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DOTTRINA TRASCENDENTALE DEL METODO
CAPO I – DISCIPLINA DELLA RAGIONE PURA
Appendice alla dialettica trascendentale dell’uso regolativo delle idee di ragione pura
Dell’ultimo scopo della dialettica naturale dell’umana ragione
PARTE SECONDA
Metodologia
Introduzione
Della dottrina trascendentale del metodo
Cap. I – Disciplina della ragione pura
Sezione I – Della disciplina della ragione pura nell’uso dogmatico
1. Delle definizioni
2. Degli assiomi
3. Delle dimostrazioni
Sezione II – Della disciplina della ragione pura, rispetto al di lei uso polemico
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In tutte le sue intraprese dee la ragione assoggettarsi alla critica né può essa derogare con alcun divieto alla costei libertà senza recar danno a sé stessa ed attirarsi pregiudizievoli sospetti. Ora non vi ha nulla di tanto importante, rispetto all’utilità, e nulla di così sacrosanto, che sottrarsi potesse ai cimenti ed alla rassegna di una investigazione, che non conosce dignità personali. Che anzi è fondata su questa libertà la stessa esistenza della ragione; alla quale non compete alcun’autorità dittatoria, ma
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la cui sentenza in altro mai non consiste che nel consentimento di liberi cittadini, ciascuno dei quali dee poter manifestare senza ritegno le sue dubbiezze, anzi persino il suo veto.
Quantunque però non sia mai lecito alla ragione lo schermirsi dalla critica, non ha essa tuttavia sempre motivi, pei quali allarmarsene. Solché non è poi siffattamente consapevole a sé medesima della più che mai precisa espressione di sue leggi supreme, nel di lei uso dogmatico (e non matematico) la ragione, perché la non dovesse presentarsi esitabonda, e dirò, anzi, affatto spoglia di ogni quando mai dianzi affettata dogmatica autorità, nanti l’occhio critico di una ragione più elevata e rivestita della potestà di giudicare.
Ben diversa è la cosa ogni qual volta non ha la ragione che fare
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colla censura del giudice, ma solo si occupa delle pretese de’ suoi concittadini e non ha che a difendersi da queste. Imperocché, siccome anche i concittadini si avvisano essere niente meno dogmatici, quantunque negando, che lo è la ragione, asserendo, così ha luogo la giustificazione κατ ἂνδρωπον (per gli uomini); la quale guarentisce da qualsivoglia usurpamento nei dritti e procaccia un possedimento legittimo, che non dee temere di veruna pretensione straniera, quantunque non possa esso medesimo comprovarsi bastevolmente κατ άλήδειαν (per la verità).
Ora sotto l’espressione, uso polemico della ragione pura, intendo la difesa di sue sentenze contro le impugnazioni dogmatiche delle medesime. Costì però non si tratta, se mai fossero, per avventura, fallaci anch’esse le pretese della ragione,
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ma soltanto, che niuno valga sostenere il contrario giammai con apodittica certezza (o con solo anche maggiore illusione). Ché poi, finalmente, non ci stiam già per carità nel nostro possesso, quantunque volte ne abbiamo a nostro favore un titolo, sebbene insufficiente; sapendosi altronde per assolutamente certo che mai nessuno sarà in caso di provare l’illegittimità del detto possedimento.
Ella è cosa ben disgustosa ed umiliante che debba esservi generalmente un’antitetica della ragione pura e che, mentre questa rappresenta pur sempre il tribunale su premo di tutte le contese, debba ella cadere in contrasto con sé medesima. Ben ebbimo sotťocchio, più sopra, una simile antitetica speciosa della ragione, dove però vedemmo, aver essa fondamento sopra una sinistra interpretazione, in
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quanto, cioè, seguendo la erronea opinione volgare, prendevansi per cose in sé stesse le apparizioni e si pretendeva poscia, in un modo o nell’altro, l’assoluta perfezione della sintesi loro (che riesciva per altro impossibile in ambedue le maniere); perfezione, alla quale non possiamo aspettarci per nulla in fatto di apparizioni. Per la qual cosa non può dirsi, comeché allora vi fosse vera contraddizione della ragione con sé medesima nelle proposizioni, una delle quali stabiliva, come avente un primo incominciamento assoluto, la serie delle per sé date apparizioni, e l’altra dava, essere assolutamente per sé stessa e senza verun principio una tal serie. Giacché ambedue le proposizioni possono sussistere benissimo insieme; non essendo il gran nulla per sé stesse, rispetto all’esistenza, le apparizioni (come fenomeni), consistendo
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già elle, cioè, in qualche cosa di contradditorio e dovendo pertanto la premessa loro attirarsi conseguenze naturalmente ripugnanti.
Ma una sinistra interpretazione di questa fatta non può allegarsi a pretesto, né quindi alla ragione imputarsi la contraddizione, se mai cadesse ad alcuno in pensiero di sostenere e teisticamente, che vi è un ente supremo, e che non ve n’è alcuno, secondo il contrario parere ateistico. Così neppure in psicologia, se, mentre questi asserisce, che tutto ciò, che pensa, consiste in assoluta e perseverante unità ed è perciò diverso da ogni passeggiera e materiale unità, quell’altro gli opponesse, non costituirsi unità immateriale dall’anima e non poter questa esimersi ed eccettuarsi dalla caducità. Con ciò sia che l’oggetto della dimanda è costì libero
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da quanto vi fosse di straniero e ripugnante alla di lui natura, e l’intelletto non vi si occupa di apparizioni, ma solo di cose per sé stesse. Vero bensì, per conseguente, che incontreressimo quivi una vera contraddizione solché la ragione pura potesse dalla parte negante asserir qualche cosa, che si avvicinasse al fondamento di un’asserzione. Imperocché, per quanto risguarda la critica degli argomenti del dogmaticamente affermante, questi gli si possono concedere benissimo, senza perciò rinunziare alle dette proposizioni; come quelleno, a favor delle quali milita, se non altro, l’interesse della ragione; interesse, cui non può l’avversario appellarsi né punto né poco.
Dirò bene, che non so punto conformarmi all’opinione, cui, ben sentendo la svenevolezza de’ sino a quest’oggi addotti argomenti, manifestarono
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spesso eccellenti e profondi pensatori (p. e. Sulzer), comeché sia da sperare, possano una qualche volta ritrovarsi dimostrazioni evidenti per le due proposizioni cardinali della ragione dell’uomo, l’esistenza di Dio e la vita futura: e sono anzi certo qualmente ciò non sarà per accadere giammai. D’onde potrebbe, di fatto, attingere la ragione un fondamento per simili asserzioni sintetiche, non aventi rapporto né cogli oggetti della sperienza, né colla intrinseca possibilità dei medesimi? Gli è però anche certo apoditticamente, che non sorgerà mai chi fosse capace colla menoma illusione, meno poi dogmaticamente, a sostenere il contrario. Imperocché, siccome non lo potrebbe dimostrare se non colla ragione pura, così bisognerebbe ch’egli imprendesse a convincere, impossibili essere, come intelligenze
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pure, un ente supremo ed un soggetto pensante in essonoi. Ma dove pescherà esso, di grazia, la cognizione, che l’autorizzi a così giudicare sinteticamente intorno a cose, che di così gran lunga trascendono, quanta è mai possibile sperienza? Stiamoci adunque tranquilli affatto, ché non sarà mai chi venga il contrario a provarci su questo particolare: sul quale non ci è punto mestieri di meditare argomenti scolastici; atteso che possiamo ammettere liberamente quelle proposizioni, che si trovano pienamente coerenti coll’interesse od eccitamento speculativo della nostra ragione nell’uso empirico e che sono in oltre i mezzi unici, pei quali combinare l’interesse di lei contemplativo col pratico. Risguardo al competitore (che in questo luogo non dee considerarsi unicamente come critico), abbiamo sempre in pronto il nostro
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non consta (non liquet), che lo dee mettere, senza forse, in confusione: mentre dal canto nostro non ci ricusiamo a ch’egli ne ritorni lo stesso argomento; avendo sempre in riserva la massima subbiettiva della ragione; massima, onde manca necessariamente l’avversario, e sotto la cui tutela possiamo starci spettatori tranquilli ed indifferenti ai di lui colpi nell’aria.
In tal guisa non si dà propria mente alcun’antitetica di ragione pura; perocché il solo campo di battaglia, per tale antinomia, sarebbe d’uopo cercarlo sul territorio della teologia pura e della psicologia. Ma non è atto questo suolo a sostenere un guerriero né da capo a piedi armato, né con armi da incutere timore. Che anzi non può un tal campione se non presentarsi con ischermi e millanterie da muovere alle risa, come se fossero
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giuochi da fanciulli. Ed è questa una riflessione consolatrice, per la quale torna di buon animo la ragione. In che mai potrebb’essa riporre altrimenti fiducia, se, mentre i suoi destini la chiamano a tutti allontanare gli errori e che lo può ella sola, essa medesima si trovasse in dissidio con sé stessa e senza mai speranza di tranquillo possedimento e di pace?
Tutto ciò, cui ordina e stabilisce la stessa natura, è utile a qualche scopo. Sino i veleni giovano a soverchiare altri veleni, che si vanno producendo nei propri nostri umori; ond’è ch’ei non dovrebbono mancare giammai in una perfetta collezione di medicamenti (officina farmaceutica). È la stessa natura della ragione dell’uomo quella, che fornisce rimproveri ed obbiezioni contro l’arroganza ed il sopraffar con parole della ragione meramente speculativa: il perché a tali rimproveri
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ed obbiezioni dee competere un utile destino e scopo, da non perciò disperdersi al vento. Perché mai la provvidenza pose in parte sì elevata parecchi oggetti, sebbene strettamente connessi col massimo nostro interesse; talché ci viene a mala pena concesso lo scontrarli in una confusa e persino dubbia percezione, la quale serve piuttosto a soletticare lo sguardo indagatore che non ad appagarlo? È per lo meno dubbio, se convenga stabilire i destini di tali viste o se non ridondi piuttosto a danno un tale ardimento. È però sempre vantaggioso, e lo è senza la minima dubbiezza, il porre in piena libertà la ragione, tanto investigatrice quanto sperimentatrice, perché proveda senza ostacoli ai suoi propri interessi: lo che torna sempre favorevole egualmente, sia ch’ella determini confini e restrizioni alle proprie
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viste, sia che le allarghi davvantaggio; e sempre vi reca danno l’immischiarvisi di mani straniere, che l’adeschino a fini sforzati e contro l’andamento ad essolei naturale.
Lasciate pertanto che parli solamente ragione il vostro avversario e combattetelo colle armi sole della ragione. Del resto non datevi briga, risguardo alla buona causa (all’interesse pratico); poiché non prende questa mai parte ai contrasti meramente speculativi. Altro non palesano tali contrasti, se non una certa quale antinomia della ragione; poggiando la quale sulla natura della ragione medesima, essa dee necessariamente ottenerne udienza ed esame. Il contrasto coltiva tale antinomia, osservandone da due parti gli oggetti, e ne rettifica il giudizio, limitandolo. Egli non è della cosa, che in ciò si contrasta ma della maniera di ragionarla. Imperocché vi
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rimane ancora quanto basta, onde usare, giustificato per la ragione più severa, il linguaggio di una fede perseverante, quando aveste pure dovuto rinunziare a quello del sapere.
Se dovessimo interrogare David Hume, quell’uomo a sangue freddo e proprio fatto per l’equilibrio del giudizio, cosa finalmente lo movesse a sotterrare con faticosamente sofistiche dubbiezze la tanto pegli uomini consolatrice, non che utile, persuasione, qualmente basti la ragionevolezza loro sì ad asserire che a formarsi concetto determinato di un ente supremo? egli risponderebbe: Niente altro, fuorché vaghezza di far sì, che la ragione avanzasse nella cognizione di sé medesima, e nello stesso tempo un certo quasi dispetto per la violenza, che suol farsi alla ragione, magnificandola ed impedendola con ciò stesso
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dal fare spontanea ed ingenua confessione di sue debolezze; di quelle debolezze, che le si rendono manifeste nell’esame di sé medesima. Domandate in vece a Priestley, tutto divoto, qual esso è, alle massime dell’uso empirico della ragione, come avverso ad ogni contemplazione trascendentale, quali fossero in lui cause motrici, perché, sì pio e zelante maestro di religione egli stesso, schiantasse due colonne così essenziali a qualsivoglia religione che la libertà ed immortalità dell’anima nostra? (La speranza della vita futura non è per questo filosofo se non l’aspettazione di una maraviglia nella resurrezione). Al che altro non saprebbe rispondere Priestley, tranne che lo mosse l’interesse della ragione, che troppo ei perde pel sottrarre certi oggetti alle leggi della natura materiale, poiché le sole, che precisamente conosciamo
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e possiamo determinare. Sarebbe indiscreto il vituperare quest’ultimo, del saper esso combinare la sua paradossale asserzione collo scopo religioso, non che ingiuria recare ad un ottimo pensatore, perché non più trovare il sentiero, dopo essersi smarrito, abbandonando il territorio della fisica. Ma un tal favore non dee nientemeno accordarsi ad Hume, poiché di ugualmente ottime intenzioni ed ugualmente interessato alle qualità morali, benché non sappia esso dipartirsi dall’astratta sua contemplazione; reputando altronde a buon dritto, il proprio oggetto giacere affatto al di là dei confini della scienza naturale (nel campo delle idee pure).
Ora che fare in tale frangente, avuto massime riguardo al pericolo, che sembra minacciare il pubblico bene? Nulla di più naturale, né di più giusto, quanto la risoluzione,
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cui dovete prendere in proposito: lasciateli tutti pei fatti loro. Se hanno capacità, se nuova manifestano e profonda indagazione, se dimostrano, in somma, ragione, questa non può che via sempre guadagnarvi. Se vi appigliate ad altri mezzi tranne a quelli di una inviolentata ragione; se menate romore di alto tradimento; se chiamate a raccolta, quasi che si trattasse di spegnere un incendio, muoverete alle risa il pubblico; siccome quello, che nulla intende alla sottigliezza di tutte queste quistioni. Conciossiaché non si tratta già di quanto potesse quindi vantaggio emergere o nocumento al bene della repubblica; ma solo si ricerca, sin dove possa ragione spingere le sue speculazioni, digiuna di qualunque interesse, e se debba farsene generalmente alcun conto, o dar loro piuttosto commiato, a petto ed in grazia della morale.
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In vece adunque di usare violenza e menar colpi disperati, statevi tranquilli spettatori, dal seggio della critica, alla contesa; che, faticosa pei combattenti, sarà per voi di trattenimento, ed avrà un esito certamente incruento, anzi utilissimo alle vostre viste. Gli è troppo assurdo, di fatto, aspettarsi dalla ragione schiarimenti e volerle tuttavia prescrivere, in prevenzione, a qual partito la si debba, voglia non voglia, decidere. La ragione altronde è già domandata così bene e ridotta ne’ suoi cancelli dalla stessa ragione che non vi è punto mestieri di ordinar pattuglie, onde contrapporre la pubblica forza a quella delle parti, la cui prevalenza ve la facesse temere pericolosa. In questa dialettica non si danno vittorie, sulle quali poteste aver motivo d’allarme. Aggiungete, aver la ragione gran bisogno di tale contrasto:
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sarebbe anzi a desiderarsi, ch’esso avesse avuto luogo assai prima e con illimitata, non che pubblica, licenza. Ché sarebbe stata istituita molto prima una soda critica, il comparir della quale avrebbe fatto cessare necessariamente e di per sé tutti questi litigi; attesoché i combattenti sarebbero stati fatti scorti, per essa, dell’acciecamento e delle fallaci opinioni, onde provengono i lor dispareri.
Vi è un non so che di oscuro e simulato nella natura dell’uomo (ritenuto esserle poi anche inerente una qualche disposizione a fini vantaggiosi), come generalmente in tutto quanto proviene dalla natura. Quel non so che di oscuro consisterebbe, in questo caso, nell’inclinazione a celare i propri e far mostra di certi acquistati sentimenti, che hanno fama di utili e gloriosi. Non v’ha dubbio, che tale tendenza
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tanto a nascondere sé stessi, quanto ad affettare un aspetto ad essi apparentemente vantaggioso, ha contribuito a non pare civilizzare gl’uomini che a renderli mano mano e in certo modo più costumati. Perciocché, non essendo in grado alcuno di essi di penetrare quando finta od inorpellata la decenza, l’onestà e la costumattezza, e vedendosi cinti per ogni dove da esempi supposti genuini di virtù, gli uomini vi trovarono una scuola di emenda e miglioramento per loro. Tale disposizione però a simularsi o comparire migliori che non si è di fatto ed a manifestare sentimenti, quali non si hanno, serve in qualche modo, sebbene provisoriamente, a dirozzare, l’umana schiatta ed a far sì che vesta, sì tosto che lo conosce, la divisa del bene. Con ciò sia che, sviluppate che poscia ne sieno le massime ingenue e veraci e penetrato di
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queste, non che formato, lo spirito, dee la simulazione attivamente combattersi e poco a poco domarsi, come quella, che il cuore contamina, impedisce perché sorgano gli utili sentimenti, o li soffoca sotto le false apparenze del bello.
Duolmi di travedere niente meno simulazione infingersi ed ipocrisia nelle stesse manifestazioni persino dello spirito contemplatore, dove sono assai manco impedimenti, e niun disappunto consegue ad esporre, come si dovrebbe, sincera e nullamente celata la confessione dei pensieri dell’animo. Cosa, di fatto, può essere altrettanto nocivo all’umano sapere, quanto il farsi vicendevolmente liberali di pensieri depravati, l’ascondere dubbiezze, che sentiamo contrarie alle nostre asserzioni, o della vernice dell’evidenza coprire argomenti, che a noi medesimi non soddisfanno? Sinché intanto
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non è che l’ambizione privata quella, che macchina questi secreti raggiri (ed è questo il caso più frequente ne’ giudizi metafisici o contemplativi, come tali, che né sono di alcun particolare interesse, né leggiermente suscettivi di apodittica certezza), trovano essi tuttavia resistenza nell’ambizione di altri privati, ai quali è seconda l’approvazione del pubblico; e le cose riduconsi finalmente là dove le avrebbe ridotte, quantunque assai prima, la massima ingenuità e schiettezza d’animo e di sentimenti. Quando però il pubblico porta opinione, starsi gli arguti sofisti occupati niente meno che a rendere precaria e vacillante la solidità fondamentale della pubblica prosperità e salute, allora è consentaneo, se non erro, alla prudenza non solo, ma sì eziandio permesso, anzi glorioso, il farsi piuttosto a soccorso
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della buona causa con argomenti, benché speciosi, anzi che permettere ai pretesi avversari della medesima neppure il vantaggio di abbassare il nostro ragionamento alla moderazione di non più che morale convincimento e di obbligarne a confessarci digiuni di ogni speculativa ed apodittica certezza. Dovrei credere frattanto che, allo scopo di sostenere una buona causa nulla può farsi di peggio al mondo, e peggio riuscire che il conciliare la simulazione, l’insidia e l’inganno. Né certo saprei cosa potesse pretendersi di meno che onestà nel precedere, trattandosi di ponderare le ragioni fondamentali di una mera speculazione. Ma, se fosse lecito assicurarsi almeno di così poco e farne conto, sarebbe o già deciso da lunga pezza o da ben presto ridursi a termine il contrasto della ragione contemplatrice nelle importanti
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quistioni su Dio, l’immortalità (dell’anima) e la libertà. Così accade sovente, anzi che no, la ingenuità dei sentimenti essere in ragione contraria della stessa bontà della causa, la quale ha per avventura maggior numero di leali ed oneste persone fra gli avversari che non possa vantarne fra i difensori.
Io suppongo pertanto leggitori, che non vogliano saperne di causa giusta ingiustamente difesa. Ed è già deciso, rispetto a questi, che secondo i nostri principi fondamentali della critica, se non si abbadasse a ciò, che accade, bensì a ciò, che dovrebbe giustamente accadere, non vi dovrebb’essere propriamente nessuna polemica della ragione pura. Come può di fatto sorgere contesa e mantenersi fra due individui sopra una cosa, onde niuno dei due può mai dimostrare
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la realtà in una sperienza positiva e né tampoco in una sperienza possibile? giacché ne accarezza e, dirò così, fomenta ciascuno l’idea, solamente per cavarne qualche cosa di più che non è un’idea, voglio dire, l’effettività dell’oggetto medesimo. Con qual mezzo usciranno essi dalla lotta, se né questi né quegli può rendere direttamente intelligibile e certa la propria causa, ma non sa che muovere attacchi e confutazioni a quella dell’avversario? Imperocché gli è destino di tutte le asserzioni di ragione pura che, oltrepassando esse le condizioni d’ogni possibile sperienza, oltre le quali non è parte, ove si trovi un documento mai di verità, e costrette a tuttavia prevalersi delle leggi dell’intelletto, unicamente destinate all’uso empirico, senza le quali però non può fare alcun passo il pensare sintetico, le dette asserzioni
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offrono sempre il fianco mal coperto all’avversario e possono a vicenda giovarsi della nudità di quello del medesimo.
La critica della ragione pura può essere considerata come il vero foro giudiziario per tutte le controversie della detta ragione. Perocché tal critica non si trova implicata nelle dette controversie, come in quelle, che si riferiscono immediatamente agli oggetti; ma è per ciò costituita che in generale determini e giudichi della ragione i diritti, giusta le massime fondamentali di sua prima istituzione.
Senza la critica, la ragione si trova quasicome in istato di natura né può altrimenti far valere o guarentire le sue asserzioni e pretese, tranne colla guerra. La critica invece, come quella, che tutte le decisioni deriva dalle regole fondamentali del proprio istituto, delle
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quali non è chi possa mettere in dubbio l’autorità, ci procaccia lo stato di riposo di una legittima costituzione; dove non ci sarebbe accordato, perché trattassimo altrimenti le nostre controversie che mediante procedura. Ciò che solo pon fine alla guerra, nel primo stato, è la vittoria, onde sogliono millantarsi ambedue le parti ed alla quale d’ordinario non succede che una pace mal sicura, mediante componimento stabilito per qualche magistrato, che vi s’intromette; dove invece risulta eterna la pace, cui dee procurare la sentenza del tribunale, come quella, che le stesse fonti colpisce della discordia. Anche gl’interminati litigi della non altro che dogmatica ragione obbligano finalmente a riposo cercare da una qualche critica di questa ragione medesima e da qualche legislazione, che fondata sia su di
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quella. E sosteneva Hobbes, lo stato di natura essere stato d’ingiustizia e di violenza, cui bisognerebbe assolutamente abbandonare, onde sottoporci a vincoli ed obblighi legittimi, che soli bastassero circoscrivere in modo la nostra libertà, perché la potesse trovarsi d’accordo e sussistere colla libertà di ciascun altro e, per conseguente, colla pubblica prosperità.
Il perché appartiene pure a questo genere di libertà quella di potere sporre a pubblico giudizio i suoi pensieri e le dubbiezze, quali non ci sentiamo al caso di risolvere per noi medesimi, e di poterlo senza risico di essere perciò, proclamati quali cittadini irrequieti e pericolosi. La qual cosa è già inerente ai diritti originari della ragione umana, come di quella, che altro giudice non riconosce tranne l’universale consentimento della stessa
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umana ragione, dove ha ciascun uomo suffragio e voce. E siccome dee da questa provenire ogni miglioramento ed emenda, ond’è suscettivo e capace il nostro stato cosi un tal dritto è sacro e non si può né menomarlo, né derogarvi. Oltre di che, gli è il più stolto che mai divisamento quello di proclamare pericolosi o minaccievoli alcune asserzioni azzardate o certi attacchi temerari, che già godono favorevole approvazione dalla massima e miglior parte della repubblica; essendo questo un attribuir loro quella, ch’elle punto non hanno, importanza. Quando ascolto, un qualche non volgare ingegno avere, dimostrando, confutata e distrutta la libertà dell’umano arbitrio, la speranza di una vita futura e l’esistenza di Dio, son tosto impaziente di leggere il libro, nella fidanza ed aspettazione, comeché di un tal
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uomo le viste non potessero a meno di far avanzare le mie cognizioni. E tale ho desiderio e fiducia, non ostante che pienamente certo, in prevenzione, che l’autore non avrà dimostrato nulla di quanto promette; non già perché mi creda possedere prove irrefragabili della verità ed importanza delle impugnate proposizioni, ma perché la critica trascendentale, facendomi copia di quanta è la suppellettile di nostra pura ragione, mi ha pienamente convinto che quanto è dessa ragione insufficiente ad asserzioni affermative nella palestra in discorso, altrettanto poco ed anche meno vi può essa conoscere, onde alcun che di negativo sostenere sulle dette quistioni. D’onde, in fatti, attingerà il sedicente spirito forte la cognizione del non esservi, p. e., un ente supremo? Questa proposizione giace al di là del territorio
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della possibile sperienza ed oltrepassa, per conseguente, i confini d’ogni umano sapere. Ove sorgesse contro questo nemico un difensore dogmatico della buona causa, non sarei mai, all’opposto, per leggere il di lui libro; giacché so, anche a manco di leggerlo, ch’egli non per altro attaccherà gli argomenti speciosi dell’avversario che per ottenere di per tal mezzo introdurre i suoi propri. Oltre di che, so pure, non somministrarsi da un’illusione quotidiana tanto materiale a nuove osservazioni, quanto ne offre un prestigio strano ed ingegnosamente macchinato. Per lo contrario, se fosse dogmatico anch’esso, alla sua maniera, quel primo impugnatore della religione offrirebbe un altrettanto ben venuta, quanto già vagheggiata, occupazione alla mia critica, non che motivo per cui rettificare in più d’una parte le di lei massime,
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senza che mai valesse il nuovo campione incutermi ombra di timore.
La gioventù però, quale si commette alle istituzioni accademiche, dee per lo meno essere ammonita intorno a simili scritti e vuolsi ad essa impedire la cognizione precoce di proposizioni così pericolose, anzi che sia matura la facoltà di giudicare, o prima, dirò meglio, che abbia gettate ferme radici la dottrina, che si pensa instillarle; onde possa quindi con forza resistersi ad ogni persuasione in contrario, qualunque poi sia la parte, onde questa proviene.
Se nelle vertenze di ragione pura dovessimo attenerci e continuare sulla via dogmatica e se la confutazione degli avversari dovess’essere propriamente polemica, voglio dire, costituita in maniera da commettersi al combattimento armati
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cogli argomenti per le asserzioni contrarie, certo che nulla si darebbe, in tal caso di meglio divisato per il momento, però anche nulla di più vano ed inutile per la durata, quanto il porre per un dato tempo la gioventù sotto qualche tutela ed il guarentirla intanto, per lo meno, dalla seduzione. Ma, se in seguito poi la curiosità, o la moda dei tempi, fa capitare alle mani di cosiffatte opere, avrà mò allora luogo la giovenile persuasione? Quegli, che seco non porta se non armi dogmatiche, onde resistere agli attacchi del suo competitore, né sa come svolgere la dialettica celata nel suo non meno che nell’animo dell’avversario, vede sorgere argomenti speciosi ed illusori, aventi la prerogativa della novità, contro argomenti ugualmente speciosi ed illusori, ma non egualmente nuovi e che anzi muovono sospetto di già
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tempo abusata, per essi, credulità giovenile. Onde crede non poter altrimenti meglio dimostrare, non aver egli più mestieri di fanciullesca invigilanza e tutela, se non superiore facendosi a quegli utili ammonimenti; ed, avvezzato al dogmatismo si trangugia a lunghi sorsi il veleno, che deprava e corrompe dogmaticamente le di lui massime.
Nelle istruzioni accademiche dee succedere precisamente l’opposto di quanto è costì consigliato, ben inteso, però, sotto la premessa esclusiva di un solido insegnamento nella critica della ragione pura. Con ciò sia che, onde vengano posti in pratica il più presto possibile i di lei principi e perché sia dimostrata la sufficienza loro, anche risguardo ai più imponenti prestigi dialettici, gli è assolutamente necessario dirigere contro la propria ragione, ancora debole sì, ma illuminata
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dalla critica, gli attacchi, sì reformidati al dogmatico, e lasciare che osi essa cimentare alla prova di que’ principi, una per una e pezzo per pezzo, tutte le vane asserzioni dell’avversario. Con che non può riescire guari difficile il risolverle in mero fumo; e così l’allievo sente e misura di buon’ora le proprie forze a pienamente guarentirsi da quei nocivi prestigi, che non possono a meno di finalmente a suoi occhi spogliarsi di qualunque illusione. E sebbene gli stessi colpi, che rovesciano le fortificazioni del nemico, debbono essere ugualmente fatali al suo proprio edifizio speculativo, se gli prendesse mai vaghezza di costruirne, si è non di meno affatto indifferenti su tale pericolo; non avendosi bisogno di stanza in quel edifizio, ma solo di possedervi un nuovo punto di vista sui poderi della pratica; nella quale
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si ha motivo di sperare un terreno più sicuro ed opportuno alla costruzione di un sistema egualmente ragionevole che salutare.
Dalle quali cose consegue, nel territorio della ragione pura non darsi polemica propriamente meritevole di questo nome. I partiti combattenti lottano ambidue alla cieca nell’aria e si abbarruffano colle proprie ombre, come queglino, che della natura oltrepassano i limiti e si recano in parte, ove non si trova nulla di quanto potesse afferrarsi e ritenersi da loro artigli dogmatici. Egli hanno bello a battagliarsi, poiché le ombre, ch’ei fanno a pezzi, tornano di bel nuovo insieme in un batter d’occhio, siccome gli eroi della fantasmagoria, onde offerire nuovo sollazzo di zuffe incruente.
Ma della ragione pura non è lecito nemmeno un impiego scettico,
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a cui potesse competere il nome di massima fondamentale di neutralità in tutte le di lei controversie. L’aizzare la ragione contro se medesima, il somministrarle armi da cadauna delle parti e lo starsi quindi spettatori tranquilli a dileggiarla nel calor della pugna, dalla loggia dogmatica, non è punto bello vedersi e dinota piuttosto intrinseca malignità, ed animo lieto agli altrui danni. Quando, non di meno, scorgiamo invincibile sì l’accecamento che l’arroganza dei sofisti e che non è critica, la quale valga temperarli a moderazione, non vi è, nel vero, altro migliore consiglio che di contrapporre alla millanteria dell’un partito altrettanta iattanza, egualmente basata sugli stessi diritti, onde, sorpresa ed insospettita, per lo meno, la ragione, dalla ostinata resistenza di qualche avversario, riducasi finalmente
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a dubitare in qualche maniera di sue pretensioni ed a porgere ascolto alla critica. Se non che l’arrestarsi affatto e dar peso a tali dubbiezze, decampando per esse dalle quistioni, comeché il convincimento e la confessione della propria ignoranza fosse rimedio non solo contro la presunzione dogmatica, ma sì eziandio la maniera più commendevole di por fine alla contesa della ragione con sé stessa, è progetto affatto vano e che non può in verun modo convenire allo scopo di procacciare alla ragione uno stato di riposo; ma non fornisce, tutt’al più, che un rimedio, per cui risvegliarla dal tranquillo sonno dogmatico e ridurla esaminare con più di premura il proprio stato. Siccome frattanto questa maniera scettica, per la quale tirarsi d’affare in circostanze difficili della ragione, pare quasi essere la
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strada più corta, onde pervenire ad una durevole tranquillità e pace filosofica, o, se non la più breve, la strada maestra, per lo meno, cui battono volontieri coloro, i quali avvisano darsi aria ed importanza filosofica, spargendo il ridicolo e lo scherno su tutte le investigazioni di questo genere, così trovo necessario di esporre nella sua vera luce questa foggia di pensare.
Fine del Tomo Settimo