II
DOTTRINA TRASCENDENTALE DEL METODO
CAPO I – DISCIPLINA DELLA RAGIONE PURA
SEZIONE PRIMA
DELLA DISCIPLINA DELLA RAGIONE PURA NELL’USO DOGMATICO
Appendice alla dialettica trascendentale dell’uso regolativo delle idee di ragione pura
Dell’ultimo scopo della dialettica naturale dell’umana ragione
PARTE SECONDA
Metodologia
Introduzione
Della dottrina trascendentale del metodo
Cap. I – Disciplina della ragione pura
Sezione I – Della disciplina della ragione pura nell’uso dogmatico
1. Delle definizioni
2. Degli assiomi
3. Delle dimostrazioni
Sezione II – Della disciplina della ragione pura, rispetto al di lei uso polemico
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La sola prova apodittica, in quanto sarà essa intuitiva, può chiamarsi dimostrazione. Ben c’insegna la sperienza quello, che c’è, ma non ci affida se quello stesso non possa essere altrimenti. Quindi è che gli argomenti empirici mai non valgono procacciare alcuna prova apodittica. Dai concetti a priori però (nella cognizione discorrevole) non può mai nascere intuitiva certezza, vale a dire, evidenza; per quanto
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altronde il giudizio fosse per essere certo apoditticamente. Dunque non v’è che la matematica sola, che in sé contenga dimostrazioni; come tale, che deriva il suo sapere, dai concetti non già, ma dalla costruzione loro, voglio dire, dalla visione, che può essere data a priori correlativamente ai concetti. Sino il procedere dell’algebra colle sue equazioni, ond’essa cava, mediante riduzione, la verità insieme colla prova, consiste in una costruzione, non geometrica, nel vero, ma tuttavia caratteristica, dove coi segni si presentano i concetti nella visione, specialmente quelli della proporzione delle quantità, e dove, senza neppure il menomo riguardo alla ragione euristica, solo sottoponendo alla vista ogni singola conclusione, le si guarentiscono quante sono dall’errore. La cognizione filosofica, per lo contrario,
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è tenuta rinunziare a tale vantaggio; come quella, che dee sempre considerare in astratto (mediante concetti) l’universale: mentre può la matematica ponderarlo in concreto (in singole visioni) e tuttavia mediante rappresentazione pura, a priori; dove non può a meno di essere visibile qualunque passo in fallo. Amerei dunque denominare acroamatiche (discorsive) le prove dapprincipio accennate, poiché le non si possono condurre se non per mezzo di parole (coll’oggetto nel pensiero), anzi che denominarle dimostrazioni, come quelle, che, siccome già dinota il vocabolo, progrediscono nella visione dell’oggetto.
A tutte le quali cose consegue, non addirsi per niente alla natura della filosofia, massime nel territorio della ragione pura, l’insuperbire con un portamento dogmatico
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e l’abbellirsi dei titoli e delle decorazioni della matematica; non essendo quella inscritta degli ordini (cavallereschi) di questa, quantunque abbia tutta ragione di reputarsele congiunta con legami di fratellanza. Sono però vane le accennate pretensioni e da non mai ottenere successo, anzi le son tali da retrogradare, se non invertere, lo scopo, cui si cui si propone filosofia, di scovrire i prestigi di una ragione, che non conosce i suoi limiti, e di ricondurre, con quanto basta idoneo schiarimento e sviluppo de’ nostri concetti, l’arroganza della speculazione (metafisica) alla modesta, ma fondata, cognizione di sé medesimi. Ne’ suoi tentativi trascendentali, non è dunque lecito alla ragione l’affettare un’aria di confidenza, comeché la strada già da essa percorsa conducesse diritto diritto alla meta, e la non dee con
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iattanza calcolare sulle premesse da esso lei poste a fondamento, quasi non le fosse necessario di spesso alle spalle guardarsi e por mente se, nelle conclusioni progredendo, non emergano per avventura errori, trascurati nei principi, e se non quindi nasca bisogno di meglio determinare o di affatto cambiare i detti principi.
Piacemi dividere in dogmi e matemi (mathemata) quante sono le proposizioni apodittiche (sieno poi queste soltanto suscettive di prova od immediatamente certe). La proposizione direttamente sintetica, per via di concetti, è dogma; ed è matema invece una simile sentenza, mediante costruzione di concetti. Dai giudizi analitici non appariamo propriamente, risguardo all’oggetto, nulla più di quanto già cape nel concetto, cui possediamo del medesimo; poiché tali giudizi non
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allargano il sapere intorno al concetto del soggetto, ma solamente lo rischiarano. Il perché tornerebbe loro incompetente la denominazione di dogmi (la qual voce sarebbe forse traducibile per sentenza dottrinale, Lehrspruch). Ma fra i mentovati poc’anzi due generi di proposizioni sintetiche a priori, stando allo stile ordinario del discorso, quelle, alle quali sole si accorda il detto nome, sarebbero le appartegnenti alla cognizione filosofica; giacché difficilmente si chiamerebbero dogmi le proposizioni dell’aritmetica e della geometria. Il qual uso con ferma l’addotta spiegazione sull’essere solamente i giudizi dedotti dai concetti e non i provenienti da costruzioni dei medesimi, che meritino chiamarsi dogmatici.
Ora tutta quanta la ragione pura, nell’impiego suo meramente speculativo, non comprende neppure
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un solo giudizio direttamente sintetico per via di concetti. Imperocché, per mezzo delle idee, non è la ragione capace, come ho già dimostrato, di niun giudizio sintetico, al quale competesse valore obbiettivo. Per mezzo poi dei concetti intellettuali ben acquista e costituisce ragione massime sicure, non però direttamente dai medesimi concetti, ma ognora soltanto indirettamente, mercé la relazione loro con qualche cosa di affatto accidentale, voglio dire, colla possibile sperienza. Posta è premessa, nel qual caso, la cosa (come oggetto di sperienza possibile), le dette massime riesciranno apoditticamente certe ad ogni modo; per sé stesse però (direttamente), le non possono essere neppure conosciute a priori. Così dai soli concetti esibiti nella proposizione: tutto ciò che accade ha la sua causa,
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non è chi sappia con fondamento penetrare tale sentenza. Quindi essa non è dogma; quantunque suscettiva di essere benissimo provata ed apoditticamente sotto altri punti di vista, nella sola estensione, cioè, del suo possibile adoperamento, voglio dire, della sperienza. Ma, sebbene abbia essa mestieri di prove, la si dice principio e non teorema; stante la proprietà, che ha particolare, di prima rendere possibile il proprio argomento dimostrativo, cioè a dire, la sperienza, e di esservi ognora premessa di necessità.
Se nell’uso contemplativo, adunque, della ragione pura non si danno dogmi, nemmeno rispetto alla materia, ne viene, che vi sarà incompetente qualunque metodo dogmatico; sia poi questo preso a mutuo dalle matematiche che uno se ne costituisca del proprio e particolare. Perciocché tali metodi non
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fanno che palliare i difetti e gli errori, facendo illusione alla filosofia, il cui vero divisamento è di far vedere nel suo più gran lume ogni passo della ragione. Nulla osta ciò non pertanto, perché il metodo sia sempre sistematico; giacché la stessa ragione dell’uomo costituisce (subbiettivamente) un sistema; che però nel puro di lei uso, mediante soli concetti, non è che un sistema d’investigazione dietro le massime dell’unità; e la sola sperienza può fornirlo di materiale. Rispetto al metodo proprio e conveniente ad una filosofia trascendentale, non se ne può quivi dir nulla; essendo che solo ci occupiamo della critica in onde vedere se ne sia lecito fabbricare ovunque ne aggrada, ed a quale altezza possiamo innalzare il nostro edifizio col materiale, cui abbiamo in pronto (coi concetti puri a priori).