Art. I. Teoria della Sensibilità pura. Modo con cui si formano in noi le percezioni degli oggetti sensibili. Dello Spazio e del Tempo
Art. II. Teoria dell’Intelletto puro. Generazione delle leggi universali che regolan gli oggetti sensibili. Categorie e forme del pensiero. Schematismo. Riflessione trascendentale. Natura
Art. III. Teoria della Ragione pura. Della legge dell’assoluto. Delle Idee trascendentali. Paralogismi, antinomie, e ideale della Ragione pura. Delle prove specolative dell’esistenza di Dio
Art. IV. Teoria della Ragione pratica. Sentimento fondamentale della coscienza. Libero arbitrio. Imperativo categorico. Unione necessaria delle due tendenze verso la felicità e verso il dovere. Immortalità dell’anima. Dio
Art. I. Esame della Teoria della Sensibilità pura
Art. II. Esame della Teoria dell’Intelletto puro
Art. III. Esame della Teoria della Ragione pura
Art. IV. Esame della Teoria della Ragione pratica
Art. V. Esame della Filosofia sperimentale opposta alla trascendentale di Kant
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Kant incomincia dal dichiarare che le rappresentazioni dello spazio e del tempo son intime a noi medesimi, indipendenti dagli oggetti così interni, come esterni, anteriori a qualunque rappresentazione degli oggetti; che sono subbiettive, non obbiettive; che sono condizioni necessarie della nostra Facoltà di conoscere, sono le forme, di cui la nostra Sensibilità veste per sua natura tutte le sue sensazioni.
Aggiunge quindi, che la Sensibilità vestendo le proprie sensazioni o piuttosto percezioni e intuizioni della forma dello spazio, le trasporta fuori di noi; attribuisce loro le tre dimensioni in lungo, largo, e profondo; e ne fa quindi nascere le rappresentazioni degli oggetti estesi, le rappresentazioni de’ corpi: che la medesima Sensibilità vestendo della forma del tempo le percezioni delle nostre affezioni e modificazioni interiori fa che n’abbiam la rappresentazione, senza di cui neppur esse esisterebbero.
Or qui in primo luogo amerei di sapere che cosa sieno, e come esistano in noi queste rappresentazioni dello spazio e delle sue dimensioni, prima che abbiamo acquistata niun’idea d’estensione, che cosa sieno, e come esistano queste rappresentazioni del tempo, innanzi che niun’idea di successione si sia a noi
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presentata. Il dir che son forme subbiettive della nostra Sensibilità, che sono condizioni necessarie della nostra Facoltà di conoscere, e un dir parole enimmatiche, vestir d’un’aria misteriosa asserzioni gratuite, e nulla più.
Ed in vero come proverà egli Kant, che queste rappresentazioni esistano in noi anteriormente ad ogni sensazione, e molto più che sien intime a noi medesimi, che sien dipendenti dalla nostra stessa natura, anzi che costituiscan con quella una medesima cosa?
Ei non ha altro argomento onde asserirlo, o dirò meglio supporlo, se non il pretendere, che queste rappresentazioni sieno in noi assolute, indeterminate, infinite, e che quindi non v’abbia nessun oggetto da cui possiamo acquistarle.
Ma a chi potrà egli persuadere, che noi abbiamo queste rappresentazioni dello spazio e del tempo assoluto e infinito? D’uno spazio determinato, d’un tempo finito io ho certamente chiarissima idea: posso supporre che oltre a tutti gl’ingrandimenti ch’io mi fingo esista ancora dell’altro spazio e questo tempo sono infiniti per me, vale a dire ch’io non so trovarne i confini. Ma questo spazio e questo tempo infinito non mi presentano che un’idea negativa, il che vuol dire che dello spazio e del tempo che esiste oltre i confini a cui può giugnere la nostra immaginazione e il nostro intendimento, noi non abbiamo nessuna idea. È dunque falso che esista in noi la
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rappresentazione dello spazio e del tempo infinito e assoluto. Tutte le rappresentazioni nostre del tempo e dello spazio son limitate e finite. E queste come pretendere che non possiamo acquistarle? e molto più che sieno un prodotto originario della nostra intrinseca forza e natura? Già non poteva essere ignota a Kant la maniera con cui s’acquistano e per sensazione e per riflessione. Ma quand’anche sì fatta maniera gli fosse ignota, o gli spiacesse d’ammetterla, perché volere gratuitamente asserire che sieno intime alla nostra natura, che sieno forme subbiettive di noi medesimi, che insieme con tutte l’altre rappresentazioni sien totalmente da noi dipendenti?
Gratuita era puranche l’asserzion di Cartesio e de’ suoi seguaci, che tutte l’idee che non sapeano per qual maniera da noi s’acquistino, supponeano impresse originariamente da Dio. Ma per quanto fosse immaginaria e gratuita la loro asserzione, era però meno strana e inverisimile, siccome quella che almeno riconosceva sì fatte idee come opera di una Potenza infinita. Ma in un Essere limitato e finito siccome è l’Uomo, in qual modo supporre la forza di avere o crearsi da se medesimo cotali idee, e unicamente a se stesso e alla propria natura esserne debitore?
E qual fatto poteva poi far supporre a Kant una forza e prerogativa sì grande? anzi quanti fatti non dovean convincerlo, che questa forza e prerogativa nell’Uom non esiste? Niun cieco nato ha potuto aver mai l’idea de’ colori, niun sordo nato l’idea de’ suoni,
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l’analogia ci guida a credere, che se taluno nascesse senza odorato, o senza gusto, o senza tatto, niuna idea o nozione aver potrebbe delle cose che a questi sensi appartengono; e chi nascesse senza alcun senso, chi mai non provasse niuna sensazione, noi siamo autorizzati a conchiudere, che mai non avrebbe nessuna idea. Or come anteriormente ad ogni sensazione suppor negli uomini, e in tutti gli uomini, le rappresentazioni dello spazio e del tempo, non solamente come possibili, ma come reali e necessarie, e dipendenti dalla loro stessa intrinseca forza e natura?
Oltreché se questa forza esistesse in noi veramente, se fosse una condizion necessaria della nostra Facoltà di conoscere, in quella guisa che siamo conscii a noi medesimi di aver questa Facoltà, non dovremmo noi esser conscii similmente ch’ella è dotata di questa intrinseca forza? non dovremmo noi sapere in qual modo ella è fornita delle rappresentazioni dello spazio e del tempo avanti ad ogni sensazione, e molto più in qual modo di queste forme ella vesta le rappresentazioni de’ corpi, le rappresentazioni degl’interni pensieri? Un Essere in sé, quale da Kant è chiamato l’Essere conoscitore, il quale da sé producesse tutte le sue rappresentazioni, e non sapesse il modo con cui le produce, né fosse pur consapevole a sé medesimo di produrle, non sarebbe egli l’Essere più assurdo?
Or io chiederei volentieri a Kant, s’egli possa di buona fede asserire di esser conscio a
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sé stesso della maniera, con cui al presentarsi di una sensazione egli veste siffatta sensazione della forma dello spazio, la trasporta fuori di sé, crea fuor di sé stesso la rappresentazione di un oggetto.
Già non aveano tal coscienza gli Epicurei, i quali se fossero stati a sé consapevoli, che le rappresentazioni degli oggetti eran create da lor medesimi, non avrebbono formata mai la strana supposizione, che fossero prodotte invece da certi idoletti, da certe immagini che si staccano dagli oggetti ed entrano in noi. Non l’aveano certamente i Cartesiani, i quali non solo ignorando, ma disperando di poter mei spiegare come si formino in noi le rappresentazioni degli oggetti, sono ricorsi al partito di dire, che Iddio medesimo è quegli che in noi le crea all’occasione delle impressioni esteriori. Non l’ha in somma avuta mai niun de’ tanti Filosofi, che ha riguardata come inesplicabile la maniera, colla quale siffatte rappresentazioni ci sorgono, e che tale mai non l’avrebbono dichiarata, se consapevoli fossero stati del modo, con cui si fabbrican da noi medesimi.
Ma noi possiamo asserir francamente, che non ne è consapevole a sé nemmeno lo stesso Kant; poiché se avesse saputo in qual modo si forma questa creazione, ei l’avrebbe spiegato, e non sarebbesi contentato delle asserzioni vaghe e insignificanti, che le rappresentazioni dello spazio e del tempo sono condizioni necessarie della nostra Facoltà di conoscere, sono forme subbiettive della nostra Sensibilità,
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che di esse vestendo le proprie sensazioni ne crea le rappresentazioni degli oggetti.
E che veramente ei medesimo di tutto questo non sappia nulla, abbastanza rilevasi da ciò ch’ei dice intorno alla prima e originale rappresentazione dello spazio. Egli concede che se mai non avessimo sensazioni, mai non percepiremmo veruno spazio, che la rappresentazione di questo risvegliasi colla prima delle nostre sensazioni; ma che tuttavia non nasce da quelle, ed a quelle è anteriore.
Or come conciliare le due cose? come concepire che esiste in noi anteriormente e indipendentemente dalle sensazioni una rappresentazione, che però non possiam percepire se non all’occasione delle sensazioni medesime? Che è questa rappresentazione che non possiam percepire? È una forma subbiettiva, risponde Kant. Ma che dobbiam noi intendere, o che intende egli d’esprimere con questo nome di forma? E come poi questa forma, che erra in noi senza essere da noi percepita, si desta ella tutto ad un tratto alla prima sensazione? come avviene che appena desta s’avventa alla sensazione che l’ha risvegliata, la veste di sé medesima, con lei medesima si getta fuori di noi, e si trasformano amendue nella rappresentazione di un oggetto? Se questi non sono sogni d’infermi e fole di romanzi, quai saran mai?
Di più: egli dice che la rappresentazione dello spazio si desta contemporaneamente alla prima sensazione. Or se questa prima sensazione fosse un odore, o un sapore, o un
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suono, o un colore, che rappresentazione di spazio potrebbe mai qui destarti? Condillac ha troppo ben dimostrato, che la statua animata da lui supposta, finché fosse fornita dei soli sensi dell’odorato, del gusto, dell’udito, e della vista, mai aver non potrebbe niuna rappresentazione d’oggetti esteriori. Il solo tatto è quel che cagiona questo trasporto: ma anziché la prima sensazione di tatto faccia nascere tosto la rappresentazione dello spazio, egli mostra di quante sensazioni, e quanti confronti, e quanto studio sia mestieri prima di giugnere all’astratta idea dello spazio, e molto più all’astrattissima e negativa idea dello spazio puro, assoluto, infinito, che Kant suppone in noi positiva, ed a noi inerente prima di ogni sensazione.
E certamente quale rappresentazione o quale idea di spazio mostra egli d’avere un bambino ne’ primi giorni anche dopo essere stato nel sen materno circondato sempre dalle sensazioni di tatto, e avere con quelle dopo la nascita avute già molte sensazioni e di sapore, e di colore, e di suono, e di odore? Quale trasporto mostra egli fare delle sue sensazioni fuor di sé stesso? Quale rappresentazione o cognizione dimostra avere degli oggetti esteriori? Egli dà tutti i segni d’aver bensì delle sensazioni, ma che tutte riguarda come semplici modificazioni dell’esser suo, che non sa ancor riferire a niun oggetto esteriore, che di
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niun oggetto esteriore non gli danno ancora cognizione né idea.
Or se fosse una virtù intrinseca e necessaria della nostra Sensibilità il vestir della forma dello spazio le nostre sensazioni, e farcele trasportar fuor di noi, e formarci le rappresentazioni degli oggetti; non dovrebbe egli il bambino trasportare immediatamente le sue sensazioni fuor di sé stesso al par di noi, averne immediatamente quelle medesime rappresentazioni degli oggetti che noi abbiamo, dar quegli stessi indizi o indizi analoghi d’avere queste reappresentazioni?
Ma le sensazioni medesime, io chieggo a Kant, quelle sensazioni, che danno alla rappresentazione dello spazio l’occasion di svegliarsi, che cosa sono, onde vengono, come si eccitano nella nostra Sensibilità?
S’io fo questa domanda ad uno di que’ Filosofi, che con superbo disprezzo egli chiama Empirici, ei mi risponde, che dalle sue osservazioni e speranze gli consta, che gli oggetti esterni, della cui esistenza egli è certo (e vedremo in qual modo), agiscono sopra de’ nostri sensi, che questa loro azione è portata per mezzo de’ nervi al cervello; che indi passa all’anima è la sola cosa ch’egli confessa di ignorare, perché il modo con cui il corpo agisce sull’anima né è soggetto all’esperienza, né dalle forze dell’umano intelletto è comprensibile: tutto il resto gli è noto, e certo, e dimostrato.
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Per Kant l’esistenza degli oggetti esterni non è che illusione, illusione l’esistenza de’ sensi, l’azione degli oggetti sui sensi tutta similmente ideale e illusoria. Alla suddetta domanda ei non può dunque rispondere se non dicendo: La sensazione è un non so che, che vien non so donde, entra in me non so come; ma appena entrato in me, io lo vesto non so in qual modo di non so qual forma, che prima di esso in me esisteva non so in qual guisa, e ch’io chiamo spazio; poi così vestito lo trasporto non so con qual forza fuori di me, e ne fo nascere non so in qual foggia la rappresentazione di non so qual cosa, che chiamo oggetto esteriore.
Ecco tutta la dottrina di Kant rispetto alle sensazione, allo spazio, ed alle rappresentazioni degli oggetti esterni.
Né già più chiara e intelligibile, o meno ideale e gratuita è la sua dottrina rispetto al tempo, ed alle sensazioni interiori, che restano in noi senza essere trasportate fuor di noi stessi. Stranissima soprattutto è a questo proposito l’asserzione, che la forma subbiettiva del tempo è la base indispensabile di tutti gli oggetti che noi percepiamo col nostro senso interiore; che è assolutamente necessaria all’esistenza delle percezioni che abbiam di noi stessi; che niuna percezione interiore, niuna coscienza sarebbe in noi possibile, se non fosse da noi vestita di questa forma del tempo; che se facciamo astrazione dal tempo, non possiamo più percepir noi medesimi, non accade più nulla in noi, che possiamo sentire.
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Imperocché egli stesso nella Critica della Ragione pura dice apertamente (V. la traduzione latina Vol. I. pag. 91) che tutte le nostre percezioni sono accompagnate dalla coscienza io penso, che questa è la prima appercezione originaria, la quale perché possa accompagnare tutte le altre, deve ella medesima in origine esser senza compagna: e quindi ripete poi nella Critica della Ragione pratica, che la coscienza di noi medesimi in tanto è certa, in quanto è assoluta, non sottoposta in alcun modo alle leggi della Facoltà di conoscere, indipendente per conseguenza dalla forma del tempo, della quale se fosse vestita, sarebbe illusoria come le altre. Or come dice egli qui che una tal forma è assolutamente necessaria all’esistenza delle percezioni che abbiam di noi stessi? Non è egli ciò una contraddizion manifesta? E avendo egli conosciuto che la coscienza che abbiam di noi stessi è indipendente dalla forma del tempo; perché non riconoscere egualmente (come è di fatto) da essa indipendente la coscienza di tutte le nostre interiori modificazioni?
Ed in vero non farebbe egli cosa del tutto nuova e singolare, che un piacere o un dolore (i quali Kant non negherà certamente che non sieno modificazioni nostre interiori) per farsi da noi sentire dovessero prima presentarsi nudi alla nostra Sensibilità, e aspettare d’essere da noi vestiti della forma del tempo? Beati noi, se ciò fosse! ch’io non so certamente, se alcuno vorrebbe prendersi mai la
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briga di vestire un dolor suo di quella forma per aver la trista soddisfazion di sentirlo.
Ma tutte le nostre affezioni interne, dice Kant, debbono comparirci come esistenti o insieme o l’una dopo l’altra, vale a dire o nella stessa parte del tempo, o in parti di tempo consecutive.
Dunque è la forma del tempo quella che le fa a noi sentire? La conseguenza non è certamente legittima. Concedo ch’io son conscio del mio dolore in un dato momento, come sempre in un dato momento io son conscio della mia esistenza: ma non è la rappresentazione del tempo quella che mi dà la coscienza e la sensazion del dolore, è l’impressione esterna o interna ch’io ho ricevuto; e mentre io sento il dolore, a questo solo io penso, non già al momento in cui lo sento; l’anima mia tutta occupata dal dolor suo, spezialmente ove sia subitaneo e violento, niuna cura si prende di pensare né al tempo, né ad altra cosa.
Ma se la rappresentazione del tempo, egli segue, non è a priori e subbiettiva, per qual de’ miei organi esteriori ho io acquistata la cognizione del tempo? dov’è un oggetto da me percepito, che sia il tempo?
Qui certamente è maraviglia, che Kant abbia potuto fare una simile obbiezione. Quand’anche la cognizione del tempo non si potesse acquistare per mezzo degli organi esteriori, non basta egli qualunque successione avvertita delle interiori nostre sensazioni a darcene una nozione chiarissima? Ma esteriormente
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eziandio non v’ha rappresentazione di moto, cioè di successivo passeggio dall’una all’altra parte dello spazio, non v’ha successione di causa e d’effetto, non progressione d’accidenti di qualunque specie, che non ci fornisca la nozione del tempo; anzi da queste successioni e progressioni esteriori, come quelle che richieggon soltanto una comuna e ordinaria attenzione per essere percepite, è probablile che i fanciulli acquistino la prima nozione del tempo, piuttosto che dalle successioni interiori che domandano uno sforzo maggiore di attenzione e riflessione sopra di lor medesimi.
È falso adunque, che la nozione del tempo non possa da noi acquistarsi; falsa per conseguenza la supposta necessità che la rappresentazione del tempo debba essere una forma a priori; gratuita quindi l’esistenza di questa forma; inesplicabile poi e inconcepibile, come s’è detto a principio, che esista in noi la rappresentazione del tempo avanti che siasi da noi acquistata niun’idea di successione; contraddittorio che vi esista senza che se n’abbia da noi coscienza; assurdo che una tale rappresentazione in un Esser finito, come noi siamo, sia assoluta e infinita; ridicolo finalmente, che le percezioni nostre interiori dipendano dalla forma del tempo, e che niuna percezione o coscienza interiore si possa da noi avere, se non è prima vestita di questa forma.
Distrutti i Principi, sui quali Kant posa tutta la sua teoria dello spazio, del tempo, e della Sensibilità pura; io non fermerò
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lungamente a combattere le conseguenze ch’ei ne ricava, le quali cadono per sé stesse.
La certezza della geometria, per esempio, non è punto appoggiata, com’ei pretende, alla forma subbiettiva dello spazio puro, né la nozione medesima della linea e del punto da essa dipende. Se io considero in un corpo la lunghezza, la larghezza, e la profondità, io ho l’idea del solido; se la sola lunghezza e larghezza, ho quella della superficie; se la lunghezza soltanto, ho l’idea della linea; se la sola estremità della lunghezza o della linea, ho quella del punto, senza pensare per alcun modo allo spazio puro. Anzi del punto geometrico io non posso nemmen formarmi vera idea positiva. Io non lo posso riguardare che come un limite, alla cognizione di cui pur non giungo, che a forza di fare astrazione da ogni dimensione di profondità, di larghezza, e di lunghezza.
Per simil modo né la certezza della scienza de’ numeri, né l'idea stessa del numero è necessariamente fondata sul tempo. S’io farò vedere ad un fanciullo due frutti in una mano, ed uno nell’altra, lasciandone a lui la scelta, ei correrà alla mano che ne ha due, e mostrerà così di conoscere che due son più di uno, senza pensare attualmente, né aver forse giammai pensato al tempo.
Le distinzioni poi della materia e dello spirito, e le quistioni se la materia possa pensare, se l’anima sia materia, se Dio sia materia, sono tutt’altro che illusorie; e un Materialista credo che ben molto si riderebbe di noi, se
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per combatterlo non avessimo altro argomento, fuorché l’asserire con Kant che il materialismo posa sopra una base illusoria, facendo obbiettivo ciò che è puramente subbiettivo.
Falso è finalmente che lo spazio applicato agli oggetti sensibili non possa apparirci che pieno. Lo spazio interiore di una camera nuda e sgombra da ogni corpo visibile, lo spazio fra la terra e il cielo in un giorno sereno, ci appaiono perfettamente vuoti; e un atto di riflessione all’esistenza dell’aria e delle luce è necessario per conoscere che non son vuoti perfettamente.
Ma passiamo oggimai ad esaminare la teoria dell’Intelletto puro.