Prima contraddizione delle idee trascendentali
Scolio all'antinomia prima
Seconda contraddizione delle idee trascendentali
Scolio all'antinomia seconda
Terza contraddizione delle idee trascendentali
Scolio dell'antinomia terza
Quarta contraddizione delle idee trascendentali
Scolio all'antinomia quarta
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La proposizione, io penso, ossia esisto, pensando, è fra le proposizioni empiriche. Tal proposizione però ha per fondamento una empirica visione, conseguentemente anche l’oggetto pensato in qualità di apparizione (fenomeno): e così pare, giusta la nostra teorica, come se l’anima, sì eziandio nel pensare, venisse affatto e per ogni verso trasmutata in apparizione e che, per tal guisa, dovesse, qual mera illusione, riferirsi, nel fatto, a niente la nostra coscienza medesima.
Considerato per sé, il pensare
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non consiste in altro che nella funzione logica, per conseguenza, esso è tutto spontaneità dell’accoppiamento del moltiplice di una puramente possibile visione e non offre per verun conto il soggetto della coscienza, in qualità di apparizione, per la sola ragione, che non prende il pensiero alcun risguardo al genere della visione; s’ella fosse, cioè, sensitiva, ovvero intellettuale. Mediante il pensiero non io mi rappresento, né quale mi sono, a me stesso, né quale mi apparisco; poiché solo mi penso in quel modo, in che penso generalmente qualunque oggetto, facendo, astrazione dalla maniera di sua visione. Quando in questo caso rappresento me stesso, qual soggetto de’ miei pensieri, o pure qual causa o fondamento del pensare, cotesti modi rappresentativi non significano già le categorie né della
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sostanza né della causa, consistendo queste nelle funzioni del pensare (del giudicare), già state applicate alla nostra visione sensitiva; le quali funzioni diverrebbero certamente necessarie, ogni qualvolta mi prendesse vaghezza di conoscere me stesso. Ora però non d’altro mi cale, fuorché di essermi consapevole, come pensante, lasciando a parte il come possa essere dato nella visione quel me stesso; nel qual caso potrebbe questo essere mera visione al me, che pensa, ma non in quanto esso pensa. Nella coscienza di me stesso, mentre non fo che pensare, io sono l’ente medesimo, del qual ente per altro non mi è dato sicuramente ancor nulla, con tutto questo, da pensare.
Ma la proposizione, io penso, considerata in quanto essa esprime: io esisto, pensando, non è più mera funzione logica; poiché anzi è per
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lei determinato, risguardo all’esistenza, il soggetto (che è pure oggetto nello stesso tempo); e la non può aver luogo senza l’intimo senso, la cui intuizione è quella che somministra l’oggetto, non però come cosa per sé stessa, ma puramente in qualità di apparizione. Già non è dunque più sola nella detta espressione la mera spontaneità del pensare; ma vi è pure inerente la suscettività della visione: con che voglio dire, che il pensiero di me stesso vi è applicato alla intuizione empirica del medesimo soggetto. Perciocché, in quest’ultima visione, ben era mestieri che il pensante medesimo si facesse alle tracce dell’impiego di sue funzioni logiche, nelle categorie della sostanza, della causa ecc. Ed era di ciò mestieri, perché potesse precisare sé medesimo, come oggetto in sé stesso, non già mediante il solo io,
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bensì determinando eziandio la maniera della propria esistenza; perché potesse, in fine, conoscersi qual nomeno. Locché non è guari possibile, attesoché l’interna visione empirica è sensitiva, ed altri dati non somministra, se non quelli d’apparizione; la quale poi non è in grado, neppur essa, di nulla fornire all’oggetto della cocienza pura, intorno alla cognizione di sua se parata esistenza, ma lo è solo di giovare alla sperienza, col prestarle suoi uffizi.
Ma supponghiamo, che si trovasse occasione, coll’andar del tempo, nella sperienza non già, ma in certe leggi stabili, a priori (non regole soltanto logiche), dell’uso puro della ragione, le quali risguardassero alla nostra esistenza; onde quinci supporre noi medesimi, come legislatori od apportatori di leggi assolutamente anticipate,
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rispetto alla detta esistenza, e come anche determinanti per noi questa esistenza medesima. Per tal maniera terrebbe a quindi scovrirsi una spontaneità, la cui mercé sarebbe suscettiva di determinazioni la nostra effettività, senza che per ciò fosse mestieri delle condizioni della visione empirica. E qui verremmo a comprendere, qualmente nella coscienza del nostro esistere a priori contengasi una qualche cosa, che servisse a determinare la nostra esistenza; come quella, che, sebbene definibile soltanto sensitivamente, lo è però eziandio rispetto ad una certa quale interna facoltà, in relazione con un mondo intelligibile (certo nel solo pensiero).
A malgrado di tutto questo, però, non avanzerebbero punto né poco i tentativi quanti sono della razionale psicologia. Mediante, in fatti, a mentovata facoltà, maravigliosa
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nel vero, in quanto è dessa finalmente, che la coscienza mi disvela e mi convince della legge morale, avrei un principio, è vero, e lo avrei puro, intellettuale, per cui determinare la mia esistenza. Ma con quali mai attributi? con altri no, tranne con quelli, che debbono essermi dati nella visione sensitiva: e così mi troverei nuovamente ridotto al punto, in cui mi trovava nella psicologia razionale, voglio dire, all’assoluto bisogno di visioni sensitive, onde in grado pormi di una qualche significazione procacciare ai miei concetti intellettuali; alla sostanza, cioè, alla causa e così via discorrendo; come a concetti, la sola mercé dei quali mi è possibile di conoscere me stesso. Ben è vero altresì, che non possono le dette visioni essermi giammai di qualche giovamento, per trasportarmi oltre il territorio della sperienza.
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Tuttavia, per ciò che risguarda l’uso pratico dei mentovati poc’anzi concetti, il qual uso è pur sempre diretto agli oggetti della sperienza, in giusta corrispondenza col significato analogico nell’uso teoretico, sarei sempre autorizzato applicarli sì alla libertà, sì al soggetto della medesima. Perciocché non alludo, col medesimi, che alle funzioni logiche sì di oggetto ed attributo, sì di fondamento (causa) e conseguenza, corrispondentemente alle quali vengono determinate, le azioni o gli effetti, in tanta conformità colle dette leggi, che, unitamente a quelle di natura, le si possono sempre dichiarare consentanee alle categorie di sostanza e di causa, quantunque nascano quelle da tutt’altro principio. E questo è quanto importava avvertire, affine di evitare le sinistre interpretazioni, alle quali va di leggieri esposta
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la dottrina della nostra visione di noi stessi; come apparizione. Avremo d’ora innanzi occasione per cui giovarne degli accennati avvertimenti.