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DELLA CRITICA 

ELEMENTARE TRASCENDENTALE

PARTE SECONDA

LOGICA TRASCENDENTALE

DELL’IDEALE DELLA RAGIONE PURA

avanti

Indice

Appendice alla dialettica trascendentale dell’uso regolativo delle idee di ragione pura

Dell’ultimo scopo della dialettica naturale dell’umana ragione

PARTE SECONDA

Metodologia

Introduzione

Della dottrina trascendentale del metodo

Cap. I – Disciplina della ragione pura

Sezione I – Della disciplina della ragione pura nell’uso dogmatico

1. Delle definizioni

2. Degli assiomi

3. Delle dimostrazioni

Sezione II – Della disciplina della ragione pura, rispetto al di lei uso polemico

APPENDICE ALLA DIALETTICA TRASCENDENTALE DELL’USO REGOLATIVO DELLE IDEE DI RAGIONE PURA

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Il successo di tutti i tentativi dialettici della ragione pura conferma non solo quanto avevamo già dimostrato nell’analitica trascendentale; che sono, cioè, ingannevoli e di fondamento prive tutte le nostre conclusioni, sempreché mirino a trasportarci oltre il territorio di quanta può essere la sperienza. Ma il medesimo successo ne apprende in oltre a parte, qualmente sia in ciò inerente all’umana ragione una tendenza naturale ad oltrepassare gli accennati confini, e le idee trascendentali 

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essere ad essa egualmente proprie che le categorie lo sono all’intendimento. Vi è però la differenza, che, siccome le categorie guidano alla verità, vale a dire, alla congruenza dei nostri concetti coll’oggetto, così le idee producono una semplice, ma inevitabile, illusione; l’inganno della quale può a mala pena evitarsi dalla più severa delle critiche.

Tutto quanto è fondato sulla natura di nostre forze dee corrispondere allo scopo ed essere consentaneo col giusto e retto uso delle medesime; affinché possiamo evitare una certa mala intelligenza ed iscoprire a che propriamente si dirigano le dette forze. Vi è dunque tutta la presunzione, che le idee trascendentali abbiano l’opportuno loro impiego; quantunque le possano essere, nell’applicazione, trascendentali (e fallaci appunto per 

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questo), sempreché venga travisata la significazione loro e che le si prendano per concetti di cose positive. Con ciò sia che non è già l’idea per sé stessa, ma solamente la di lei applicazione, che, rispetto alla complessiva sperienza possibile, può essere esotica (trascendentale) oppure indigena (immanente); secondo che la si dirige o di slancio ad an oggetto, cui si presume corrisponderle, o soltanto all’uso dell’intelletto in generale, risguardo agli oggetti, che lui appartengono. E quanti mai sono i vizi dell’illusione vogliono sempre attribuirsi a difetto nella facoltà di giudicare, anzi che né all’intendimento, né alla ragione.

Non è mai che la ragione si riferisca direttamente all’oggetto, bensì e soltanto all’intendimento e, per di lui mezzo, a quello, che gli compete impiego empirico. Essa dunque non genera punto concetti 

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(di oggetti), ma non fa che ordinarli e ridurli a quella unità, onde sono questi suscettivi nella massima loro estensione possibile: rispetto, cioè, alla totalità delle serie; come a quella onde l’intelletto non si occupa guari; avendo esso meramente risguardo alla congiunzione, mercé la quale possono effettuarsi, d’ogni parte, serie di condizioni, per via di concetti. La ragione adunque non ha propria mente per oggetto che l’intendimento, non che la conveniente istituzione del medesimo: e, siccome questo accoppia e combina le varietà molteplici nell’oggetto, per via di concetti, così quella combina, dal canto suo, il molteplice dei concetti, mediante idee; venendo stabilita, per essolei, una certa unità colletizia, come scopo delle operazioni dell’intelletto; le quali non avrebbero altrimenti che fare se non colla unità distributiva. 

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Per le quali cose affermo, le idee trascendentali non essere mai di uso costituito in maniera che fossero per quindi concetti somministrarsi di certi oggetti, e che, ove la si voglia intendere in tal modo, non sarebbero questi se non concetti sofistici (dialettici). All’opposto, però, compete alle idee un eccellente, non che indispensabilmente necessario, impiego regolativo, quello di, cioè, dirigere l’intelletto ad un dato scopo. Rispetto al quale scopo, le linee di direzione di tutte le sue regole vengono insieme raccolte in un punto; che, sebbene consista semplicemente in un’idea (focus imaginarius), in un punto, cioè, dal quale non sortono positivamente i concetti dell’intelletto, giacendo quello affatto al di là dei confini della sperienza possibile, esso però serve a procacciare la massima unità e la massima, nello 

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stesso tempo, estensione ai detti concetti. Ora nasce da ciò appunto l’inganno, comeché le dette linee di direzione partissero dall’oggetto medesimo, che giace lontano e straniero al campo d’ogni empiricamente possibile sapere (in quel modo, per che si ravvisano dietro la superficie degli specchi gli oggetti). Questa illusione però (cui possiamo tuttavia impedire, perché la ci tragga in errore) è, ciò non ostante, indispensabilmente necessaria, ogni qual volta, oltre gli oggetti, che ne giacciono sott’occhio, intendiamo a con essi ravvisarne sì anche di quelli, che ci stanno ben lungi e dappoi le spalle: voglio dire, nel caso nostro, quando vogliamo ausare l’intelletto al di là d’ogni data sperienza (in parte appartegnente sempre alla complessiva sperienza possibile) e tendiamo quindi eziandio, quanto per noi si può, eccessivamente allargarlo. 

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Se passiamo in rassegna il sapere del nostro intelletto, nel complesso di sua circonferenza, troviamo qualmente ciò, che vi contribuisce del suo e riduce a perfezionamento la ragione, consiste nel sistematico delle cognizioni, voglio dire, nel rapporto ed insieme delle medesime con un principio. Questa unità di ragione premette ognora un’idea, quella, cioè, della forma di un tutto del sapere; il qual tutto precede la cognizione determinata delle parti e contiene in sé le condizioni, per le quali determinare, per anticipazione, ad ogni parte il proprio posto e rapporto colle rimanenti. Da questa idea è, per conseguenza, postulata la perfetta unità del sapere intellettuale, in grazia di che siffatto sapere non consiste già in un aggregato fortuito, ma diventa un sistema connesso, in conformità di leggi necessarie. Né può dirsi 

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propriamente, questa idea nel concetto consistere dell’oggetto, bensì della piena ed assoluta unità di siffatti concetti, in quanto ella serve di regola all’intelletto. Simili concetti razionali non vengono attinti dalla natura, essendo piuttosto interrogata per noi la natura su queste idee, come quelli, che reputiamo difettoso il nostro sapere, sinché non lo riscontriamo adequato alle medesime. Conviene ognuno e confessa, non darsi terra pura, acqua pura, aria pura ecc. Ciò non per tanto abbiamo sempre d’uopo i concetti di tali cose (i quali, rispetto alla piena purezza, non hanno per conseguenza, orgine che nella sola ragione); onde opportunamente determinare la parte, cui prende cadauna di queste cause naturali nell’apparizione. E così tutte le materie si riducono alle terre (solo quasi risguardando al peso loro), ai sali ed 

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alle sostanze combustibili (risguardo alla respettiva efficienza) e finalmente all’acqua ed all’aria, come a veicoli (o macchine, mediante le quali agissero le prime), affine di spiegare, conforme all’idea di un meccanismo, gli effetti chimici vicendevoli delle materie fra loro. Quantunque non sia stile, di fatto, il positivamente in tal guisa esprimersi, è però facile quanto mai a rilevarsi una tale influenza della ragione sulle relative distinzioni dei fisici.

Se la ragione consiste nella facoltà, per la quale derivare il particolare dall’universale, o che già è certo per sé stesso e dato l’universale, nel qual caso all’assunzione si richiede solamente facoltà di giudizio e viene quindi necessariamente determinato il particolare. E questo chiamerò impiego apodittico della ragione. O che l’universale viene ricevuto soltanto in via 

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problematica e consiste in una mera idea, ed allora è certo il particolare, ma costituisce pur sempre un problema l’universalità della regola per questa conseguenza. Così vengono sottoposti all’esame della regola parecchi accidenti particolari, che tutt’insieme sono certi, onde rilevare s’egli emanano dalla medesima; quando essendovi ogni apparenza che dalla regola fluiscano tutti i supponibili casi particolari, viene conchiusa la di lei universalità, e quindi poscia conchiudesi pure intorno a tutti gli accidenti, benché per sé stessi non dati. Al qual altro darò nome d’impiego ipotetico della ragione.

L’impiego ipotetico della ragione per via di idee poste a fondamento, in qualità di concetti problematici, non è, a propriamente parlare, costitutivo, non, cioè, qualificato in maniera che, volendo con tutta 

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severità giudicarne, abbia quindi a conseguire la verità della regola universale, che venne ammessa come ipotesi. Come, di fatto, pretendere di sapere tutte le conseguenze possibili, le quali, poiché succedono allo stesso principio fondamentale ammesso, dovessero provarne l’universalita? Quest’impiego dunque non è che regolativo, onde colla di lui scorta ridurre a quanta è possibile unità le cognizioni particolari e fare in modo, perché la regola si avvicini all’ universalità.

Dal che risulta, che l’uso ipotetico della ragione si riferisce all’unità sistematica delle cognizioni dell’intelletto. La qual unità è però la pietra di paragone della verità delle regole (come semplice idea). L’unità sistematica, per lo contrario, non è che unità semplicemente progettata e la si dee risguardare, non come data in sé stessa, ma come 

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un problema. Essa però serve a ritrovare un principio relativo al moltiplice, non che particolare, impiego dell’intelletto, a con esso principio guidarlo in tutti i casi non dati ed a mantenerlo, non che ridurlo, in connessione.

Dal che solo si comprende, per altro l’unità sistematica o razionale delle moltiplici cognizioni dell’intelletto consistere in un principio logico, destinato a favoreggiare del soccorso delle idee il procedere dell’intelletto; per ove da solo non basti questo procedere a regole costituire, a rendere nello stesso tempo armonica ed uniforme (sistematicamente), la diversità di sue regole, sotto un principio, ed a quindi procacciare quanta è possibile connessione allo stesso intendimento. Se però sia la qualità degli oggetti, o la natura dell’intendimento, che li riconosce come tali, la destinata 

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per sé all’unità sistematica, o se questa unità è postulata, in certa maniera, per anticipazione, anche senza risguardo al relativo interesse della ragione; se possa dirsi, per conseguenza, l’unità di ragione competere a tutte cognizioni possibili dell’intelletto (senza eccezione all’empiriche) ed essere le medesime soggette a principi comuni, dei quali fosse lecito, non ostante la diversità loro, derivarle, tutto ciò costituirebbe una massima trascendentale di ragione, onde l’unità sistematica sarebbe resa, non solo subbiettiva e logica, in qualità di metodo, ma sarebbe resa obbiettivamente necessaria.

La qual cosa ci faremo ad illustrare, mediante un esempio dell’impiego della ragione. Ai diversi generi di unità, secondo i concetti dell’intendimento, appartiene pure quell’unità della causalità di una 

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sostanza, che si chiama forza. Le diverse apparizioni della medesima sostanza dinotano, a primo aspetto, sì grande fra loro dissomiglianza per ciò quasi dovere ammettere, come di altrettante forze dotata, sulle prime, la detta sostanza, quanti sono gli effetti, che si producono; quali sarebbero nello spirito umano le sensazioni, la coscienza l’immaginazione, la memoria, l’ingegno, il discernimento, l’inclinazione, la volontà e così via discorrendo. Una certa qual massima logica impone, dapprincipio, di possibilmente restringere quest’appariscente diversità, di scovrirvi, mediante paragoni, la quandomai celata identità e di esaminare, se non fosse l’immaginazione congiunta, per avventura, colla coscienza o se anzi la rimembranza, il genio e la facoltà discernitiva non forse già consistesse nell’intendimento e nella stessa ragione. 

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L’idea di una forza fondamentale o costitutiva, onde non sa però trovare dovechessia la logica, se di tali se ne dieno, costituisce, per lo meno, il problema di una rappresentazione sistematica della moltiplicità delle forze. Il principio logico della ragione richiede, perché tale unità venga spinta il più lontano possibile: e quanto più vengono riscontrate identiche fra di loro le apparizioni dell’una e dell’altra forza, tanto più diventa verisimile, queste non essere se non diverse manifestazioni di una medesima forza, che può essere (comparativamente) chiamata la forza loro primitiva o fondamentale. E così va la bisogna, rispetto alle altre.

Le forze fondamentali comparative deggiono di bel nuovo paragonarsi a vicenda fra di loro; onde, cosi rilevandone l’armonia reciproca, poterle sempre più ridurre, 

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non che avvicinare, ad una radicale unica, voglio dire, alla forza fondamentale assoluta. Non è già che si pretenda, essere, nel vero, da riscontrarsi una tal forza; ma che la si debba cercare in grazia della ragione, a stabilimento, cioè, di certi principi, rispetto alle diverse regole, che può somministrare quandomai la sperienza, e che abbiasi quindi a, per quanto è possibile, ridurre ad unità sistematica il sapere.

Se però la mente rivolgiamo all’impiego trascendentale dell’intelletto, ci si manifesta, il destino di questa idea di una forza primitiva, in generale, non essere quello di servire all’uso ipotetico, soltanto in qualità di problema; bensì ch’ella suppone realità obbiettiva; onde vien poscia postulata l’unità sistematica delle forze moltiplici di una sostanza e costituito un principio 

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apodittico di ragione. Imperocché, anche senza nemmeno avere cimentato l’accordo reciproco delle differenti forze, anzi quando pure a vuoto riescano tutti i nostri conati, onde scovrirlo, è però sempre da noi presupposto, comeché diasi e possa incontrarsi la forza in discorso. E non solo a motivo della unità della sostanza, come nel caso addotto; ma, dove persino se ne incontrano parecchie, sempreché, a certo qual grado uniformi, come nella materia in genere, la ragione presuppone una unità sistematica di forze moltiplici, ove leggi particolari di natura vadino subalterne a leggi più universali. Quindi è che il risparmio dei principi diventa non solo una massima economica della ragione, ma sì anzi una legge intrinseca di natura.

E nel vero che non è da comprendersi, come potesse aver luogo 

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un principio logico dell’unità razionale della regola, sempre che non fosse premesso un principio trascendentale, in grazia di cui ricevuta venisse a priori, quasi come necessaria non che inerente, agli oggetti medesimi, cosiffatta unità sistematica. Con qual mai dritto, in fatti, potrebbe la ragione pretendere, nell’uso logico, perché la moltiplicità delle forze, quali ce le dà a divedere natura, dovess’essere trattata quasi una semplicemente nascosta unità e derivarsi, per quanto lo può la ragione, da una forza primitiva, e quand’anche fosse in di lei balìa il concedere, come ugualmente possibile, essere dispari le forze tutte quante, né punto corrispondere alla natura l’unità sistematica di loro derivazione? Giacché, in tal caso, il procedere della ragione sarebbe affatto contrario a’ suoi destini, dacché la si proporrebbe a scopo 

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un’idea, che ripugnerebbe affatto alla costituzione della natura. Né può già dirsi, aver essa ragione attinto anticipatamente, giusta i suoi principi medesimi, la unità in discorso dall’accidentalità stessa della natura. Perciocché la legge di ragione, che prescrive di cercarla questa unità, è necessaria; giacché senza di lei non avressimo guari di ragione; senza ragione poi non avremmo alcun insieme nell’uso dell’intendimento; mancando quest’insieme, saremmo anche privi d’ogni criterio, che bastevole fosse alla verità empirica; dovressimo quindi, rispetto a questa, presupporre a qualunque patto, come obbiettivamente valida e necessaria, l’unità sistematica della natura.

Anche nelle massime dei filosofi troviamo celata, in un modo maraviglioso, la detta premessa trascendentale, quantunque non sempre 

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ve l’abbiano essi riconosciuta, o fattane confessione a sé medesimi. Che tutte le molteplici varietà delle singole cose (degl’individui) non escludano l’identità della classe; che debbano le specie diverse considerarsi come determinazioni differenti di pochi generi, questi quali modificazioni di ordini più elevati e cosi discorrendo; che vuol quindi cercarsi una certa unita sistematica di tutti i possibili concetti empirici, per quanto ei sono derivabili da concetti più elevati ed universali: tutto ciò ha fondamento in una regola delle scuole od in un principio logico, senza del quale non avrebbe luogo verun impiego della ragione. Perciocché non siamo autorizzati conchiudere dall’universale al particolare, se non in quanto sono già poste a fondamento le proprietà universali delle cause, ed in quanto a quelle soggiaciono le proprietà particolari. 

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Che però l’armonia, onde si discorre, incontrata venga nella natura, i filosofi lo premettono in quella volgatissima regola delle scuole, che stabilisce, non doversi moltiplicare i principi (gli esseri primitivi) senza necessità (entia praeter necessitatem non esse multiplicanda). Il che vuol dire, che la stessa natura delle cose fornisce materiale alla unità della ragione e che non dovrebbe l’apparentemente infinita loro diversità farci ostacolo a presumere, celarsi nelle medesime, l’unità dei caratteri fondamentali e costitutivi, dai quali non può essere derivata la moltiplicità, eccetto solo mediante ulteriore determinazione. Quantunque siffatta unità non consista che in una semplice idea, fu tuttavia così gelosa e viva la cura, con che le si tenne dietro in ogni età, che a tanta curiosità per la medesima sarebbe stato assai meno 

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mestieri di stimolo che di moderazione. Era già molto che i chimici potessero già tutti ridurre i sali ai due generi principali degli acidi ed alcalini; e, ciò nondimeno, essi già tentano persino di anche una tal differenza risguardare come una semplice varietà o diversa maniera di presentarsi di una sola materia costituente le dette sostanze. Anche le specie diverse delle terre (il materiale delle pietre, anzi persino dei metalli) furono concentrate mano mano a tre, finalmente a due: solché, neppure contenti al ben successo tentativo, non sanno (i mineralogi) rinunziare al pensiero, comeché sotto le due ultime varietà nascondasi tuttavia un genere unico; anzi ei non ristanno dal persino prosumere un principio comune alle terre (ai metalli) ed ai sali. Potrebbe ad alcuno sembrare, questo essere, per avventura, un semplice maneggio 

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economico, un tentativo ipotetico della ragione, affine di sparagnarsi quanta più fatica potesse; comeché riuscendo il medesimo alla prova, quella stessa unità, che ne risulterebbe, fosse per più verisimile rendere i preconceputi motivi di spiegazione. Solché, ad altro non mirando che al proprio vantaggio un tale divisamento, riesce troppo agevole a scernerlo dall’idea, per la quale ognuno premette accordarsi colla stessa natura questa unità di ragione e non andar già la ragione mendicando su questo particolare, ma imporne; quantunque senza che mai valga i confini determinare dell’unità in discorso.

Se fra le apparizioni, che si presentano, fosse così grande la differrenza, non dirò già rispetto alla forma (come a quanto, in che per avventura le si rassomigliano), ma rispetto al contenuto, voglio dire, 

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alla moltiplicità degli esseri esistenti, che anche la più perspicace fra le umane intelligenze non fosse al caso di riscontrare la minima somiglianza, mediante paragone degli uni cogli altri (caso, cui può benissimo immaginarsi), non potrebbe, ciò non di meno, aver guari luogo la legge logica dei generi e neppure verun concetto di genere, od altro qualunque universale, anzi né tampoco alcun intendimento, eccetto soltanto quello che se ne stasse occupando. Dunque il principio logico dei generi ne premette uno trascendentale, ogni qual volta lo si dee applicare alla natura (sotto la qual parola, costì non si allude che agli oggetti, che ci vengono dati). Conforme a cotesto principio, è necessariamente presupposta l’uniformità (quantunque non possiamo determinarne il grado a priori) nel moltiplice di 

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una possibile sperienza; perciocché senza tale uniformità, non potremmo avere alcun concetto empirico e non sarebbe conseguentemente possibile veruna sperienza.

Al principio logico dei generi, per cui viene postulata l’identità sta di contro un altro, quello, cioè, delle specie, il quale richiede moltiplicità e differenze nelle cose, non di mento lo starsi elleno d’accordo sotto il medesimo genere: e quest’altro principio impone all’intelletto, perché abbia cura dei generi non meno che delle specie. Dal secondo principio (dalla penetrazione o facoltà discernente) viene molto limitata la leggierezza del primo (dell’ingegno); ed è quivi, ove l’intelletto manifesta un doppio ed intrinsecamente a vicenda contradditorio interesse: da un lato, cioè, l’interesse del complesso (dell’universalità), rispetto ai generi; e 

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dall’altro quello del contenuto (della ragione che lo determina), risguardo alla copia e varietà delle specie. Il perché nel primo caso l’intendimento volge gran cose in pensiero, sotto i suoi concetti, nel secondo però ei pensa tanto più nei medesimi. Il che si manifesta eziandio nell’assai diversa maniera di pensare dei fisici: alcuni dei quali (specialmente i contemplativi) sono, direste, nemici d’ogni dissomiglianza e ad altro non mirano che all’unità del genere; mentre altri (soprattutto gli empirici) pongono via sempre mente a come spaccare la natura in tanta copia di varietà che torna divisamento pressoché disperato quello di giudicare i fenomeni loro a norma di principi universali.

Ed anche all’ultimamente accennata maniera di pensare serve di base, a primo aspetto, un principio 

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logico, avente a scopo il perfezionamento sistematico di tutte le cognizioni; ogni qual volta, prendendo le mosse dal genere, si discende alle varietà, quando mai contenute nel medesimo, e si cerca di ampliare, in tal guisa, il sistema; come si cerca, nel primo caso, di semplificarlo, salendo genere. Conciossiaché dalla sfera indicante un genere non è mai che si rilevi quanto sarà per protrarsi la divisione del medesimo; come non può dallo spazio, cui occupa la materia, conoscersi quanto sarà per continuarsene la stessa divisione. Quindi è che ogni genere ha mestieri di parecchie specie, ognuna delle quali ha poi bisogno di varie altre specie subalterne: e, siccome non è mai che si trovi alcuna fra le ultime, alla quale non competesse di bel nuovo una sfera (un complesso, in qualità di conceptus communis), 

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così ad ogni ampliazione universale della ragione si richiede perché niuna specie venga mai considerata, per sé stessa, quasi l’ultima fosse. Imperocché dessa consiste pur sempre in un concetto in cui non cape se non quanto è comune a cose diverse; ciò che non è mai determinato da capo a fondo, quindi né tampoco riferibile propriamente a qualche individuo e dee, per conseguenza, contenere ognora sotto di sé altri concetti, voglio dire, altre specie subalterne. Questa legge, cui diremo di specificazione, esprime, non doversi arbitrariamente menomare le varietà degli esseri (entium varietates non temere esse minuendas).

Si vede però leggiermente, come anche questa legge logica non avrebbe né senso né applicazione, ove sottoposta non le stasse, qual fondamento, una legge trascendentale di specificazione; 

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la quale per altro non pretende, a dir vero, dalle cose, che possono diventarci oggetti, una infinità positiva di differenze. Perciocché a tale pretesa non dà punto ansa il principio logico; poich’esso tende unicamente a sostenere, non che tutelare, la ragione indeterminata della sfera logica, rispetto alla possibilità della divisione; mentre impone tuttavia espressamente al intelletto, perché sott’ogni specie, che ci occorre, faccia ricerca di specie subalterne, come di minori differenze, rispetto a qualunque diversità. Ché se concetti non si dessero inferiori, non ve ne sarebbero guari neppure di più elevati. Ora l’intelletto conosce tutto, solo mediante concetti, e sin dov’esso può giungere colla divisione, per conseguenza, non è mai ch’ei per sola visione conosca, bensì unicamente per via di concetti via sempre 

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minori. Onde le apparizioni riconoscere nella totale determinazione loro (la quale non è possibile che mediante l’intelletto), si richiede una specificazione incessantemente continuata de’ propri concetti ed una progressione a sempre mai residue differenze; dal che facevasi astrazione sì nel concetto della specie sì ed anche davantaggio in quello del genere.

Né questa legge della specificazione può mai essere fornita o desunta dalla sperienza, come da quella, onde non possiamo aspettarci così ampie manifestazioni. E la specificazione empirica non tarda far alto nello scernere le moltiplici varietà, a meno che trovisi avere per guida e che già le preceda, qual principio della ragione, la legge trascendentale di specificazione, che l’aiuti cercare le accennate varietà o la induca senz’altro a prosumerle, 

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quantunque volta le non son preste manifestarsi ai sensi. Onde scovrire essere diverse le specie delle terre assorbenti (calcari e muriatiche) era mestieri che precedesse una regola della ragione, la quale proponesse all’intelletto, in via di problema, la ricerca in discorso, invogliandolo prima supporre così ricca la natura da sospettarle a dirittura una tale diversità. Imperocché non siamo dotati per altro d’intelligenza che sotto appunto la premessa delle diversità nella natura, come sotto condizione dell’essere inerente ai di lei oggetti l’uniformità; stante che la stessa moltiplicità di quanto può essere compreso e raccolto in concetto costituisce tanto l’uso di questo concetto, quanto la bisogna ed occupazione dell’intendimento.

Dalle quali cose può argomentarsi, la ragione allestire all’intelletto il 

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campo 1. con un principio d’uniformità sotto generi più elevati, rispetto alle varietà, e 2. colla massima fondamentale della varietà sotto specie inferiori, per ciò che risguarda gli oggetti uniformi. Affine poi di compiere l’unità sistematica, la ragione aggiunge in oltre 3. la legge d’affinità di tutti i concetti; la qual legge impone di senza mai possa transitare da qualsivoglia specie a qualunque altra, mediante l’aumentarsi graduale delle differenze. Ed ecco i principi, che possiamo denominare di omogeneità il primo, di specificazione il secondo e di continuità delle forme il terzo. Quest’ultimo fasce dall’accoppiarsi dei primi due poscia che avere compiuto nell’idea l’insieme sistematico, tanto nel salire a generi più elevati, quanto nel discendere alle infime specie. Perciocché allora tutte le varietà 

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si trovano in vicendevole parentela di affinità; essendo insieme derivate tutte quante da un supremo ed unico genere, per tutti i gradi della mano mano estesa determinazione.

L’unità sistematica, nei tre principi logici, si può rendere sensibile nel modo seguente. Qualsivoglia concetto può essere considerato qua si fosse un punto, il quale abbia l’orizzonte proprio, quasi come si trattasse del punto di vista di uno spettatore; con che intendo esprimere, potersi da quel punto rappresentare non pure che passare a rassegna a tale orizzonte dee poter essere data una quantità di punti all’infinito, a cadauno dei quali competa od una sfera visuale più ristretta: voglio dire, ogni specie contenere specie subalterne, conforme al principio di specificazione, e consistere 

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l’orizzonte logico in orizzonti soltanto più piccioli, non però in punti privi di circonferenza (in individui). Ma da parecchi e diversi orizzonti, vale a dire, da più generi, determinati con precisamente altrettanti concetti, è lecito raffigurarsi, come dedotto, un orizzonte comune, dal quale si ravvisino quegli altri, quasi da un punto centrale. Il qual punto consisterebbe in un genere più elevato; sinché giungasi finalmente ad un genere massimo, da cui sia costituito il veramente universale orizzonte, cui determina il punto di vista stazionario del massimo dei concetti, e cui stieno tutte quante subalterne le varietà, in qualità di generi, specie e sotto specie.

A questo punto supremo di stazione mi è scorta la legge dell’omogeneità, come a tutti gli inferiori ed alla massima delle varietà respettive 

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mi conduce la legge della specificazione. Siccome però non vi è nulla in tal guisa, di vuoto, in quanta è vasta la sfera di tutti i concetti e possibili, e siccome nulla può esse re mai riscontrato al di là di questa periferia, quindi è che dalla premessa di quell’orizzonte universale, non che della divisione interminabile del medesimo, nasce il principio fondamentale, che stabilisce, non darsi vuoto nelle forme (non dutur vacuum formarum); cioè, che non si danno diversi generi originari e primi, che fossero quasi come isolati e vicendevolmente un dall’altro disgiunti (mediante interstizi, o spazi intermedi, vuoti): ma che non sono che derivazioni di un genere unico, superiore a tutti ed universale, quanti mai si danno generi moltiplici e diversi. Della qual massima è conseguenza immediata la continuità delle forme (non datur vacuum 

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formarum); vale a dire, che tutte le differenze delle specie continuano a vicenda fra di loro, né mai permettono alcun passaggi reciproco, dall’una saltando all’altra, ma soltanto attraverso di tutti i gradi minimi della differenza; come dei soli, pei quali è permesso arrivarle, una dopo l’altra. In una parola, non si danno specie, né sotto specie, che fossero a vicenda le più prossime fra di loro (nel concetto della ragione); poiché sono via sempre possibili altre specie intermedie; la differenza di prima e seconda fra le quali è ancora più picciola che non la mutua differenza di quelle.

La prima legge adunque trattiene dal divagare nella moltiplicità di vari generi originari e raccomanda, uniformità. La seconda, per lo contrario, pone vicendevolmente limiti a cotesta inclinazione per l’uniformità 

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ed armonia e prescrive la distinzione delle specie (non che forme) subalterne, avanti che ci rivolgiamo col nostro concetto universale all’individuo. Colla terza legge poi vengono congiunte ambedue le prime, imponendosi per essa l’uniformità, mediante passaggio graduale da una specie all’altra, non ostante la massima varietà respettiva: con che viene dinotata una quasi affinità o parentela fra i diversi ramoscelli, come fra quellino, che pullularono insieme dalla stessa radice.

Ma questa legge logica della continuità delle specie (continui specierum formarum logicarum) suppone precederne una trascendentale di continuità nella natura (lex continui in natura), senza la qual legge non potrebbe della prima il precetto se son condurre in errore l’intendimento nel proprio impiego; 

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inducendolo a scerre, per avventura, sentieri precisamente opposti a quellino di natura. Il perché quest’altra legge poggiare su fondamenti puri. Imperocché, se avesse basi empiriche, sarebbe la legge posteriore ai sistemi; mentre che fa essa invece, che produsse dapprima ogni ragione sistematica nella cognizione della natura. Né sotto queste leggi nascondonsi quandomai tendenze, onde istituire con esse una qualche prova; comeché non si trattasse che di meri tentativi: quantunque, per verità, ove questa connessione ha luogo, essa fornisce gravissimo argomento a reputare fondata e vera l’unità immaginata ipoteticamente; dal che già ne viene, utili essere le detti leggi solto questo rapporto. Ma elle dinotano, in oltre, all’evidenza, giudicarsi per esse consentanea sì alla 

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ragione che alla natura tanto la parsimonia delle cause prime, quanto la moltiplicità degli effetti e la quindi provegnente affinità intrinseca fra le diverse parti della stessa natura. È, per conseguenza inerente a questi principi fondamentali quanto li rende commendevoli per sé medesimi e non come semplici amminicoli del metodo.

È però anche agevole a comprendersi, questa continuità nelle forme non essere che una mera idea e non potersi nella sperienza dimostrare verun oggetto, che le vadi congruente. Del che non è solamente motivo la positiva divisione delle specie nella natura, per cui debbono esse costituire in sé medesime un quantum discretum; onde ne viene, che, se fosse continuata la progressione graduale nell’affinità delle medesime, questa catena dovrebbe (ciò che è impossibile) 

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contenere una vera infinità di anella intermedie, fra quasi ogni copia di specie. Ma ne va in oltre incolpato il non potersi per noi fare la minima applicazione empirica determinata di siffatte leggi attesoché l’uso empirico non offre il più picciolo indizio d’affinità, che valesse guidarne ad investigare la successione graduale delle respettive differenze, ma solo ce ne offre un indizio generale, per cui ricercarle.

Se ci facessimo ad invertere l’ordine degli or ora indicati principi, onde adattarli all’uso della sperienza, quelli dell’unità sistematica verrebbero ad essere, a un di presso, disposti così: varietà, affinità ed unità; solché toglieressimo con tal ordine la perfezione a ciascuna delle medesime devoluta, nella qualità loro di idee per eccellenza. La ragione premette le cognizioni del 

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l’intelletto le più prossime ad essere applicate alla sperienza e ne cerca l’unità ideale, che si estende molto più al di là di quello posasa ora giungere la sperienza. Salve le sue differenze, l’affinità delle varietà, sotto un qualche principio di unità, non risguarda solamente cose, ma più assai che a queste si riferisce in oltre alle proprietà e forze delle medesime. Quindi è che allorquando, p. e., ci è dato, mediante una sperienza (non ancora pienamente rettificata), quasi come orbicolare, il corso dei pianeti e che vi riscontriamo alcune diversità, queste sospettiamo dipendere da quanto, in forza di qualche legge costante, può alterare negli infiniti gradi intermedi, il circolo è cambiarlo in alcuno degli accennati giri divergenti: supponiamo, cioè, qualmente, non essendo i pianeti circolari, abbiano a cedere 

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più o meno all’influenza della forma loro i movimenti respettivi ed a quindi rendersi ellittici. Le comete annunziano differenze anche più rilevanti nell’orbita loro, come quelle, che (per quanto può dall’osservazione arguirsi) neppure si rivolgono in giro; e solo avvisiamo indovinarne parabolico il corso, per ciò che ha questo altronde molta coll’elisse analogia. Se però è soverchiamente protesa l’asse maggiore di quest’ultima, la non si può discernere in tutte le nostre osservazioni sulla medesima. E così colla scorta di que’ principi arriviamo ad arguire l’unità generica di questi corsi planetari nella forma respettiva; quinci poi ci avanziamo alla unità causale di tutte le leggi dei loro movimenti (alla gravitazione) e, potendo quindi estendere le nostre cognizioni, ci studiamo a collo stesso principio dichiarare 

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quante sono le apparenti varietà o declinazioni da quelle regole. Finalmente aggiungiamo a tutto questo assai più di quanto non potrà mai esserci dalla sperienza confermato; voglio dire, che, secondo le regole d’affinità, immaginiamo, avere le comete corsi persino iperbolici, nei quali esse trasmigrino affatto, non che lungi, dal nostro mondo solare e , trasferendosi da sole a sole, raccolgano, cammin facendo, le parti le più sterminatamente lontane di un sistema di mondo, al quale non conosciamo confini e cui riteniamo connesso mantenersi cogli altri da una medesima forza motrice.

Ciò che merita particolare attenzione, rispetto a questi priucipi, e di che unicamente ci occupiamo, si è, ch’ei paiono essere trascendentali; e, quantunque non contengono se non mere idee, alle quali attenerci nell’uso empirico 

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della ragione ed alle quali non può quest’uso tener dietro, se non quasi come assintonticamente, voglio dire, soltanto per approssimazione, senza mai poterle arrivare; tuttavia, nella qualità loro di proposizioni sintetiche a priori, compete ai medesimi un valore obbiettivo, quantunque, per verità, indeterminato, e servono essi di regola per la sperienza possibile, anzi possono ad ogni buon dritto adoperarsi positivamente, in qualità di principi e fondamenti euristici, onde occuparci della sperienza con esso loro; non potendo però mai effettuarne una deduzione trascendentale; poiché sempre impossibile, come si è di mostrato più sopra, una tal deduzione, rispetto alle idee.

Nell’analitica trascendentale, fra le massime fondamentali dell’intelletto, si distinsero, come semplici principi regolativi della visione, i 

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dinamici dai matematici, che, rispetto alla medesima, sono costitutivi. Ciò non pertanto le summentovate leggi dinamiche sono ad ogni modo costitutive anch’esse, rapporto alla sperienza; rendendosi possibili per esse i concetti a priori, senza i quali non ha la medesima luogo. I principi di ragione pura, in vece, non è mai che sieno costitutivi, nemmeno risguardo ai concetti empirici; atteso che non può loro essere dato alcuno schema o tipo della sensibilità, che fosse corrispondente ai medesimi, né può, in conseguenza, competere a siffatti concetti verun oggetto in concreto. Se recedi adunque dal detto adoperamento empirico dei medesimi, nella qualità loro di principi fondamentali costitutivi, come potrai tuttavia guarentire ad essi un uso regolativo, non che insieme valore obbiettivo, e qual 

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mai arrogheresti significazione quest’uso?

È l’intendimento un oggetto, per la ragione, ugualmente che la sensibilità, rispetto all’intendimento: essendo uffizio, che appartiene alla ragione, quello di rendere sistematica l’unità di tutte le operazioni empiriche possibili dell’intelletto; come questo accoppia le varietà moltiplici delle apparizioni, la mercé dei concetti, e le riduce sotto leggi empiriche. Ma sono indeterminate le operazioni dell’intelletto, se mancano gli schemi della sensibilità, ed è ugualmente indeterminata per sé stessa l’unità della ragione, anche rispetto alle condizioni, sotto le quali ed al grado sin dove abbia l’intelletto a sistematicamente accoppiare i suoi concetti. Sebbene, per altro, non sia da giammai riscontrarsi nella visione uno schema per la più universale unità sistematica 

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di quanti ha concetti l’intendimento, può, non di meno, e dee anzi esser dato un corrispondente (analogon) a siffatto schema e tal correlativo consiste nell’idea del maximum sì della divisione del sapere intellettuale che della di lui riunione sotto qualche principio. Giacché può essere determinatamente pensato il massimo in grandezza e l’assolutamente perfetto, solché si ommettano tutte le altronde ommissibili condizioni restrittive, onde produconsi le varietà indeterminate. Dunque l’idea della ragione costituisce un analogon (correlativo e sostituto) allo schema della sensibilità; colla differenza, però, che non consiste ugualmente in una cognizione dell’oggetto medesimo (come nell’applicazione delle categorie agli schemi loro sensitivi) l’applicazione dei concetti intellettuali allo schema della ragione; ma 

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non è che una regola o massima dell’unità sistematica di qualsivoglia impiego dell’intelletto. Ora, poiché ogni massima o principio fondamentale, che stabilisce per anticipazione all’intelletto la più universale unità del proprio uso, ha pure valore, quantunque soltanto indiretto, rapporto all’oggetto della sperienza, né viene, che sì anche alle massime o leggi di ragione pura compete una realtà obbiettiva, rispetto alla medesima. Non è però che tale realtà determini alcunché nelle dette leggi; perciocché le non servono che a solo dinotare il procedere, giusta il quale può in tutto e per tutto acconsentire con sé medesimo l’uso determinato ed empirico dell’intelletto nella sperienza, in quanto esso viene connesso non pure che reso possibilmente consentaneo col principio della più generale 

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unità e che dal medesimo principio è derivata questa corrispondenza.

Sono per me denominati massime della ragione tutti i principi fondamentali subbiettivi, che, non dalle qualità e natura dell’oggetto, ma derivano dall’interesse della ragione per una certa perfezione possibile nella cognizione del medesimo. Così di tali massime (o desideri) della ragione contemplatrice, se ne danno di unicamente risguardanti allo scopo speculativo della stessa ragione, quantunque avessero quandomai apparenza di principi obbiettivi.

Se ti fai a considerare, quali costitutive, leggi e massime, che sieno solamente regolatrici, esse possono riescire contradditorie in qualità di principi obbiettivi. Che se le consideri per semplici massime, non vi ha più ripugnanza vera, ma solo un diverso invito della ragione, 

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il quale dà motivo al dissentire nella maniera di pensare. Non ha in fatti la ragione che un interesse unico ed in altro non consiste il contraddirsi delle sue massime che nella diversità e vicendevole circoscrizione dei metodi nel soddisfare al detto interesse.

Quindi ne viene che prevale presso un raziocinante l’interesse per le varietà (giusta il principio di specificazione), mentre prevale appo l’altro vaghezza d’unità (secondo il principio d’aggregazione). Ciascheduno di questi avvisa conseguire il proprio giudizio dalla penetrazione intima nell’oggetto, che viene da esso fondata unicamente sulla maggiore o minor propensione, cui sente, più all’uno che all’altro dei due principi: mentre non poggia né questo né quello su fondamenti obbiettivi, ma solo è mosso dall’interesse od invito della ragione; al 

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quale invito sarà quindi più opportuna la denominazione di massima o norma che non quella di priucipio. Quando vedete in contrasto fra loro gl’ingegni più perspicaci, onde stabilire quanto hanno di caratteristico gli uomini, gli animali o le piante, anzi gli stessi prodotti minerali e che, dove gli uni ammettono, a cagion d’esempio, caratteri particolari fondati sul provenimento dei popoli e delle stirpi od anche decisive differenze gentilizie di famiglia o di razza, gli altri, per lo contrario, si ostinano sostenere avere poste ovunque natura su questo proposito le stessissime disposizioni e tutta la differenza dipendere da estranee circo stanze fortuite, non avete che da esaminare, ne’ singoli casi, le proprietà e la natura dell’oggetto e sarete fatti scorti, esso troppo celarsi profondamente ad ammendue i partiti, 

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perché non possano ragionarne, quasi come ne avessero penetrate le dette proprietà e natura. E non è che il doppio interesse della ragione quello, cui prendono a cuore od affettano prender parte le diverse fazioni, chi per un verso e chi per l’altro; il perché ne consegue sì la diversità nelle massime, ora per ora per la moltiplicità, ora per l’unità nella natura, e sì anche il potersi queste massime agevolmente combinare fra loro. Sinché però le si ritengono quali viste obbiettive, ne ridonda non solamente motivo a dissensioni, ma sì eziandio ad ostacoli, che impediscono lungamente la verità, sino a che sorga propizia circostanza, che il ripugnante interesse della ragione riconcili con sé medesimo e lasci contenta, non che soddisfatta, in proposito la stessa ragione.

Né andò guari altrimenti la cosa rispetto all’asserzione, o dirò meglio, 

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contesa della sì famigerata legge, introdotta già da Leibnizio e sì egregiamente stabilita dal Bonneto, intorno alla continuata catena o scala delle cose create; nella quale non si fa che seguire il principio fondamentale dell’affinità, già fondato esso medesimo sull’avvertito interesse della ragione. Ché né l’osservazione dell’economia e dell’ordine della natura, né il penetrare più addentro in essolei potevano mai produrre siffatta legge, in qualità di asserzione obbiettiva. Sono troppo distanti uno dall’altro i gradini di questa scala, quali può la sperienza offrirceli: e le differenze, che noi reputiamo di poco momento, sono d’ordinario spaccature di sì enorme ampiezza nella natura medesima, talché non è guari da credere, comeché ne vengano espressi gli scopi da siffatte osservazioni (massime in una grande 

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varietà di cose, dove sono sempre facili a trovarsi gli avvicinamenti e le somiglianze). Il metodo, invece, per cui l’ordine cercare nella natura, in conformità di cosiffatto principio, e la massima di considerare un tal ordine come generalmente fondato nella stessa natura, quantunque rimanga sempre determinato il quando e sin dove costituiscono un legittimo ed egregio principio regolativo della ragione. Il qual principio però si estende assai più in là, come tale, che ove potessero tenervi dietro, non che stargli d’appresso, la sperienza, non che l’osservazione, per non poter quindi mai nulla determinare di positivo e perché stiensi desse contente a che il detto principio indichi loro la via dell’unità sistematica(1).

(1) Recapitolando questa lunga appendice

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sul valore delle idee anche meramente speculative, rispetto al sapere, son elleno, che impegnano tener dietro e più lontano che si può allo studio empirico delle condizioni più distanti ed elevate, come studio indispensabile cotesto, perché vi sia maggiore unità nella cognizione empirica e perché dessa riesca più compiuta. Così è dalla idea trascendentale della ragione, intorno all’unità e sostanzialità dell’anima, che riduciamo ad unità, secondo Kant, le moltiplici varietà, che raccoglie la psicologia empirica e che la ragione cerca elaborare, onde farne una cognizione empirica sistematica. I fenomeni particolari dello spirito vengono riferiti alle forze radicali; e tutte queste si riporterebbero ad una forza radicale unica, se la cosa fosse fattibile colla sperienza. Così le

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idee razionali trascendentali dell’insieme del mondo possono far in modo che la ragione insegua sempre davvantaggio la serie dei fenomeni condizionali, sino a tanto che non ristà la sperienza dal porgerle amica in aiuto la mano. Elle servono in oltre a provarle, non aver essa ragione attinto l’ultimo confine, quando pure obbligata la si trovi arrestarsi, essendo che le idee razionali cosmologiche le rappresentano, come scopo e limite infinito, l’assoluto. Poiché obbligati, finalmente, ad associare l’idea dell’armonia coll’insieme dell’universo, alfine di apprezzare il meccanismo della natura, l’idea trascendentale di una cagione suprema ed intelligente del mondo ne invita riflettere più profondamente al meccanismo armonico della natura e ad esaminarlo in sé medesimo con più scrupolosa precisione, onde farne l’oggetto delle nostre considerazioni, risguardo al punto di vista teologico. E questo sarebbe l’uso, cui l’Autore chiama regolativo delle idee trascendentali della ragione nella sperienza.

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Rispetto all’uso, parimenti regolativo, delle altre idee non trascendentali, esse pure non servono che a recare unità nella moltiplicità sperimentale. Così l’intelletto si forma delle nozioni (concetti) generiche intorno agli oggetti, secondo ch’ei si trovano corredati di queste o quelle fra le determinazioni, colle quali vengono concepute le dette nozioni dei medesimi. Nel che l’intendimento è guidato, in primo lungo, dal concetto dell’identità degli oggetti, che lo impegna riunire sotto una sola idea le moltiplici varietà. Gli serve, in secondo luogo, di scorta il concetto della disparità dei medesimi e questa lo determina riunire, non che investiegare, l’identico. Segue, in terzo luogo, il concetto dell’affinità degli oggetti, quando fra due specie di cose naturali, che si toccano fra di loro, evvi un’altra specie, che serve ad insieme riunirle; il qual concetto rende possibile, anzi agevola, il passaggio vicendevole fra le due prime. Così l’idea della semplificazione dell’atto, con cui riferire od 

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avvicinare alla pluralità l’unità, conduce l’intendimento nella naturale sua propensione all’unità della pluralità della sperienza. Quante volte non consideriamo, quali effetti di cause differenti nella cosa medesima, i diversi effetti che percepiamo da questa procedere? standoci però alla detta idea, e non meno presti che operosi a semplificare l’efficienza ed a prevedere, i differenti e moltiplici effetti di una che il prodotto di una medesima causa. Sino a che, pertanto, le idee razionali non ci servono che dentro la sfera della sperienza, elle sono di grandissima importanza, quali principi regolatori dell’umano sapere, come quelle che non pure lo favoreggiano ed arricchiscono, ma che ne facilitano l’unità sistematica. Avverte però Kant, qualmente le riescono infinitamente nocive agli interessi veri della ragione, tosto che cessiamo di prevalercene come di semplici principi regolativi e le consideriamo quasi fossero costitutivi, onde giunge, per esse,

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alla cognizione dell’assoluto al di là dei limiti della sperienza medesima: comeché tale abuso cagioni allora ciò, ch’ei chiama ragione pervertita e serve d’argomento al titolo che segue.

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