II
DOTTRINA TRASCENDENTALE DEL METODO
CAPO SECONDO – CANONE DELLA RAGIONE PURA
Del non essere possibile tranquillare la ragione pura in contraddizione con sé stessa
Del capo primo
Sezione III – Della disciplina della ragione pura, rispetto alle ipotesi
Sezione IV – Della disciplina della ragione pura risguardo ai di lei ragionamenti
Capo II – Canone della ragione pura
Sezione I – Dell’ultimo scopo dell’uso puro dell’umana ragione
Sezione II – Dell’ideale del sommo bene, come causa determinante lo scopo ultimo della ragione pura
Capo III – Architettonica della ragione pura
Capo IV – Storia della ragione pura
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Il tener per vero(1) è tale occorrenza nel nostro intelletto, che può benissimo avere fondamenti obbiettivi, sui quali poggiare; ma che richiede cagioni subbiettive nell’animo di quello, che giudica. Allorquando ha valore per ciaschedun uomo, solché sia di ragione dotato, è obbiettivamente sufficiente il motivo, di cui si tratta; nel qual caso il tenere per vero si chiama convicimento. Se poi tale motivo ha solamente fondamento nella natura
(1) Fuerwahrhalten.
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e qualità particolare al soggetto, allora lo si denomina persuasione.
La persuasione consiste in una mera illusione; atteso che la base del giudizio, non ostante che riposta unicamente nel soggetto, viene reputata obbiettiva. Il perché non compete altro valore ad un giudizio di questa fatta, se non particolare o privato, ed il tener per vero (l’assenso) non è suscettivo di partecipazione ad altrui. Ma la verità è fondata sulla convenienza ed armonia coll’oggetto, rapporto al quale debbono essere, per conseguente, consentanei fra loro a vicenda i giudizi di qualunque intendimento (consentientia uni tertio consentiunt inter se). Quindi è che la pietra di paragone, per cui estrinsecamente giudicare, se il tener per vero sia mera persuasione o convincimento, consiste nella possibilità di comunicarlo
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ad altri; non che nel rilevare qualmente abbia esso valore per la ragione di qualunque uomo. Con ciò sia che in tal caso vi è per lo meno la prosunzione, comeché il motivo dell’armonia di tutti i giudizi, non ostante la vicendevole diversità dei soggetti fra di loro, sia per basare sul fondamento comune, voglio dire, sull’oggetto, che tutti si trovino per ciò d’accordo i soggetti col medesimo e che venga per tal mezzo comprovata la verità del giudizio.
Dal che risulta, non potersi guari distinguere subbiettivamente la persuasione dal convincimento; sempre che il soggetto non abbia sott’occhio il tener per vero, se non qual apparizione del proprio animo. Il tentativo però di sperimentare sull’intendimento altrui gli argomenti relativi, aventi valore per noi, onde vedere s’ei producono lo stesso effetto sulla ragione degli altri, cui essi
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producono sulla nostra, è tuttavia un rimedio, il quale, sebbene solamente subbiettivo e non atto a produrre convincimento, serve però a scovrire se non sia che privato il valore del giudizio, vale a dire, a rilevare in esso qualche cosa, che fosse mera persuasione.
Oltre di che, se riesciamo a sviluppare le cagioni subbiettive del giudizio, che sono per noi reputate quali fondamenti obbiettivi del medesimo, e se veniamo a con ciò dichiarare, come accidente avvenuto nel nostro animo, quell’ingannevole tener per vero, senza che ne sia per ciò d’uopo la qualità dell’oggetto, verremo in tal caso a svelare il prestigio ed a guarentirci perch’esso più non ci deluda; quantunque tentati pur sempre all’inganno, sino ad un certo punto, sempre che sarà inerente alla nostra natura la cagione subbiettiva dell’illusione.
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Non ti è permesso di nulla sostenere, non puoi, cioè, pronunziare alcun giudizio, come avente valore necessario per tutti gli uomini, a meno che generi convincimento quanto giudichi o sostieni. La persuasione puoi serbartela per te, se la ti accomoda e conviene; ma, fuori di te, la non può né dee prosumere di rendersi autorevole a chicchessia.
Nel tener per vero, voglio dire, nel valore subbiettivo del giudizio, distinguonsi, rapporto al convincimento (che ha pure valore obbiettivo), i tre gradi seguenti: opinare, credere e sapere. L’opinione consiste nell’assenso (nel tener per vero, essendone a sé consapevoli) insufficiente sì nel rapporto subbiettivo che nell’obbiettivo. Se, non essendo che subiettivamente idoneo, l’assenso è re putato insufficiente od inetto, come
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obbiettivo, lo si dice credere (fede). Chiamasi finalmente sapere il tener per vero (l’assenso) avente giusto valore sì obbiettivo che subbiettivo. Quando è subbiettiva, la sufficienza (idoneità) si denomina convinzione (rispetto a noi medesimi); ove obbiettiva, chiamassi certezza (rispetto a tutti). E non m’intratterò nel dichiarare concetti così facili.
Non mi sarà mai lecito attentarmi di opinare, senza per lo meno sapere qualche cosa, mediante la quale venga un giudizio, meramente problematico in sé stesso, a combinarsi ed unirsi colla verità; poiché tal congiunzione, sebbene imperfetta, è però alcunché più in là di una finzione, arbitraria. La legge, inoltre, di questo congiungimento vuol essere certa; giacché, se altro non ho sul di lei conto che un’opinione, sarà tutto giuoco
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d’immaginazione, in tal caso, e non vi avrà il minimo rapporto colla verità. Nei giudizi, quali emergono dalla ragione pura, non è permesso per niente l’opinare: perocché, siccome tali giudizi non poggiano su fondamenta sperimentali, ma vuol essere conosciuto a priori tutto quanto è necessario, così ne viene che il principio della congiunzione richiede universalità e necessità; quindi richiede piena certezza: giacché in caso contrario non incontreressimo il gran nulla, che potesse di guida servirci alla verità. È pertanto assurdo l’opinare nella matematica pura, dove bisogna o sapere od astenersi da qualunque giudizio. Né va diversamente la cosa coi principi della moralità; poiché non è lecito azzardare un fatto sulla sola opinione dell’essere permessa l’azione, onde si tratta, ma si dee saperlo (che la è permessa).
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Nell’uso trascendentale della ragione, per lo contrario, non basta ed è veramente assai poco l’opinare; ma vi è poi anche troppo il sapere. A scopo semplicemente contemplativo, non possiamo qui dunque né per ombra giudicare; atteso che, nelle quistioni speculative, non meritano punto approvazione gli argomenti subbiettivi dell’assenso, che soli possono produrre il credere (ottener fede); non potendo essi né dispensarsi e mantenersi liberi da ogni soccorso empirico, né in egual modo comunicarsi ad altrui.
Ad ogni modo, però, ei può darsi nome di fede al benché teoreticamente insufficiente assenso, purché unicamente sotto rapporti pratici. Ora o questi risguardano l’abilità, o si riferiscono alla costumatezza: essendo gli scopi della prima fortuiti ed arbitrari; mentre sono indispensabili
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ed assolutamente necessari quelli della seconda.
Prefisso che siasi una volta uno scopo, sono ipoteticamente necessarie le condizioni del relativo conseguimento. Questa necessità è subbiettiva, e comparativamente idonea ciò non pertanto, solo allorquando però non conosco nessun’altre condizioni, sotto le quali fosse da conseguirsi lo scopo. Ma essa è sufficiente, ad ogni modo, e per tutti, ogni qualvolta so di certo, non essere chi possa conoscere altre mai condizioni, le quali valgano condurre al fine prestabilito. Nel primo caso, il mio supporre o tener per vere certe condizioni costituisce una fede meramente fortuita; nel secondo, una fede necessaria. Il medico, il quale assiste un infermo, che si trova in pericolo, dee pur far qualche cosa; ma, non conoscendo la malattia,
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esamina le apparizioni (i sintomi) e, nulla di meglio sapendo, la giudica tisichezza. La sua fede non è che accidentale anche nel proprio di lui giudizio; giacché un altro avrebbe forse colpita meglio l’infermità. Una tal fede, che, sebbene fortuita, serve però di fondamento all’impiego dei mezzi per certe azioni, la chiamo fede prammatica.
La maniera d’uso, per la quale provare, se non sia che mera persuasione, o sola tutt’al più convinzione subbiettiva, cioè a dire, un creder fermo, ciò, cui taluno assevera, è quella dello scommettere. Accade assai di spesso che si esprimono le proprie asserzioni con tale iattanza di sicurezza ed inflessibilità che direste, aversi ben altro che deposta qualunque temenza di errore. Si trova però, qualche volta, che la persuasione di quello,
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che assevera, è tale da potersela porre al prezzo di uno zecchino, non però a quello di dieci. Ben si azzarda infatti la scommessa dello zecchino; ma, quando si è sfidati sui dieci, si viene finalmente a riflettere ciò, cui non si faceva dianzi attenzione, che sarebbe, cioè, possibile aver preso abbaglio. Se mo dovessimo rappresentarci al pensiero, trattarsi nientemeno che di perdere, scommettendo, la fortuna di tutta la vita, son d’avviso che scemerebbe d’assai l’aria trionfatrice del nostro giudizio, che diverremmo esitabondi oltremodo, e troveressimo finalmente che non va poi sì lontano il nostro credere. Così la fede prammatica non ha che un grado, il quale però, secondo la differenza dell’interesse che vi si mette, può essere ora grande or anche picciolo.
Siccome però, quantunque non
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ci troviamo al caso d’intraprendere il gran nulla, rapporto a qualche di oggetto, e non sia, per conseguente, che teoretico il nostro tener per vero, possiamo tuttavia concepire assai volte col pensiero ed immaginarci una qualche intrapresa, per la quale ci avvisiamo in possesso di ragioni sufficienti, solché vi fosse modo per cui decidere pe la certezza della cosa; così risulta, nei giudizi meramente teoretici contenersi un’analogia (analogon) colla pratica, al cui tener per vero si addice la parola credere, e cui possiamo denominare fede (credere) dottrinale. Se fosse da potersi decidere per mezzo di qualche sperienza, non esiterei guari a scommettere tutto il mio, che per lo meno alcuno dei pianeti, che noi veggiamo, fosse abitato. Per conseguenza, dico, non consistere in una mera opinione, ma in una fede ben
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ferma (per la verità e giustezza della quale sarei presto ad azzardare assai vantaggi della vita), ciò, che mi fa dire, darsi abitatori di anche altri mondi, oltre questo.
Ora ci è pur d’uopo confessare, alla fede, cui dissi dottrinale, appartenere la dottrina dell’esistenza di Dio. Imperocché, sebbene, rispetto alla cognizione teoretica del mondo, non vi sia nulla, che possa farne presupporre di necessità il detto pensiero, qual condizione alle nostre dichiarazioni sui fenomeni del mondo, ma siamo anzi tenuti ad usare della ragione, onde andiamo forniti, come se tutto fosse mera natura; tuttavia l’unità di corrispondenza cogli scopi e condizione di sì gran momento, nell’applicare la ragione alla natura, e sono in oltre tanti gli esempli, quali ce ne fornisce la sperienza, che non ci è nullamente possibile preterire la detta
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unità. Evvi, per conseguente, una condizione di accidentale, bensì, non però trascurabile divisamento, quella, cioè, di avere tal guida nelle indagini fisiche, la quale ne faccia presupporre un saggio autore dell’universo. Anche il successo dei nostri tentativi ed esperimenti conferma con tanta frequenza la utilità di una tale premessa, che, niuno potendo addursi argomento, il quale fosse decisivo in contrario, starei troppo al di sotto del vero, se non dessi nome che di mera opinione al mio assenso in proposito, e che, anche sotto appena teoretico rapporto, posso dire benissimo, credere io fermamente un Dio. Nel qual caso, però non è veramente pratica, in tutto il rigore del significato, questa fede; ma vuolsi denominare dottrinale, come quella, che dee dovunque si voglia consistere in un prodotto necessario della teologia
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della natura (della fisica teologica). Se poi riflettiamo sì alla sapienza medesima, rispetto al corredo eccellente, ond’essa guernì la natura umana, che alla sì male al paragone proporzionata brevità della vita respettiva, troveremo altrettanti motivi sufficienti per una fede (pure dottrinale) nella vita futura dell’anima dell’uomo.
La parola credere, in simili casi, è una maniera di esprimersi con moderazione, risguardo al fine obbiettivo; ma con insieme fermezza di confidenza, rispetto al subbiettivo. Quand’anche al mero assenso teoretico volessi dar costì solamente nome d’ipotesi, ch’io fossi autorizzato ad ammettere, verrei con ciò a non di meno impegnarmi e prosumnere di possedere maggior contezza (più concetti) che non posso dare nel fatto a divedere intorno alla natura sì della causa dell’universo
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e sì di un altro mondo. Imperocché di quanto ammetto, anche solamente come ipotesi, devo saperne tanto, che basti, risguardo almeno alle proprietà respettive, perché non mi sia d’uopo inventarne il concetto e non abbia che da immaginare la di lui esistenza. Ma la voce fede risguarda unicamente alla guida, cui ne somministra un’idea, ed alla influenza del soggetto (subbiettiva) in promuovere le operazioni della nostra ragione; influenza, la quale fa sì che ne teniamo attaccati alla detta guida, quantunque non ci troviamo in grado, per cui renderne conto sotto rapporto speculativo.
Se non che alla fede meramente dottrinale trovasi essere intrinseco un non so che di mal fermo e titubante, così che non è raro il venirne rimossi dalle difficoltà, le quali i emergono dagli studi contemplativi;
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quantunque, per verità, non manchiamo giammai di poscia essere di bel nuovo ricondotti alla medesima.
La cosa è affatto diversa rispetto alla fede morale, come a quella, ov’è di assoluta necessità, perché le consegua una qualche cosa; voglio dire, perché siamo in ogni parte conseguenti alla legge dei costumi. Costì lo scopo è indispensabilmente fissato; e, per quante pur fossero le mie conoscenze, non vi è possibile che una sola condizione; sotto la quale il detto scopo è coerente cogli altri fini tutti quanti ed ha perciò valore nella pratica: e tal condizione consiste nell’esservi un Dio ed una vita futura. Oltre di che sappiamo di tutta sicurezza, note altre condizioni, che atte fossero guidarne alla stessa unità di scopi sotto la legge morale. Ma,
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siccome il morale comandamento è quindi nello stesso tempo la massima da me adottata (ogni qual volta la ragione prescrive che lo debba essere), così diventa indispensabile il mio credere all’esistenza di Dio e ad una vita futura. E sono certo qualmente non vi sarà che possa rendere vacillante questa fede; perciò che in tal caso verrebbero a distruggersi e precipitare anche i miei principi morali; ai quali non saprei altronde rinunziare, senza rendermi abbominevole ai miei propri occhi(1).
(1) Riepilogando, Kant distingue quattro gradi nel valore, cui attacchiamo alla verità o alla di lei apparenza; la persuasione, cioè, l’opinione, la credenza e la certezza.
Non avendo la persuasione fondamento che nella disposizione particolare al soggetto, essa è illusoria: e la prova di sua verità
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Sconcertate, per tal guisa, tutte le viste ambiziose di una ragione girovaga
si desume dal riuscire più o meno in farne parte ad altrui. L’opinione corrisponde alla verosimiglianza e non ha fondamento bastevole, né subbiettivo né obbiettivo. Quantunque valga più che la persuasione, tuttavia essa non costituisce ancora verità e non esce dai limiti dell’illusione.
Nell’opinione si ha però il fondamento della connessione del problema coi dati e, sebbene insufficienti cotesti a stabilire la verità, è però certa la legge della detta connessione. Non ha valore l’opinione, fuorché nelle cose relative alla sperienza, non però nei giudizi dedotti dalla ragione pura, come i matematici, metafisici o morali.
Nell’ammettere una cosa, come vera, per motivi subbiettivamente bastevoli, obbiettiyamente insufficienti, consiste la credenza, la quale ha luogo soltanto nella pratica e non è applicabile né alle cose teoretiche, né alle speculative. La fede nelle cose morali è un effetto delle condizioni annesse allo scopo, cui si prefigge la ragione pratica; se il quale scopo è necessario e se
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e smarrentesi oltre i confini d’ogni sperienza, ci rimane ancora
rende assolutamente indispensabili quelle condizioni, come nelle verità morali, è pure necessaria la fede. Quando essa è necessaria solo rispetto allo spirito di quello, che agisce per difetto di altri mezzi, Kant la dice prammatica: e tale dichiara la credenza dei medici nella virtù dei rimedi, ch’ei prescrivono. La credenza dottrinale può risguardare ad idee trascendentali, come sarebbe la fede in Dio, e l’Autore la fa risultare dal vantaggio, cui offre la supposizione relativa, onde soddisfare ai bisogni sistematici della ragione. Ma questa fede non ha valore nella speculazione e non è che pratica e subbiettiva la di lei applicazione, per dirigere le operazioni del nostro spirito e favoreggiarle nella piena formazione della grande unità. Estendendosi la prova della fede agli interessi, indefinitivamente attribuibili a questa, ne viene che non valgono a sostenerla quellino, che affermano in proposito con pertinace asseveranza, immaginandosi, per avventura, una credenza, ond’ei sono in effetto assai lontani.
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quanto basta, onde possiamo esserne soddisfatti e contenti rispetto
La certezza finalmente, che sola costituisce la scienza propriamente detta, è una convinzione, i cui fondamenti sono egualmente sufficienti sotto il doppio rapporto obbiettivo e subbiettivo: ed è apodittica od assoluta, ogni qualvolta la si combini colla coscienza della necessità. Quest’ultima certezza è una delle pretensioni principali della scuola di Kant; la quale stabilisce incontestabile, non che apodittica la certezza delle matematiche e delle scienze a priori, basandole sulle forme naturali e necessarie delle nostre rappresentazioni; le prime, cioè, sulla forma dello spazio, e sulle nozioni discorsive dell’intelletto le altre.
Siccome i quattro gradi qui accennati si riferiscono alla verità, così non sarà inutile ricordare la distinzione di questa in logica (formale) od obbiettiva (materiale) secondamente che prodotta per il solo accordo delle cognizioni fra di loro, o cogli oggetti; ed in empirica o metafisica, in quest’ultimo caso, a misura che trattasi di oggetti sensibili o sopra naturali.
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alla pratica. Vero bensì che non potrà mai nessuno vantarsi, come ch’ei sappia esservi un Dio ed una vita futura; imperocché l’uomo, che sapesse, tanto sarebbe quello appunto, cui da gran tempo vo indarno cercando. E poiché non si đà sapere (sempre che risguardi ad un oggetto della sola ragione), che non possa essere altrui comunicato, vorrei per conseguente sperare, qualmente, la mercè delle istruttive partecipazioni di un tal uomo, venissero a così maravigliosamente ampliarsi ed arricchirsi le mie cognizioni. Ma no, ché il convincimento, anzi che certezza logica, è morale soltanto; e, siccome tal convinzione poggia sopra fondamenta subbiettive (sui sentimenti morali), così non mi è né tampoco lecito esprimermi, essere moralmente certa l’esistenza di Dio, ecc., ma devo dire, che io sono moralmente certo
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e quel che segue. Il che significa, la fede in un Dio ed in un altro mondo essere tanto intimamente legata e, per così dire, tessuta col mio sentimento morale che ho tanto poco da curarmi e temere, perché possa essermi tolta la detta fede, quanto poco mi sovrasta pericolo di dovere a quel sentimento rinunziare.
L’unica difficoltà, che s’incontra su questo proposito, consiste nel fondarsi questa fede razionale sopra una supposizione di sentimenti morali. Se prescindiamo dalla qual premessa e che si ammetta una fede, la quale fosse affatto indifferente rispetto alle leggi morali, allora la dimanda, cui fa su questo argomento la ragione, diventa un problema speculativo, che può essere benissimo sostenuto, anche in tale qualità, con ragioni fortissime, desunte dall’analogia; ma
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non con argomenti, ai quali dovesse darsi per vinta la smania pertinacissima del dubitare(*). Non vi è però nessun uomo, il quale non abbia un qualche interesse a coteste quistioni. Imperocché, sebbene potesse alcuno segregarsi affatto dal morale, per mancanza di onesti sentimenti, anche in questo caso rimarrebbe non di meno a quel tale quanto basta, perché dovesse reformidare
(*) Lo spirito umano prende (siccome io credo che avvenga di necessità in ogni essere dotato di ragione) un interesse naturale per la moralità; quantunque tal interesse non sia né indiviso né praticamente preponderante. Raffermatelo ed ingranditelo quest’interesse, e la ragione troverete non solo facile ad istruirci, ma già con ciò più istruita, nel combinare col pratico anche lo scopo speculativo. Che se prima, o per lo meno a metà strada, non ponete mente a fare degli uomini probi, non ne farete neppure mai de’ sinceramente credenti.
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un’esistenza divina ed un avvenire. A ciò di fatto non si richiede niente più, se non ch’ei non possa per lo meno pretestare (sentitamente) alcuna certezza del non potersi dare né un tal essere, né una vita futura. E, siccome gli sarebbe a tale oggetto mestieri di provare il suo assunto colla sola ragione, quindi apoditticamente, così la impossibilità, ch’egli si attenterebbe convincere, sì rapporto all’uno che all’altra, è tale assunto, che non può certamente intraprendersi da nessun uomo ragionevole. La fede, onde si ragiona, sarebbe una fede negativa, la quale quantunque non possa cagionare, a dir vero, né moralità, né sentimenti onesti, potrebbe tuttavia produrre un correlativo (analogon) a quella ed a questi, voglio dire, in quanto impedisse con vigore lo sviluppo di una cattiva moralità e di sentimenti perversi.
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Ma non è niente più di tutto questo, odo chiedermi, l’effetto, cui produce la ragione pura, mentre apre cammino alle sue viste oltre i termini della sperienza? Nulla più che due articoli di fede? Avrebbe fatto altrettanto anche il più volgare intendimento, senza che gli fosse mestieri di consultare i filosofi.
Non voglio costì milantare il merito, cui potesse avere appo l’umana ragione la filosofia col faticoso lavoro della sua critica; dato pure che nel successo fosse trovato solamente negativo un tal merito; poiché avremo su di ciò motivo ad un qualche avvertimento nella sezione, che siegue. Ma pretendereste forse che una cognizione, la quale a tutti risguarda gli uomini, dovesse oltrepassare il comune intendimento e non esservi rivelata che dai soli filosofi? In ciò appunto, cui redarguite, consiste la migliore
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conferma della verità ed aggiustatezza di quanto fu asserito finora; perciocché ne viene quindi svelato quanto non potevamo da principio prevedere: voglio dire, non potersi la natura incolpare di parzialità nella distribuzione de’ suoi doni, rispetto a quanto interessa indistintamente gli uomini; e che, trattandosi degli scopi essenziali della natura umana, la più sublime filosofia non saprebbe farci mai progredire più in là della meta, ove giunge la scorta, cui natura stessa concesse all’anche più volgare intendimento.