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Parte seconda

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Indice

Introduzione

Parte I Esposizione della Filosofia di Kant

Art. I. Teoria della Sensibilità pura. Modo con cui si formano in noi le percezioni degli oggetti sensibili. Dello Spazio e del Tempo

Art. II. Teoria dell’Intelletto puro. Generazione delle leggi universali che regolan gli oggetti sensibili. Categorie e forme del pensiero. Schematismo. Riflessione trascendentale. Natura

Art. III. Teoria della Ragione pura. Della legge dell’assoluto. Delle Idee trascendentali. Paralogismi, antinomie, e ideale della Ragione pura. Delle prove specolative dell’esistenza di Dio

Art. IV. Teoria della Ragione pratica. Sentimento fondamentale della coscienza. Libero arbitrio. Imperativo categorico. Unione necessaria delle due tendenze verso la felicità e verso il dovere. Immortalità dell’anima. Dio

Parte II Esame della Filosofia di Kant

Art. I. Esame della Teoria della Sensibilità pura

Art. II. Esame della Teoria dell’Intelletto puro

Art. III. Esame della Teoria della Ragione pura

Art. IV. Esame della Teoria della Ragione pratica

Art. V. Esame della Filosofia sperimentale opposta alla trascendentale di Kant


ARTICOLO IV.

Esame della Teoria della Ragione pratica.

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Kant qui comincia dall’asserire, che la coscienza ci assicura della nostra propria esistenza; e in questo non v’ha contrasto. Ma aggiugne poi, che se la vita dell’Uomo non avesse altro scopo finale che il sapere, s’ei stesse immobile sopra il mondo che osserva ec., la sua esistenza sarebbe un sogno, ed una illusione continua; e che la facoltà di volere e d’agire, gli atti della sua volontà sono la sola prova indubitata della realità della sua esistenza.

Qui certamente io non m’opporrò che gli atti della nostra volontà non sieno una maggior prova della nostra esistenza; ma non veggo perché il solo atto del pensiero non ne sia una prova sufficientissima; nè perché con quel solo la nostra esistenza sarebbe un sogno ed una illusione continua. Da ciò verrebbe, che l’Essere conoscitore non cominciasse ad esser certo della sua esistenza, se non quando incomincia a volere; e siccome il volere vien dopo il conoscere, ei starebbe con tutte le sue cognizioni, Dio sa quanto, innanzi di sapere, o almen d’esser certo d’esistere. Ma quando io son consapevole de’ miei pensieri, quando dico fra me medesimo: io penso, non è egli lo stesso che dire io sono pensante? E con ciò non comincio io dal dire io sono, io esisto? Perhè degg’io aspettar di volere per esser

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certo d’esistere, se ogni pensiero, ogni pur semplice sensazione, di cui sia conscio a me medesimo, già pienamente me ne assicura?

Segue dicendo, che l’Essere conoscitore sente che la sua facoltà di volere è indipendente e spontanea; che è per se stessa un principio attivo; che si determina da se stessa; che insomma egli è libero: e in questo pure io convengo con lui. Ma la risposta ch’ei fa al sofisma «che essendo tutto ciò che accade nella Natura prodotto da una causa, anche gli atti della volontà debbon essere necessariamente determinati da qualche causa» non so se possa appagare chi si vale di questo sofisma per combattere la libertà.

Kant risponde, che la Natura e tutto ciò che vi accade non sono che fenomeni; che causa ed effetto non sono leggi delle cose in se, ma pure categorie, puri concetti dell’Intelletto; che per conseguenza non hanno punto che fare cogli atti della volontà, i quali sono d’un ordine totalmente diversi, perché prodotti immediati di una cosa in se.

Ma chi fa quell’obbiezione, dirà a Kant, ch’ei non fa che farsi de’ suoi fenomeni e delle sue categorie; ch’ei riguarda la Natura, e le cose che vi accadono, e le cause che le producono, non come fenomeni, o come puri concetti dell’Intelletto, ma come cose reali; per conseguenza ch’egli domanda una risposta diretta e adequata, non un vano sutterfugio e una fantastica evasione.

Una risposta diretta e adequata però mi sembra ch’egli avrebbe potuto da facilmente

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(senza ricorrere a quel sutterfugio) da ciò che aveva premesso a principio. Imperocchè se in noi medesimi noi sentiamo che la Facoltà di voler è indipendente e spontanea, che è per se stessa un principio attivo, che si determina da se stessa, ne viene di conseguenza, che la causa degli atti della volontà è la stessa volontà. Un principio, attivo per se medesimo, è per se medesimo la cagione dei propri atti, senza che questi debban essere necessariamente da altra causa determinati. Io voglio, perché voglio, e posso volere; che altra cagione degg’io aspettarmi?

Ma nell’atto che l’Essere conoscitore, prosegue Kant, sente di esser libero, sente eziandio di aver nell’essenza medesima della sua coscienza delle regole per dirigere la sua volontà. – Due tendenze distinte ed opposte egli stente in se stesso, l’una delle quali lo trae al ben-essere, alla felicità, l’altra lo spinge al giusto, al buono, alla virtù; l’una gli grida: Sii felice; l’altra: Sii virtuoso.

In questo io vorrei che Kant s’apponesse; che quanto naturale e reale è in noi la tendenza al ben-essere, altrettanto lo fosse pur la tendenza alla virtù; che questa anzi avesse il primato ch’egli le attribuisce; che esistesse veramente in noi originariamente quella voce interiore che ci comanda il giusto ed il buono; e che fosse da tutti ascoltata.

Ma il fatto pur troppo dimostra ch’ella è ascoltata da pochi; e poichè sarebbe impossibile, che questa voce interiore, se fosse essenziale alla nostra natura, anteriore ad ogni

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cognizione, inseparabile dal nostro essere, necessaria, assoluta, com’egli pretende, non fosse intesa da tutti, e sempre, e immancabilmente; convien dire, che in quei che la sentono, ella nasca da tutt’altro principio, che dalla natura intima e dall’essenza del loro essere.

La cognizione adunque del giusto e del buono, che nasce dalla riflessione, non dalla natura, la cognizion del dovere, che vien dallo stesso principio, è quella che desta in noi la voce interiore della coscienza. I dettami naturali anteriore della coscienza. I dettami naturali anteriori ad ogni cognizione, i precetti assoluti, gl’imperativi categorici non sono che vane parole, che asserzioni gratuite, contraddette dal fatto.

Son anzi di più inconcepibili; giacchè io sfido ogni uom sensato a dirmi con verità, s’ei possa intendere, come indipendentemente da ogni cognizione del giusto e del buono, anzi prima d’averne acquistata veruna idea, veruna nazione, possa sentire in se stesso una legge, che gli comandi quel che non sa. Ignoti nulla cupido disser gli Antichi: e se ignota cosa non può essere oggetto di desiderio, molto meno il può essere di comando. Ed io vero come può la coscienza impormi di volere o d’eseguire una cosa, ignorando ella quello che mi comanda, ed io quello che voler debbo od eseguire? = Fa il giusto e il buono. – Questo giusto e questo buono che è? – Non lo sappiamo nè tu nè io; ma tu dei farlo; ed io tel comando sotto pena d’arrossire a’ tuoi proprj occhi. = Per verità farebbe questa una foggia di legislazione del tutto nuova.

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Pur questa, secondo Kant, è la legislazione suprema che ogn’uomo porta in sé stesso, e la sola ch’ei dee seguire, senza badare ad alcuna altra legge che possa altronde venirgli. «Poichè l’Uomo è libero nella sua volontà, dice egli, le leggi che ne regolan l’esercizio debbon esser fondate nell’Uomo stesso. La Ragione pratica in ogni Essere ragionevole è la propria legislatrice.» E quasi che non si fosse abbastanza espresso, continua a dire, che «la legislazione d’ogni Ragione individua deve esser tratta da lei medesima, non già da alcun oggetto esteriore. Non farà dunque, ei prosegue, l’allettamento delle sensazioni piacevoli, né quello del ben-essere, non la considerazione della salute e dell’interesse dell’individuo nell’ordine delle cose naturali, non quello della salute e dell’interesse dell’individuo nell’ordine delle cose naturali, non quello della salute e dell’interesse dell’individuo nell’ordine e delle cose naturali, non quello della salute e dell’interesse d’un certo numero d’individui, d’una famiglia, d’una nazione ec.; non sarà nemmeno l’interesse della propria perfezione, nemmeno l’ubbidienza ad una volontà soprannaturale; finalmente non sarà alcun oggetto fuori della Ragione, e nemmeno alcun risultato de’ suoi atti quello che formerà il principio fondamentale e formale della sua legislazione. Questo principio dovrà esser tale, che non dipende né dalle circostanze, né dalle inclinazioni, e non lasci luogo a presupporre altro principio da cui derivi».

Con questo, addio amor di famiglia, amor di patria, amor della propria perfezione; addio ubbidienza o riguardi ad alcuna legislazione umana o divina. La mia legislazione non

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dipende che da me stesso; e il seguirla o non seguirla non dipende che dalla mia libera volontà. – E con queste massime si stupisce Villers, che la dottrina di Kant abbia sofferte e soffra numerose contraddizioni? che sia stata proibita da più Governi, mal accolta quasi da tutti?

Ma per allontanar l’Uomo vie più da qualunque ubbidienza alle legislazioni umane o divine, e da qualsivoglia riguardo ad altri fuorchè a sé stesso, ei segue a dire «La Ragion pratica non prescriverà adunque nulla, che tenda verso un fine qualunque fuori di lei. Tutto ciò ch’ella prescriverà, lo prescriverà ad un tal modo, perché tale è l’essenza della Ragione, ed ella cesserebbe d’esser Ragione, se prescrivesse altramente. Questa verità può esprimersi nella seguente maniera: La Ragione debb’essere a sé medesima il proprio motivo, ed il proprio scopo.»

Ora a stabilire il più puro e pretto egoismo che si può egli mai dire o immaginare di più? Eppure l’Espositore di Kant non ha difficoltà d’esclamare, che quando egli è ben penetrato da questo principio, ogni Essere dotato di Ragione acquista a’ suoi occhi un’altra importanza, acquista il diritto irrefragabile d’essere scopo a sé medesimo; che ogni pretensione d’assoggettarlo a fini particolari (non importa se giusti o ingiusti), di abbassarlo alla condizione di mezzo sembragli l’iniquità più assurda. – Ecchè? Sarà dunque l’iniquità più assurda ad un ammalato il guarire per mezzo del medico, a chi è citato in giudizio il

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sostener le proprie ragioni per mezzo dell’avvocato, ad un possessore il coltivare i propri fondi coll’aiuto de’ contandini, a chiunque ha bisogno di casa, o di masserizie, o di scarpe, o di vesti il servirsi de’ muratori, o de’ fabbri, o de’ calzolai, o de’ sarti per procurarsele?

Ma egli continua a dire, che l’applicazione d’un tal principio ha luogo per qualunque persona dotata di Ragione, e così le assicura l’indipendenza, la consistenza personale, la spontaneità, senza di cui farebbe degradata dallo stato di essere ragionevole. Questa legge poi di eguaglianza e d’indipendenza razionale, secondo esso e Kant, è contenuta nella seguente formola: Riguarda costantemente e senza eccezione l’Essere ragionevole, come fine a sé medesimo, non come mezzo per altri.

Modifica però alcun poco in appresso questa formola costante e senza eccezione; perocché dice, che se l’Essere ragionevole fosse destinato a vivere e ad agir solo, gli basterebbe di non prescrive alla sua ragione altro fine che sé medesimo; ma destinato a vivere, ad agire, ad esercitare una certa influenza fra i suoi simili, dee pur avere attivamente ad essi riguardo.

Ma l’Essere ragionevole immaginato da Kant come sa egli d’essere destinato a vivere, ad agire, ad esercitare una certa influenza fra i suoi simili? E chi son questi suoi simili? Per lui tutto quello che è fuor di lui stesso non è che illusione; tutti gli oggetti del mondo e sensibile e intelligibile non son che fantasimi creati da lui

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medesimo; fuor della propria esistenza ei non sa l’esistenza di verun’altra cosa: per chi deve egli dunque aver riguardo attivamente?

E quale è poi questo riguardo attivo ch’ei debbe avere a’ suoi simili? «Dee lor concedere i medesimi diritti, la medesima indipendenza ch’egli ha, per giugnere a’ loro fini individui; ed il precetto della Ragione in questo caso si esprimerà a questo modo: Opera in guisa, che il motivo prossimo della tua volontà possa divenire una regola universale nella legislazione di tutti gli Esseri ragionevoli.»

Il riguardo attivo adunque, ch’ei debbe avere a’ suoi simili, si riduce tutto ad operare in guisa, che il motivo prossimo della sua volontà, che nessun conosce, possa divenire una regola universale per tutti gli Esseri ragionevoli, che non sa pure, se esistano.

Pur questi soli, secondo Kant, sono i due precetti, le due formole che debbon in pratica regolare tutta la nostra condotta; e Villers estatico della loro sublimità e fecondità esclama non enfasi: «Questi due precetti assoluti, che costituiscon l’essenza di ogni Ragione pratica sono i Principi de’ Principi, i Principi primi e fondamentali d’una legislazione morale fondata sopra la Ragione»; e segue dicendo, che Kant ha nominato questi precetti per l’autorità irrevocabile e senza restrizione con cui si stabiliscono da sé stessi l’Imperativi categorico della coscienza (titolo, non può negarsi, imponente, e soprattutto ben lungo); che nella sommissione a questo Imperativo consiste la Moralità dell’Uomo, e nel sentimento ch’egli vi

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si sommette liberamente consiste la sua Dignità; che da queste due leggi supreme derivano tutte le leggi particolari d’una Morale razionale; che da queste medesime leggi supreme i precetti secondari e subordinati, su cui si fondano alcuni edifizi particolari di Morali, ricevono una validità, ed una purità tutta nuova.

E qui discendendo agli esempi, incomincia dal precetto dell’amor di sé «il qual, dice, preso in sé stesso comanda indefinitamente la ricerca di tutto ciò che ne può esser piacevole; ma si trova da quelle due leggi modificato in questa guisa: Fa tutto ciò che ti ordina l’amor di te stesso, purché tu non facci servire di mezzo a’ tuoi fini niun Essere ragionevole, e purché il tuo desiderio possa divenire una legge universale che valga per tutti gli Esseri dotati di ragione».

Ma che foggia di modificazione è questa mai? perché se l’amor di me stesso mi ordina di procurarmi un onesto vantaggio, o un lecito alleviamento alla fatica, al dolore, alla noia, non poss’io valermi del soccorso d’un mio simile come di mezzo per ottenerlo più facilmente? o perché avanti di dar luogo ad alcun desiderio debbo io fantasticare, se il mio desiderio possa divenire una legge universale per tutti gli Esseri dotati di ragione?

«Il principio Stoico, segue egli, del perfezionare sé stesso, modificato dalla legislazione suprema dell’Imperativo categorico si presenta così: Ricerca la tua perfezione individua, ma senza abbassare per questo fine alcun altro Uomo,

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senza far servire alcun Essere ragionevole di mezzo all’adempimento delle tue mire». 

Per verità qui non veggo, come cercando la mia perfezione possa io abbassar verun altro, se non andandogli innanzi nella perfezione medesima; e questo non so come dalla Ragione mi debba esser vietato. Rispetto poi all’altra parte, se a meglio perfezionare me stesso nella sapienza e virtù, in cui tutta riponevan gli Stoici la loro perfezione, io ho bisogno delle istruzioni o de’ consigli, o degli aiuti altrui, perché non degg’io servirmi di questi mezzi?

«Il precetto de’ Cristiani, continua egli, altronde sì bello e sì convenevole all’Uomo: Non fare al tuo prossimo se non ciò che vorresti che a te fosse fatto, si collega in questa guisa col precetto supremo della Ragione: Non desiderare per te e pel tuo prossimo che gli oggetti, i quali possono convenire nella legislazione universale di tutti gli Esseri ragionevoli».

Lascio che il precetto ch’egli fa privativo de’ Cristiani, da essi è chiamato precetto naturale e comune a tutti gli uomini; e che laddove questo dice non fare, il precetto supremo della Ragione a cui egli il collega si scambia col non desiderare. Ma chi mai in pratica si determinerebbe a fare o desiderare alcuna cosa pel suo prossimo, qualor dovesse esaminar prima, se ciò ch’egli deve o fare o desiderare possa convenire nella legislazione universale di tutti gli Esseri ragionevoli?

E questo chiamasi rettificare, sanzionare, subordinare praticamente le massime morali ai precetti della Ragione?

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Tornando alle due tendenze ch’ei chiama contraddittorie, l’una delle quali inclina l’Uomo al ben-essere ed alla felicità, l’altra lo spinge al dovere ed alla virtù: «Questi due Principi estremi, dimanieraché fare il proprio dovere, ed esser felice sono troppo sovente due cose assai diverse».

Ma io non veggo in primo luogo perché quelle due tendenze abbiansi a dire contraddittorie. Qual contraddizione v’ha egli mai, che un Uomo tenda all’esatto adempimento de’ suoi doveri e alla virtù, e nel medesimo tempo cerchi di serbarsi tranquillo e contento, nel che è riposta la vera felicità, e procacci onestamente ciò che alla sua tranquillità e contezza può maggiormente contribuire?

Riguardo al fatto io concederò che assai volte (non quasi sempre) il fare il proprio dovere e l’esser felice non si combinano, se per esser felice intendasi l’abbondare de’ beni esteriori della fortuna. Ma se per felicità intendasi, come intender si deve principalmente, il godimento della tranquillità e della contentezza dell’animo, chi è che possa vivere più tranquillo e contento, e per conseguenza felice, di chi fa il proprio dovere? Qual bisogno per conseguenza che fra il dovere e la felicità interpongasi, com’ei pretende, né la coscienza, né altri per conciliarli, quasi fossero tra lor nemici?

Questa voce della coscienza ne dice, secondo Kant, che «l’Uomo non è degno della

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felicità, se non in quanto fa il suo dovere, e che l’Uom vizioso è degno in vece di pena».

La massima è giusta, e questa massima non può non essere adottata da ogni Uom ragionevole. Ma per comprendere questa massima, e per sentirne il valore, conviene prima aver nozione di felicità, di dovere, di vizio, di pena, e della convenienza che passa tra la felicità e il dovere, tra il vizio e la pena. Non può dunque la coscienza ripeterci questa massima se non dopo averla appresa dalla Ragione, e la Ragione non può saperla e dettarla essa medesima, se non dopo avere per mezzo della riflessione acquistate le nozioni suddette. Non è dunque una massima che esista originalmente nella coscienza nella coscienza, come suppone Kant, e anteriormente ad ogni cognizione, ma una massima acquistata per via della riflessione: e il dire che questa è legge inalterabile impressa nella realità del nostro essere; che è la nostra stessa Ragone pratica, o significa che noi siam convinti e persuasi di questa massima, perché la riflessione e la ragione ce ne dimostrano la verità e la giustezza, o è un dir nulla con molte parole.

«Con tutto ciò, segue egli, questa viva legge della mia coscienza è quasi sempre smentita nel mondo sensibile e fenomenale che è nello spazio e nel tempo, in questo mondo ov’io abito fra due istanti, cui chiamo la nascita e la morte. Io son dunque costretto ad

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adottare, che l’Essere ragionevole uscendo dal mondo fenomenale troverà in quello delle cose in sé la virtù e la felicità riunite, vale a dire che l’Essere ragionevole è immortale, e dopo questa vita fenomenale saravvene un’altra, dove egli troverà il premio della sua virtù nella felicità».

Questo è uno degli argomenti, di cui noi pure ci serviamo per comprovar l’immortalità dell’anima. Ma noi appoggiamo principalmente quest’argomento alla giustizia e bontà di Dio (di cui per altri argomenti dimostriam l’esistenza), dicendo esser troppo conveniente a questa Giustizia e Bontà infinita, che non essendo in questo mondi abbastanza premiata la virtù e punito il vizio, e avvenendo anzi talvolta il contrario, aver debbano e l’una e l’altro il dovuto premio o castigo in un altro mondo.

Ma Kant, oltreché in alcun modo non può valersi di questo appoggio, poiché anzi a quest’unico argomento egli appoggia la dimostrazione medesima dell’esistenza di Dio, che dichiara impossibile a dimostrarsi per altro mezzo, non so quanto fondamento nemmen altronde far possa co’ suoi Principi sopra di questo argomento per dimostrar l’immortalità dell’Essere ragionevole.

Ei premette che nel mondo sensibile e fenomenale la legge della coscienza che assegna la felicità alla virtù, e la pena al vizio è quasi sempre smentita dal fatto. Ora l’Essere ragionevole da lui supposto come fa egli che questa legge della sua coscienza in questo

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mondo sensibile sia dal fatto smentita? Per lui questo mondo fenomenale non è altro che illusione, niun oggetto reale per lui esiste fuor di lui stesso; virtù e vizio, felicità e infelicità non sono per lui che puri concetti del suo Intendimento, a cui nella di reale fuori di lui corrisponde. Or qual è questo fatto, che agli occhi suoi smentisce la legge della sua coscienza? Ei può concepire infelice ogni virtù, e felice ogni vizio; ma questo farà una sua immaginazione, non una realità. E qual fondamento può egli appoggiarvi? Come conchiuder da questo, che uscendo dal mondo fenomenale ei debba trovare in quello delle cose in sé la virtù e la felicità riunite?

Ma questo mondo medesimo delle cose di sé, come sa egli che esista? Egli è conscio della propria esistenza e non più: Kant ha detto più addietro nella Teoria dell’Intelletto puro, che lo stato delle cose in sé ci è totalmente ignoto; che noi pensiamo soltanto che vi sia qualche cosa, e che le nostre rappresentazioni fenomenali posino sopra un fondo reale; ma che questo pure non è che un concetto del nostro Intendimento, non è che una applicazione della nostra categoria di causalità che ci porta a supporre una causa dappertutto ove ci si rappresenta un effetto. Or come può egli esser costretto a conchiudere, che da questo mondo fenomenale, in cui sa d’esistere, debba passare un giorno nel mondo delle cose in sé, della cui esistenza non ha altro argomento che la sua categoria di causalità, la sua supposizione?

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Egli ha un bel dire, che se ciò non fosse, i risultati immediati della più profonda realità del suo essere sarebber menzogne, che il suo essere medesimo sarebbe una menzogna, che la sua esistenza sarebbe una contraddizione continua, assurda, inesplicabile, che sarebbe falso ch’egli esistesse. Tutta questa è mera declamazione, la quale non prova nulla.

Ma quello che segue appresso è qualche cosa di peggio che pura declamazione. «Se ciò non fosse, egli dice, perché l’Uomo dovrebbe egli sopportare una vita, dove nulla corrisponde al bisogno della sua coscienza? una vita, dove la felicità e la virtù ch’ei vede unite nella sua idea son così spesso disunite nel fatto? Il suicidio diverrebbe per la metà del genere umano un ricorso indispensabile».

Buon per noi che nè tutto l’uman genere, né la metà ha certamente adottata la Filosofia di Kant; perocché temerei, che la più parte o tosto o tardi avvedendosi della debolezza di quel suo argomento per dimostrare che uscendo dal mondo fenomenale troveremo in quello delle cose in sé la virtù e la felicità riunite, crederebbe indispensabile il disperato ricorso al suicidio.

Sebbene come può egli ad un seguace di Kant cadere in mente il suicidio come ricorso indispensabile per sottrarsi ad una vita, ove la felicità e la virtù unite nella sua idea son disunite nel fatto? Per lui abbiam dimostrato, che non posson esser disunite se non nell’idea, eccetto che egli medesimo si senta ben virtuoso, ed al tempo stesso ben infelice, il che sarebbe una vera disgrazia. Ma in questo

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medesimo caso la sua virtù non saprebbe ella suggerirgli altro rimedio? E perché ricorrere al suicidio? Che potrebbe egli mai col suicidio proporsi di ottenere? D’annichilare sé stesso? Nol credo. Di passare da questa ad altra vita migliore? Ma per ipotesi e non ricorrerebbe al suicidio, se non qualor fosse persuaso di non poter da questa passare a miglior vita. Che dunque potrebbe egli proporsi? E poi che realità può avere per lui né la morte naturale, né la spontanea? La nascita e la morte non son esse per lui pure e semplici apparenze, puri concetti del suo Intendimento? Che razza di ricorso sarebbe questo dunque per essolui, o che pro aspettar si potrebbe dal ricorrere ad una apparenza, ad un concetto? Ma di questo non più, giacché egli esclude il caso d’un tal ricorso, escludendo quello di poter dubitare, che dopo questa vita fenomenale abbia ad esservene un’altra, in cui trovi il premio della sua virtù nella felicità.

«E come, dice egli, dubitar che ciò sia? Uno stato, dove la presente contraddizione fra la virtù e la felicità si troverà conciliata; una vita reale, ove per conseguenza l’Essere ragionevole non sarà più sottomesso alle forme subbiettive d’estensione, di durata, di causalità, d’esistenza ec.; la certezza d’un tale stato e d’una tal vita; la ricompensa dovuta al gusto, la punizione dovuta al malvaggio, sono il risultato immediato del sentimento della mia vita, e dei sentimenti morali, che in questo sono essenzialmente compresi, son cose che mi son date immediatamente quando il

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discendo nel più intimo del mio Essere, ove mi trovo tutto insieme obbietto e subbietto, e dove non interpongo fra me e me tutto il giuoco e il meccanismo della mia cognizione. In questo santuario del mio Essere io trovo la necessità di un Giudice. Io vi trovo una voce più possente delle mie inclinazioni, che ordina il giusto e il buono. Questo tipo del giusto e del buono mi è dato: vi ha dunque una Giustizia e una Bontà assoluta in sé. La Ragion pratica, che è la realità della realità, è invariabile: v’ha dunque una Ragione suprema, universale, infinita, che si manifesta a tutti, che annunzia a tutti le medesime leggi. Questa Ragione suprema, questa Giustizia, e questa Bontà assoluta, questo Giudice rimuneratore della virtù, è DIO. Dio m’è dato nel segreto della mia vita; e si manifesta in me per l’Imperativa della mia coscienza; ei si rivela per mezzo della virtù».

Ecco tutta la Kantiana dimostrazione dell’esistenza di Dio, ch’io ho voluto ripetere distesamente, perché in essa ognuno ammiri un caso rarissimo in Logica ad avvenire, di dover, concedendo le conseguenze, negar tutti quanti gli antecedenti.

Io concedo adunque la necessità di premio e di pena in un’altra vita, e quindi la necessità di un Giudice: ma ho già dimostrato che la cognizione di questa necessità viene dalla riflessione e dal raziocinio, non da un dettame originario della coscienza.

Concedo che vi ha una Giustizia e una

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Bontà assoluta e in se: ma perché so altronde, che vi ha un Dio, e che questo Dio necessariamente debb’essere una voce più possente delle mie inclinazioni che m’ordini il giusto e il buono, o perché questo tipo del giusto e del buono originariamente mi sia dato.

Concedo che vi ha una Ragione suprema universale, infinita: ma perché quel Dio, di cui altronde so l’esistenza, conosco che necessariamente debb’essere sapientissimo; non perché la Ragion pratica sia la realità delle realità, perché sia invariabile, perché sia la stessa presso tutti gli Esseri ragionevoli, costandomi anzi dalla esperienza tutto il contrario.

Concedo finalmente che vi è Dio: ma perché ho prove indubitabili della sua esistenza; non perché egli mi sia dato nel segreto della mia propria vita, che non significa nulla, né perché in me si manifesti per l’Imperativo che non esiste.

Ma se Kant sentiva la necessità, che sente ogn’Uom ragionevole, di riconoscere l’esistenza di Dio, a che perdersi in tanti arzigogoli per dimostrarla, quando secondo i suoi stessi Principi ne aveva una dimostrazione prontissima, e quanto semplice e chiara, altrettanto certa e invincibile?

Non ammette egli, ciò che nessuno può porre in dubbio, che l’Essere ragionevole è certissimo della propria esistenza? Or s’egli esiste, non deve egli o esistere ad eterno da

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se medesimo, o aver ricevuto l’esistenza da altri? Ma se esistesse ab eterno per sé medesimo, non dovrebbe egli siccome è conscio che esiste per sé medesimo, e che esiste da tutta l’eternità? E poiché egli di ciò non è conscio, anzi è conscio del contrario, non vien egli di necessaria conseguenza, che dunque ha avuto l’esistenza di tutti gli altri? L’Essere ragionevole, che è certissimo dell’effetto, cioè della propria esistenza, non procedente da lui, ma da altri, come non deve egli esser certo parimente della esistenza di una Causa prima, Causa necessaria, Causa esistente in sé e per sé, senza la quale sarebbe impossibile ch’egli medesimo esistesse?

Oh qui entra categoria di causalità, che è un puro concetto dell’Intelletto. Sia quanto gli piace la causalità un concetto puro dell’Intelletto, quando si tratta di cause e di effetti estrinseci all’Essere conoscitore, i quali egli riguarda tutti quanti come pure apparenze, come fenomeni senza realità, come illusioni. Ma qui si tratta di un effetto realissimo, qual è la sua propria esistenza, cui anzi riguarda come la realità della realità: e come dunque può dubitare, che un effetto così reale abbia una causa reale, se non esistendo questa

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non potrebbe nemmeno esistere la realità dell’effetto?

Io poi mi maraviglio tanto come Kant non abbia adottato questa dimostrazione sì chiara e sì certa, quanto egli era già stato posto in sulla strada, che ad essa guida, dalla pruova Leibniziana ch’egli medesimo riferisce nella Critica della Ragione pura, ma da cui poscia ha voluto declinare a bello studio.

Ecco in qual guisa l’Espositore della dottrina di Kant riporta sì fatta prova, e in qual guisa poi vi risponde.

«Qualche cosa esiste; se non altro esisto io e le mie sensazioni. Ma queste sensazioni mi danno la cognizione d’un mondo, in cui tutto ciò che esiste è accidentale, variabile, dove tutto è prodotto da una causa. Niuna esistenza che a me si manifesta è necessaria, nemmeno la mia, né quella delle mie sensazioni; perciocché io potrei non esistere; v’è stato un tempo, nel quale io non esisteva, ve ne sarà un altro nel quale non esisterò più; altrettanto dico di tutte le cose accidentali che compongono il mondo, il quale non essendo che la somma di tutte queste cose accidentali, è accidentale egli stesso, e non necessario. Ma poiché qualche cosa esiste, convien bene che qualche cosa esista necessariamente. Altronde poiché tutto ciò che esiste nel mondo dee avere una causa, convien bene che anche il mondo intero ne abbia una, e che salendo di causa in causa, s’arrivi finalmente ad una causa che sia prima ed assoluta».

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«Questa prova, ei soggiugne, della necessità che esista una sostanza assoluta ed una causa prima fondata sulle considerazioni del mondo, ove tutto è accidentale e prodotto da una causa si chiama la prova cosmologica dell’esistenza di Dio. Ella è stata adottata dalla Suola Leibniziana».

«Ma essa cade, segue egli, tostoché uno si colloca nel punto di vita trascendentale, dove si riconosce, che il mondo non è che un fenomeno e non già una realità in sé; che accidente, sostanza, causalità non sono che forme subbiettive del nostro Intelletto, leggi della nostra maniera di concepire e di giudicare gli oggetti sensibili; che la sostanza assoluta e la causa prima non sono che prodotti della nostra Ragione specolativa; e che in fine tutto questo giuoco di concetti e di idee subbiettive non può assolutamente nulla insegnarci di ciò che le cose sono in sé stesse, né a queste cose in verun modo applicarsi».

Ecco in qual guisa per declinar l’argomento ei s’applica tutto a quella parte che tratta del mondo sensibile, cui riguarda come puro fenomeno, e nulla tocca dell’esistenza di sé medesimo, cui non poteva non riguardare come reale. Or ciò non è egli un voler chiudere gli occhi espressamente per non vedere la luce?

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