da ogni condizione; quando però vien essa inviluppata in un’antinomia colle sue proprie leggi, che sono per lei prefisse all’uso empirico dell’intelletto. Ora che tale antinomia sia riposta in una mera illusione, e che natura non contraddica per lo meno alla causalità provegnente dalla libertà, era la sola cosa, che poteva per noi dimostrarsi, com’era ugualmente la sola, cui ponessimo cura. 

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