II
DOTTRINA TRASCENDENTALE DEL METODO
CAPO SECONDO – CANONE DELLA RAGIONE PURA
Del non essere possibile tranquillare la ragione pura in contraddizione con sé stessa
Del capo primo
Sezione III – Della disciplina della ragione pura, rispetto alle ipotesi
Sezione IV – Della disciplina della ragione pura risguardo ai di lei ragionamenti
Capo II – Canone della ragione pura
Sezione I – Dell’ultimo scopo dell’uso puro dell’umana ragione
Sezione II – Dell’ideale del sommo bene, come causa determinante lo scopo ultimo della ragione pura
Capo III – Architettonica della ragione pura
Capo IV – Storia della ragione pura
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Ne’ suoi esercizi contemplativi, la ragione ci scorse lungo i domini della sperienza e, non trovando ivi che mai soddisfacesse appieno la di lei aspettazione, mosse quindi alle idee speculative; le quali però di bel nuovo ne ricondussero finalmente alla sperienza e così al di
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lei fine adempirono, in maniera utile bensì, però ben lungi dal corrispondere alle nostre speranze. Il perché non ci rimane che un ultimo tentativo, quello, cioè, di vedere se dovessimo anche nell’uso pratico incontrarci colla ragione pura; se in questo eziandio essa guidi alle idee, per le quali conseguire gli or ora mentovati fini sublimi della medesima; e se, dal punto di vista del suo morale interesse, non fossero queste idee per quandomai procacciarne quanto essa ragione pura ne ricusa pienamente nella parte con templativa.
Ogni e qualunque interesse di mia ragione (tanto lo speculativo, quanto il pratico) si combina e riunisce nelle tre dimande, che seguono:
1. Cosa posso io sapere?
2. Cosa debbo fare?
3. Cosa mi è lecito sperare?
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La prima dimanda è speculativa: ed abbiamo (come ho motivo di supporlo) esaurita qualunque risposta le si potesse mai fare; come abbiamo trovata finalmente quella, della quale già non può a meno la ragione che dichiararsi appagata ed onde ha poi anche motivo di essere, nel fatto, contenta, ove ad altro non abbadi se non alla pratica. Ma siamo rimasti così lontani dai due grandi scopi, ai quali erano tutti, nel vero, diretti cotesti sforzi della ragione pura, come se, avendo in: il nostro comodo, ci fossimo neghittosamente schermiti sin da principio da tale fatica. Quando è, pertanto, quistione del sapere, gli è per lo meno sicuro e deciso che, rispetto a quei due problemi, esso non sarà mai proprietà e retaggio dell’uomo.
La seconda dimanda è semplicemente pratica; e può, come tale,
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appartenere benissimo alla ragione pura. In tal caso però essa non è guari trascendentale, ma solamente morale; ond’è che, per sé stessa, la non può fornire occupazione alla nostra critica.
La terza quistione, vale a dire: cosa mi è lecito sperare, sempreché faccio quello che debbo? è pratica e teoretica nello stesso tempo; in maniera però che la parte pratica serve, come filo di guida, onde rispondere alla teoretica, e, dove questa miri troppo alto, conduce alla risposta per la quistione speculativa. Imperocché ogni speranza tende alla felicità ed è, rispetto alla pratica ed alla legge morale, precisamente lo stesso che la scienza, e la legge fisica, risguardo alla cognizione teoretica delle cose. Quella ne scorge finalmente alla conclusione dell’esservi qualche cosa (che determina l’ultimo fine possibile), poiché dee
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qualche cosa accadere; questa conchiude, qualche cosa esservi (che agisce come cagione suprema), poiché accade qualche cosa(1).
(1) La prima di queste quistioni è tutta teoretica, tutta pratica la seconda, e l’uno e l’altro la terza, come quella che suppone, determinarsi dal dovere il fare o l’ommettere, richiedendo quindi corrispondente a tale supposizione la risposta. Questa poi non è possibile, secondo Kant, a meno di ammettere inseparabilmente collegate in un bene supremo, come scopo d’ogni dovere, la dignità di sé stesso e la felicità. Non potendo però ammettersi né dipendenti dalla natura gli enti ragionevoli, né sempre farsi da ciascheduno ciò ch’ei dovrebbe, non può la ragione riconoscere neppure la possibilità di realizzare la detta riunione. Ma non dovendo essa nemmeno rinunziare alla possibilità di realizzare l’idea del sommo bene, altro non le rimane partito, eccetto quello di credere ad una suprema intelligenza e come causa della natura e come governatrice in forza di leggi morali. Così,
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La felicità consiste nel bene augurato adempimento di tutte le nostre inclinazioni, tanto in estensione (extensive) o rispetto alla moltiplicità delle medesime, quanto nell’intensità (intensive) risguardo,
dal non incontrarsi l’accoppiamento necessario della dignità e della felicità nel mondo visibile, Kant vuole inferire la necessità di credere ad un mondo futuro, come a quello, in cui l’autore d’ogni cosa fosse per effettuare l’associazione in discorso. Secondo questa dottrina, Dio e l’immortalità ora sono postulati necessari della ragione, come legislatrice morale, ora sono fondamento ed ora emanazioni della medesima; la relativa credenza però non è semplicemente logica o teoretica, dov’essa mancherebbe, mancando la validità dell’impiego della ragione, ma è una fede razionale, o come disse Kant, dottrinale; cessando la quale, cesserebbe anzi ogni uso pratico della ragione, come quello, che verrebbe quindi a perdere persino le condizioni del proprio scopo finale.
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cioè, al grado, e sì eziandio rapporto alla durata (protensive). Alla legge pratica, la quale deriva dalla causa motrice, che ne spinge alla felicità, io do nome di prammatica (regola di prudenza) e dico poi legge morale (dei costumi) quella (ove alcuna se ne dia), che altra non avrebbe causa motrice, tranne la dignità (il merito) di essere felice. La prima consiglia, quanto è da farsi da chiunque vagheggia partecipare alla felicità: la seconda ordina come dobbiamo contenerci, onde renderne di felicità meritevoli. I principi, sui quali si fonda la prima, sono empirici; ché, tranne per la sperienza, non potrei altrimenti conoscere né quali sieno le inclinazioni presenti, che dimandano di essere appagate, né quali fossero le cause fisiche, onde potesse aver effetto la soddisfazione di quelle. Nella legge morale vien
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fatto astrazione dalle tendenze non meno che dai mezzi fisici, pei quali appagarle; giacché siffatta legge considera la semplice libertà di un ente ragionevole in genere, non che le condizioni necessarie, date soltanto le quali essa libertà s’accorda ed armonizza colla distribuzione della felicità, in forza di principi, è quindi suscettiva e di fondarsi per lo meno sulle mere idee di ragione pura, e di essere a priori conosciuta.
Ammetto, pertanto, che si dieno leggi morali pure, dalle quali venga determinato assolutamente a priori (senza rispetto alle cause motrici empiriche, voglio dire, alla felicità) il fare o l’ommettere, l’impiego, cioè, della libertà di un ente ragionevole in generale: siccome ammetto, essere affatto assoluto (non meramente ipotetico, sotto la premessa e supposizione di altri fini empirici) l’ordinamento di siffatte
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leggi, e desse, per conseguenza, necessarie sotto qualunque rapporto. La qual sentenza posso io con ogni diritto premettere, appellandomi agli argomenti non pure dei più dotti moralisti che al giudizio morale di ciascun uomo, cui piaccia manifesta rendersi al pensiero l’una o l’altra di coteste leggi.
Sono pertanto inerenti alla ragione pura, se non per verità nello speculativo, in un certo qual suo esercizio pratico però, voglio dire, nel morale, alcuni principi della possibilità della sperienza, quelli, cioè, delle azioni, che potessero nella storia dell’uomo incontrarsi coerenti ai precetti relativi ai costumi. Imperocché, se la ragione pura prescrive qualmente abbiano luogo siffatte azioni, è pure mestieri ch’esse possano accadere: il perché dev’essere possibile un genere speciale d’unità sistematica,
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voglio dire, la morale: giacché non potrebbe, all’opposto, provarsi l’unità sistematica fisica per via di principi speculativi della ragione; appartenendo a questa, nel vero, un’efficienza, risguardo alla libertà in generale, ma non rispetto a tutta quanta la natura, ed essendo i principi morali della ragione atti bensì ad azioni cagionare, non però a produrre leggi fisiche. Dal che risulta, essere ai principi della ragione pura devoluta una realtà obbiettiva nel di lei uso pratico e segnatamente nel morale.
Sempreché il mondo sia coerente quante sono le leggi dei costumi (come lo può essere, di fatto, attesa la libertà degli enti ragionevoli, e come lo dee, stando alle leggi necessarie della costumatezza), esso è da me chiamato mondo morale. Un tal mondo è raffigurato come solamente intelligibile, in quanto
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vi è fatto astrazione da tutte le condizioni (dagli scopi), alle quali risguarda, e sì anche da tutti gli ostacoli (imbecillità o doppiezza morale della natura umana), che v’incontra, la moralità. In questo senso adunque il detto mondo consiste in una semplice idea, pratica però e che può, siccome dee nel fatto, esercitare un’influenza tutta propria sul mondo sensibile; onde renderlo coerente, il più fattibile che mai, a cotesta idea. Ha pertanto la sua realtà obbiettiva l’idea di un mondo morale, non come riferibile ad un oggetto qualunque di visione intellettiva (poiché tali oggetti non possiamo guari volgerli nel pensiero), ma come risguardante al mondo sensibile, qual oggetto però della ragione pura, nell’adoperamento pratico della medesima, e qual sostanza in essolei misteriosa (corpus mysticum) degli esseri dolati di ragione;
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in quanto si trova inerente al libero arbitrio dei medesimi un’assoluta ed universale unità sistematica, sia con sé medesimo, sia con qualunque altra libertà.
Fa quanto può renderti meritevole di essere felice: ecco il riscontro alla prima delle due quistioni della ragioire pura, le quali risguardano all’interesse pratico. Ora, dimanda la seconda, se io mi comporto, adunque, in guisa da non mi rendere meritevole di felicità, come oserò poi agognare di poterne con ciò essere fatto partecipe? Onde rispondere alla quale inchiesta, è mestieri decidere: se i principi della ragione pura, i quali prescrivono a priori la legge, vi connettano di necessità eziandio l’indicata speranza.
Al che rispondo, qualmente nello stesso modo, pel quale, secondo la ragione, sono indispensabili nello
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uso pratico della medesima i principi morali, così è necessario niente meno, sempre secondo la ragione, e di ammettere nel di lei uso teoretico, avere chicchessia motivo, per cui sperare la felicità nella stessa maniera e proporzione, colle quali se ne sarà egli reso degno colla sua condotta, e che, per conseguente, il sistema della costumatezza è inseparabilmente congiunto con quello della felicità, però solamente nell’idea della ragione pura.
Ora in un mondo intelligibile, vale a dire, nel morale, come in quello, nel cui concetto già facemmo astrazione da tutti gli ostacoli della moralità (dalle inclinazioni), può benissimo immaginarsi, come anche necessario, un tale sistema di felicità, congiunta e proporzionata colla costumatezza; come quello, in cui la in parte, mediante le leggi morali, eccitata ed in parte ristretta
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libertà verrebbe ad essere causa essa medesima della universale felicità ed in cui, sotto la scorta di tali principi, gli stessi esseri di ragione dotati sarebbero, per conseguente, gli autori del costante ben essere proprio nello stesso tempo che della durevole altrui prosperità. Ma questo sistema di moralità, guiderdone a sé medesima, non è che un’idea; l’eseguimento della quale poggia sulla condizione dell’operarsi per cadauno quanto gli è d’obbligo; voglio dire, che tutte le azioni degli enti ragionevoli accadano, come se prodotte fossero da una suprema volontà, la quale tutte comprendesse in sé stessa, o sotto di sé, le volontà private. Siccome però ha sempre l’egual valore, in qualunque uso particolare della libertà, l’obbligazione, che deriva dalla legge morale, quand’anche altri non si comportasse conforme a questa legge;
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così né dalla natura delle cose del mondo, né dall’efficienza delle stesse azioni o dei rapporti loro colla moralità, non viene definito come debbano le conseguenze di questa comportarsi colla felicità. E l’accoppiamento poc’anzi accennato, come necessario, della speranza di essere felici colla indefessa premura, onde rendersi di felicità meritevoli, non può essere dalla ragione conosciuto, sinché non gli si pone a fondamento che la natura; ma è solamente lecito sperarlo, sempreché venga invece contemporaneamente costituita in causa fondamentale della natura la stessa ragione supreme, la quale ordina in conformità delle leggi morali.
Chiamo ideale del sommo bene l’idea di una siffatta intelligenza, che in sé combini la moralmente più perfetta volontà colla beatitudine suprema e sia la causa di
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qualunque nel mondo felicità; in quanto si trovi questa in giusta relazione colla costumatezza (come colla dignità o collo stato meritevole di essere felice). Dunque la ragione pura non può trovare altrove, che nell’ideale del bene sommo ed originario, il fondamento della praticamente necessaria congiunzione d’ambidue gli elementi del massimo bene, derivato, voglio dire, di un mondo intelligibile, ossia morale. Ora, poiché dobbiamo necessariamente rappresentare noi stessi, la mercé della ragione, come appartegnenti ad un tal mondo, quantunque i sensi non altro ci presentano fuorché un universo di apparizioni; e poiché non ci si offre in questo mentovato il congiungimento, ne viene che dobbiamo ammetterlo come una conseguenza de’ nostri diporti nel mondo sensibile, come un mondo per noi a venire. Dio
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pertanto e la vita futura costituiscono due supposizioni o premesse inseparabili dall’obbligazione, cui ne prescrive la ragione pura, secondo i principi di questa stessa ragione.
La costumatezza costituisce per sé stessa un sistema, cui però non costituisce la felicità; eccetto in quanto venga essa distribuita in giusta proporzione al merito morale. Ma ciò non può essere fuorché in un mondo intelligibile, sotto il sapientissimo governo di un primo motore. La ragione si trova in obbligo di ammettere un tal motore, insieme alla vita in un tal mondo, cui dobbiamo risguardare come futuro, a meno di risguardare per vane chimere le leggi morali; giacché dovrebbe, senza la detta supposizione, svanire affatto la conseguenza necessaria delle medesime leggi, come quella, che la stessa ragione congiunge con esso
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loro. Quindi è che ciascun uomo considera le leggi morali quasi fossero comandamenti; ciò ch’elleno però non sarebbero, se non vi si trovassero connesse a priori conseguenze proporzionate a ciascheduna e se le non recassero promesse con seco e minacce. Il che, per altro, non potrebbero esse leggi, a meno che inerenti ad un essere necessario, nella qualità sua di bene supremo che solo può rendere possibile una unità così consentanea cogli scopi.
In quanto vi si risguardi solamente agli enti ragionevoli ed all’armonia conforme alle leggi morali sotto il governo del sommo bene, Leibnizio chiamò regno di grazia il mondo e lo distinse dal regno di natura; nel quale i detti esseri si trovano subordinati, è vero, alle leggi morali, ma non altra si aspettano conseguenza di loro condotta, eccetto le conformi
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al corso naturale del nostro mondo sensibile. Il raffigurarsi pertanto nel regno di grazia, ove tutte ci aspettano le felicità (eccetto in quanto fosse per noi medesimi ristretta, colla immeritevolezza di essere felici, la nostra partecipazione alla detta felicità), è idea praticamente necessaria della ragione.
Quando le leggi pratiche diventano cause anche subbiettive delle azioni, vale a dire, proposizioni fondamentali subbiettive, si chiamano massime. L’aggiudicazione della moralità, secondo la di lei purezza e le sue conseguenze, ha luogo per via di idee, come ha luogo per via di massime l’osservanza delle sue leggi.
Egli è necessario perché vadino subordinate alle massime morali tutte le vertenze di nostra vita; gli è però nello stesso tempo impossibile che ciò avvenga, se colla legge
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morale, consistente in una mera idea, non si congiunge dalla ragione una causa efficiente; la quale determini al contegno ad essolei corrispondente un evento precisamente consentaneo ai nostri sommi scopi, sia poi nell’attuale o nella vila futura. Senza Dio, pertanto, e senza un mondo per noi a quest’ora invisibile, ma sperato, le stupende idee della moralità sono bensì oggetti d’approvazione o di maraviglia, non però servono di molle ai divisamenti ed alla pratica: perciocché non adempiono all’intiero scopo, cui natura impresse ad ogni essere di ragione dotato e cui a priori determina, e rende necessario la stessa ragione pura.
La sola felicità è ben lungi dall’essere alla ragione dell’uomo un bene perfetto. Imperocché non è dalla ragione approvata felicità (per quanto la possa essa desiderare per anche
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naturale inclinazione); la quale non si combini ed accoppi col merito di possederla, voglio dire, col buon contegno morale. Ma il bene perfetto è inoltre assai lontano dal consistere nella sola moralità; quando pure combinata col semplice merito di essere felice. Perché il detto bene si compia, chi si comportò in maniera di non essere immeritevole della felicità, dee potere in oltre sperare da esserne fatto partecipe. Né potrebbe giudicare diversamente la stessa ragione, libera e scevra da tutti fini privati, se la si ponesse nella situazione di un essere destinato a tutte altrui distribuire le felicità. Conciò sia che nell’idea pratica vanno essenzialmente congiunte ambedue le parti (la dignità e la speranza); quantunque in maniera che, quasi come condizione, il sentimento morale rende prima possibile il partecipare
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alla felicità, invece che dovesse l’aspirare ad essa rendere prima possibile il sentimento morale. In quest’ultimo caso, di fatto, più morale non sarebbe il sentimento e né quindi meritevole di piena felicità; come di quella, che altra non conosce circoscrizione, al cospetto della ragione, tranne la provegnente dalla propria nostra condotta immorale.
La felicità, pertanto, posta in giusto equilibrio colla moralità degli enti ragionevoli, per la quale se ne rendono essi meritevoli, è quella che sola costituisce il sommo bene di un mondo, in cui la ragione pura; ma in pratica, ne impone di assolutamente (coll’animo) trasferirci. Vero bensì che tal mondo è meramente intelligibile, atteso che il sensibile non ci promette nella natura delle cose una cosiffatta unità sistematica di scopo e che non
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può su altro fondarsi la realtà dell’intelligibile, tranne sulla supposizione di un bene sommo ed originario. Con ciò sia che una ragione spontanea, per sé consistente ed agguerrita di quanta sufficienza può competere ad una causa prima, fonda, conserva e compie, conforme alla più perfetta corrispondenza cogli scopi, l’ordine universale delle cose; quantunque un tal ordine si celi, anzi che no, ai nostri occhi nel mondo sensibile.
Ora è prerogativa particolare a questa specie di teologia morale, o a preferenza della teologia speculativa, che la prima conduce indispensabilmente al concetto di un solo ente originario, perfettissimo e ragionevole, cui non sa la seconda indicarci, nemmeno per via di ragioni obbiettive, anzi che fosse mai capace di persuadercelo. Con ciò sia che, per quanto avanti possa
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farci la ragione progredire nella teologia sì trascendentale che naturale, non troviamo alcun motivo significante né in questa, né in quella, per cui solamente ammettere un essere unico, da per noi giustamente anteporsi a tutte le cause fisiche; oltreché, per fare dipendere, sotto qualunque rapporto, le dette cause da quest’essere, avremmo altri motivi già più che sufficienti. Se, all’opposto, consideriamo dal punto di vista dell’unità morale, come di una legge cosmica necessaria, la causa, che sola può dare proporzionato l’effetto e con esso produrre una forza per noi obbligatoria, sarà mestieri perché vi sia un volere unico e supremo, che tutte in sé comprenda queste leggi. Come troveressimo, di fatto, unità perfetta di scopi sotto volontà differenti? La detta volontà vuol essere 1° onnipossente, affinché le vadi
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subordinata l’intiera natura, non che il di lei rapporto colla moralità nel mondo, 2° consapevole di tutto (omniscia), perché valga penetrare nell’intimo dei sentimenti e rilevarne il valore morale, 3° presente a tutto, acciò immediatamente vicina si trovi a qualunque bisogno potesse occorrere alla migliore nel mondo prosperità, 4° eterna, onde non possa mancare in verun tempo la detta coerenza della natura colla libertà, e così di seguito.
Ma questa sistematica degli scopi unirà, in un tal mondo di sole intelligenze, il quale, considerato come semplice natura, meriterebbe solamente nome di mondo sensibile, che però, qual sistema di libertà, può essere chiamato mondo intelligibile, ossia morale (regnum gratiae), quella unità, diceva, conduce in oltre indispensabilmente alla nei confini consentanea unità di tutte
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le cose, le quali costituiscono questo gran tutto, conforme alle leggi universali della natura; siccome la nominata in primo luogo unità lo costituisce conforme alle leggi universali e necessarie dei costumi e colla contemplatrice accoppia la ragione pratica. Perché il mondo si trovi d’accordo e conspiri con quell’uso di ragione, senza del quale ci reputeressimo indegni della stessa ragione, voglio dire, col morale, come con quello, che poggia in tutto e per tutto sull’idea del sommo bene, gli è mestieri che ce lo rappresentiamo come nato ed avente origine da un’idea. Ogni fisica indagine riceve con ciò una direzione, dietro la forma di un sistemą di scopi; e, nella massima estensione loro, le dette indagini diventano fisica teologica. Avendo però questa prese tuttavia le mosse dall’ordine morale, come da
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un’unità fondata nell’essenza della libertà e non accidentalmente istituita da precetti stranieri, ne viene che la detta fisica teologica riduce a motivi, che debbono essere inseparabilmente congiunti a priori colla possibilità intrinseca delle cose, la convenienza finale della natura. E ne forma in tal modo una teologia trascendentale, che si arroga ed abbraccia, qual principio dell’unità sistematica, l’ideale della massima perfezione ontologica: il qual ideale congiunge tutte le cose in conformità colle leggi universali e necessarie della natura; dacché tutte le cose riconoscono l’origine loro dall’assoluta necessità di un solo ente primitivo.
Qual mai uso potremo fare del nostro intendimento, anche rispetto alla sperienza, se non ci proponiamo dei fini? Ma i supremi fra gli scopi sono quelli della moralità;
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e questi non può darceli a divedere che la sola ragione pura. Non ostante che provvisti però di tali scopi, anzi neppure seguendone il filo conduttore, far non possiamo, rispetto al sapere, alcun uso della stessa cognizione della natura, il quale fosse corrispondente ad esso loro, se non è data e posta, per la natura medesima, l’unità coerente agli scopi. Senza questa, infatti, saremmo dotati né tampoco di ragione; poiché non avremmo alcuna scuola per lei e niuna coltura ne ridonderebbe dagli oggetti, quando pure ci somministrassero questi a siffatti concetti materiale. Ma, essendo necessaria e fondata nell’essenza dello stesso arbitrio quest’unità di convenienza finale, dee pur essere necessario l’arbitrio; come quello, che in sé contiene la condizione della di lei applicazione in concreto: e così l’aumento trascendentale
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del nostro sapere razionale, non più la causa, ma sarebbe semplicemente l’effetto della pratica nei fini corrispondenza, cui la ragione pura ne impone.
Quindi è che anche nella storia della ragione umana troviamo, qualmente, già prima che fossero a bastanza depurati, non che definiti, i concetti morali e prima che fosse dietro i medesimi rilevata, però da principi necessari desunta, l’unità sistematica degli scopi, sì la cognizione dei fenomeni fisici, sì anche un grado ragguardevole di razionale coltura, in parecchie altre scienze, valsero, per un verso, a solamente vaghi e rozzi concetti produrre della divinità e lasciarono generalmente, per l’altro, una sorprendente indifferenza intorno a quest’argomento. Resa necessaria, dalla estremamente pura legge pratica di nostra religione, una elaborazione
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maggiore delle idee morali rese più acuta la ragione su tale oggetto, mediante l’interesse, cui dessa la obbligò prendere al medesimo. E, senza che vi contribuissero né cognizioni fisiche più estese, né più giuste o più sicure viste trascendentali (onde però mancarono tutte le età), le dette idee produssero un concetto della natura divina, cui reputiamo conveniente anche al dì d’oggi: non ché la ragione contemplatrice ne convinca della di lui verità, ma perché la si accorda perfettamente coi principi morali della ragione. Ed è poi sempre la sola ragione pura, unicamente però nel di lei uso pratico, quella, cui finalmente si compete il merito di combinare col massimo de’ nostri interessi una cognizione, cui la mera speculazione può soltanto immaginare, senza però procacciarle alcun valore. Che se non ha quella,
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come non ha di fatto, il merito di ridurre tal cognizione ad un dogma dimostrato, ne fece però una supposizione assolutamente indispensabile ai di lei scopi essenziali.
Ma non per ciò che la ragione pratica giunse ad un punto così elevato, al concetto, cioè, di un unico ente originario, come del sommo bene, potrà essa osare giammai di neppure di un punto sortire da questo concetto, né di quindi per avventura derivare le stesse leggi morali; quasi che la si fosse con ciò resa maggiore di tutte le condizioni empiriche necessarie alla di lei applicazione e sollevata si credesse alla cognizione immediata di nuovi oggetti. Imperocché la necessità pratica, intrinseca precisamente alle dette leggi, è quella, che, onde le medesime avessero quindi effetto, ci scorse alla supposizione di una causa per sé consistente, ossia, di un saggio
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moderatore del mondo. Quindi è che, rapporto all’effetto, non ci è lecito risguardarle come di bel nuovo accidentali e dalla mera volontà provegnenti; meno poi da quella tale volontà particolare, onde non avremmo il benché minimo concetto, se non ce lo fossimo raffigurato in grazia e conformità delle ripetute leggi. Sinché alla pratica ragione appartiene il diritto di guidarci, non terremo già per obbligatorie le azioni, attesoché da Dio comandate, ma le risguarderemo quali precetti divini, perciò che ci sentiamo intrinsecamente obbligati alle medesime. Studieremo la libertà sotto i dettami della unità di convenienza finale, secondo i principi della ragione, e la reputeremo al divino volere consentanea, solamente in quanto reputiamo sacrosanta la legge morale, che la stessa ragione insegna e deriva dalla natura
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delle azioni, ed in quanto avvisiamo di non altrimenti servire al detto volere; tranne promovendo il miglior ben essere al mondo in essonoi ed in altri. Non è pertanto se non immanente (indigeno) l’uso della teologia morale, serve, cioè, a farne compiere i nostri destini costì nel mondo, adattandoci al sistema di tutti gli scopi, ed a non abbandonare da fanatici, se non anche temerariamente, nelle propizie circostanze della vita, il filo conduttore di una moralmente legislatrice ragione, per annodarlo immediatamente all’idea dell’ente supremo. Dal che ne ridonderebbe un impiego trascendentale, col quale però non possono a meno di sconcertarsi, travolgersi ed ire a vuoto gli ultimi scopi della ragione, come accade nel di lei uso meramente contemplativo.