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DOTTRINA TRASCENDENTALE DEL METODO
CAPO I – DISCIPLINA DELLA RAGIONE PURA
Del non essere possibile tranquillare la ragione pura in contraddizione con sé stessa
Del capo primo
Sezione III – Della disciplina della ragione pura, rispetto alle ipotesi
Sezione IV – Della disciplina della ragione pura risguardo ai di lei ragionamenti
Capo II – Canone della ragione pura
Sezione I – Dell’ultimo scopo dell’uso puro dell’umana ragione
Sezione II – Dell’ideale del sommo bene, come causa determinante lo scopo ultimo della ragione pura
Capo III – Architettonica della ragione pura
Capo IV – Storia della ragione pura
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Gli argomenti, che servono alle proposizioni trascendentali sintetiche, si distinguono da tutti gli altri del sapere sintetico anticipato, in quanto è come intrinseco e particolare ai primi, che non ha in essi dritto la ragione di rivolgersi direttamente all’oggetto co’ suoi concetti; ma dee prima dimostrare a priori tanto il valore obbiettivo degli stessi concetti, quanto la possibilità della sintesi loro. Il che non concerne già, per avventura, una semplice regola necessaria di precauzione; ma risguarda l’essenza e la
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possibilità de’ concetti medesimi. Se devi trasmigrare a priori al di là della nozione di qualche oggetto, non potrai riuscirvi giammai, senza un filo di guida speciale, il quale si trovi e ti conduca estrinsecamente a quel dato concetto. Quella, che scorge la tua sintesi della matematica, è la visione a priori; giacché tutte le tue conclusioni possono esservi rette immediatamente per la visione pura. Nella cognizione trascendentale, sino a tanto ch’ella non si occupa se non dei concetti dell’intendimento, il detto filo di scorta consiste nella possibile sperienza. Voglio dire, che l’argomento non dimostra, un dato concetto (quello, p. e., di ciò, che accade) guidare direttamente ad un altro concetto (a quello, nell’esempio, della causa); perciocché tal passaggio sarebbe un salto, cui non si potrebbe guari giustificare: ma
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dinota che sarebbe impossibile, senza un tale accoppiamento, la sperienza medesima ed impossibile, per conseguente, l’oggetto, che le appartiene. Era dunque necessario perché l’argomento indicasse nello stesso tempo la possibilità di pervenire a priori e sinteticamente ad una certa cognizione di cose, la quale non capiva nel concetto delle medesime. Senza tale attenzione, i concetti fluiscono alla maniera delle acque, le quali traripano con impeto e per traverso, illuviando, là dove accidentalmente le guida la tendenza di un’affinità misteriosa. Il prestigio della convinzione, il quale poggia sulle cagioni subbiettive dell’associamento e cui si risguarda qual notizia penetrante l’affinità naturale, non è guari al caso di equiponderare l’ambiguità, che dee giustamente aver luogo intorno a passi così azzardati. Il
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perché furono vani e perduti, giusta la confessione universale dei dotti, quanti si fecero tentativi, onde convincere la proposizione della causa sufficiente: e, prima che sorgesse in campo la critica trascendentale, non sapendo come risolversi ad abdicare la massima in discorso, fu preferito appellarsi ostinatamente al senso comune degli uomini (appellazione, che sempre significa, disperata essere la causa della ragione), anzi che voler far prova di nuovi argomenti dogmatici.
Se però la proposizione, sulla quale debbono addursi dimostrazioni ed argomenti, concerne un’asserzione della ragione pura, e se imprendi persino a sortire oltre il tuo concetto sperimentale col solo soccorso delle idee, sarà bisogno anche maggiore, perché la stessa proposizione contenga in sé medesima la giustificazione di un tanto passo
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della sintesi (quand’ei pur fosse fattibile); come condizione questa indispensabile alla forza delle sue prove. Quindi è che, per quanto possa essere speciosa, dedotta dall’unità del concepimento (dell’appercezione), la pretesa dimostrazione della natura semplice della sostanza, che pensa in esso noi, le sta però incontro con irremovibile fermezza la difficoltà: che, siccome l’assoluta necessità non è tuttavia concetto, cui potesse riferirsi ad una qualche percezione, ma dev’essere dedotta e conchiusa come semplice idea, così non è concepibile, come la mera coscienza, la quale cape o può, se non altro, capire, in ogni pensare, non ostante che, nella sola qualità sua di semplice rappresentazione, debba essa condurmi alla coscienza e cognizione di una cosa, in genere, nella quale solamente può essere contenuto il pensiero.
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Conciossia che, se mi rappresento in azione la forza del mio corpo, sin qui esso costituisce per me un’assoluta unità e la rappresentanza, che ho di lui, è semplice; il perché mi è pure lecito esprimerla mediante il movimento di un punto, nulla ostando il costui volume, in tal caso: e così può essere pensata la detta unità senza la qualunque minima che si voglia diminuzione della forza; per conseguente, può essere pensata come ovvia in un qualche punto. Ma non sarò tuttavia per quindi conchiudere che, allorquando non mi è dato nulla, fuorché la forza motrice di un corpo, sia per essere pensato il corpo qual sostanza semplice, atteso che nella di lui rappresentanza è fatto astrazione da ogni grandezza di materia spaziosa e quindi essa risulta semplice. Riflettendo, pertanto, e che il semplice nell’astrazione differisce
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pienamente dal semplice nell’oggetto, e che l’io, il quale, nel primo significato, non comprende in sé al cuna moltiplicità, può essere un concetto assai complicato, può, cioè, contenere in sé medesimo e significare assai cose, nel secondo, in cui l’io dinota la stessa anima, vengo a scoprire un paralogismo. Prima però di poterlo presagire (giacché, a meno che previa una tale conghiettura, non si potrebbe concepire alcun sospetto contro l’argomento), è assolutamente necessario, perché si abbia in pronto un criterio perpetuo rispetto alla possibilità di simili proposizioni sintetiche; le quali debbono provare più che non può dare la sperienza. Il qual criterio si è che l’argomento non venga direttamente condotto al richiesto predicato, ma solo per mezzo di un principio della possibilità di estendere sino alle idee il
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concetto, che ci è dato a priori, e di realizzare coteste idee. Ove sempre si osservi la qual cautela e che, prima di cimentare l’argomento, si abbia l’avvedutezza di fra noi medesimi, e previa riflessione, deliberare sul come, e su quale di speranza fondamento, possa mo aspettarsi una tale ampliazione, mediante la ragione pura, e d’onde mai vogliansi attingere, in simili casi, le nozioni, onde si tratta; poiché né le si possono svolgere da’ concetti, né rispetto alla sperienza possibile anticipare; allora potremo risparmiarci assai disagevoli e tuttavia sterili fatiche: perciocché nulla supporremo alla ragione di quanto ne trascende all’evidenza le facoltà, o, dirò meglio, perché, non lasciandosi ella sì di leggieri frenare, quando è presa dalla manìa di amplificarsi nell’uso contemplativo, la sottoporremo al magistero del temperamento e del contegno.
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La prima regola dunque sarà di non tentare alcuna dimostrazione o prova trascendentale, a meno di aver prima deliberato, e giustificati sé medesimi, sol d’onde si miri a prendere le massime fondamentali, sulle quali si pensa basare i detti argomenti, e con qual dritto possiamo da questi aspettarci perché prosperamente succedano, le conclusioni. Se trattasi di massime dell’intelletto (p. e., dell’efficienza causale), ci adopreremo inutilmente, onde la mercé loro pervenire alle idee della ragione pura; essendo che le dette leggi non hanno valore che per gli oggetti della sperienza possibile. Sarà egualmente vana ogni fatica, se le massime derivano dalla ragione pura: non già perché dessa non ne abbia; ché ne ha di fatto; ma perché, in qualità di massime obbiettive, le sono dialettiche tutte quante, né possono
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avere valore se non quali principi tutt’al più regolatori del sistematicamente connesso e coerente impiego della sperienza. Che se preparati e presti già fossero i pretesi argomenti, onde si ragiona, opponete all’ingannevole convincimento il non consta (non liquet) della vostra già matura facoltà di giudicare; e, benché non foste al caso di penetrarne il prestigio illusorio, non avreste però meno dritto e pieno diritto, per cui pretendere la deduzione delle massime fondamentali, che vi campeggiano; e tuttoché debbano essere queste originarie della sola ragione, quella non potrà mai esservi procacciata. Così non vi è né tampoco bisogno perché vi occupiate né dello sviluppo, né della confutazione, di ogni mal fondata e vana illusione; ma tutta quanta è la dialettica, inesauribile ne’ suoi artifizi, potete rimandarla
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in massa e farla citare al tribunale di una ragione critica, la quale non dimanda che leggi.
Ciò che hanno, in secondo luogo, di particolare le prove trascendentali si è, che non ha luogo e non può trovarsi più di un solo argomento per ogni proposizione trascendentale. Se non debbo inferire da’ concetti le mie conclusioni, ma dalla visione corrispondente ad un concetto, sia poi visione pura, come nelle matematiche, o sia sperimentale, come nella fisica, posta in tal caso a fondamento la visione, questa mi fornisce copia di materiale atto a proposizioni sintetiche, il qual materiale posso io combinare in parecchi modi; ed, essendomi quindi lecito sortire da vari punti, posso giungere per sentieri differenti alla medesima proposizione.
Ma ogni singola proposizione trascendentale progredisce da un solo
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concetto, e stabilisce, giusta questo concetto, la condizione sintetica della possibilità dell’oggetto. La ragione dimostrativa, pertanto, non può essere che una sola; stante che, oltre questo concetto, non v’è altro più, con che potesse l’oggetto essere determinato, e, per conseguenza, non può l’argomento altro più contenere che la determinazione di un oggetto in genere, a norma dell’unico esso pure concetto in discorso. Nell’analitica trascendentale avevamo, a cagion d’esempio, la massima del competere a quanto accade una causa; la qual massima era dedotta dalla condizione unica della possibilità obbiettiva del concetto di ciò che accade in generale; comeché fosse impossibile sì la determinazione di un avvenimento nel tempo e sì; per conseguenza, questo stesso (avvenimento), come appartegnente alla sperienza,
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quando non subordinati sì quella sì questo a siffatta legge dinamica. Ora è cotesto anche il solo argomento ragionevole possibile; giacché il rappresentato accidente ha valore obbiettivo: lo ha, cioè, a dir giusto, perciò solamente che al concetto viene stabilito un oggetto, mediante la legge dell’efficienza. Furono tentati, è vero, altri argomenti anche in prova di questa massima, come sarebbe il ragionato già tempo sull’accidentalità: solché, tale argomento considerando nella sua piena luce, non vi si può tuttavia scoprire verun criterio di ragione fortuita, eccetto l’accaduto, vale a dire, un’esistenza, cui precede il non essere dell’oggetto; quindi è che per ciò si retrograda pur sempre di bel nuovo al medesimo argomento. Perché a debba essere provata la proposizione: tutto ciò che pensa è semplice,
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non ci arrestiamo al moltiplice del pensare, ma solo persistiamo fermi sul concetto dell’io; essendo semplice tal concetto e riferendosi ad esso qualunque pensiero. Né procede altrimenti la cosa colla dimostrazione trascendentale dell’esistenza di Dio; poiché argomento, che poggia unicamente sulla ragione reciproca del concetto dell’ente realissimo e necessario, e poiché non è possibile rintracciarne altrove la prova.
Questo avvertimento ammonitivo riduce in picciolo assai la critica delle asserzioni della ragione. Perciocché, dove questa non si occupa nelle sue operazioni che di meri concetti, non è possibile che un solo argomento, dato pure che ne sia mai possibile alcuno. Il perché se vedi un dogmatico sortire con dieci prove, puoi esser certo ch’egli non ne ha neppur una. S’egli avesse,
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di fatto, un solo argomento, il quale provasse apoditticamente (come si richiede nelle vertenze della ragione pura), quale avrebb’egli mestiero degli altri? Ma tutto il suo scopo somiglia o si riduce alla gherminella di quell’avvocato (nel parlamento), il quale forniva una prova per questo, una per un altro e così per cadauno dei giudici, onde giovarsi della debolezza di ciascheduno; come di quellino, che, senza profondamente investigare la cosa e non premendo loro che di presto sbrigarla, s’apprendono a quel qualunque loro capita per il primo e decidono in conseguenza.
La terza regola propria specialmente alla ragione pura, quando viene sottoposta, nelle prove trascendentali, ad una disciplina, si è che i di lei argomenti non debbono mai essere apagogici (suppositizi), ma sempre ostensivi. La prova
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diretta e dimostrativa, in ogni maniera di cognizioni, è quella, che insieme colla persuasione della verità combina l’intima conoscenza delle sorgenti respettive. L’argomento apagogico, per lo contrario, è bensì atto a produrre certezza, non però a far comprendere la verità, rispetto alla connessione dei fondamenti alla di lei possibilità. Quindi è che le dimostrazioni apagogiche sono piuttosto di soccorso in caso di bisogno, anzi che valga il procedere loro a tutti soddisfare gli scopi della ragione. Hanno però queste, preferibilmente alle prove dirette, il vantaggio dell’evidenza; per ciò che la contraddizione mena sempre seco maggiore chiarezza, che non la migliore delle congiunzioni: con che la si approssima davvantagio alla ragione intuitiva di una dimostrazione.
Or ecco il vero motivo, per cui
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vengono adoperati gli argomenti apagogici nelle differenti scienze. Quando sono moltiplici troppo o che a troppa si celano profondità, le ragioni, onde vuol derivarsi una certa qual cognizione, si fa il tentativo se mai fosse questa per attingersi mediante le conseguenze. Ora la maniera suppositiva (modus ponens), di conchiudere la verità di una cognizione, inferendola dalla verità delle conseguenze della medesima, non è permesso, tranne allorquando sono vere quante possono indi emergere conseguenze; poiché in tal caso tutto questo non può avere che un sol fondamento e desso dev’essere, per conseguente, il vero. Solché non è praticabile un tal procedere, come quello, che supera le nostre forze a rilevare tutte le conseguenze possibili di una proposizione già ricevuta qualunque. Tuttavia gli è stile il prevalersi di questa foggia di conchiudere;
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quantunque non senza una certa, nel vero, indulgenza, quando non si tratta se non di comprovare alcunché in forma d’ipotesi, accordando, in grazia dell’analogia, la conclusione: che, se tutte le molte conseguenze, quali mai si poterono imputarle, non che inquirire, s’accordano benissimo con una ragione ammessa, dovranno esserle coerenti anche tutte le altre possibili. Per la qual cosa non può mai essere che a trasformarsi venga, per questa strada, in verità dimostrata un’ipotesi. La maniera escludente (modus tollens) delle conclusioni razionali, quella, cioè, che dalle conseguenze conchiude le ragioni, prova con tutto rigore non solo, ma è anche la più facile di tutte. Conciossia che basta, in tal caso, che anche una sola conseguenza erronea possa essere cavata da una proposizione, perché si dichiari
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falsa ed erronea la stessa proposizione. Ora, invece di tutta quanta percorrere la serie delle ragioni di un argomento dimostrativo, la quale possa guidarne alla verità di una cognizione, mediante la piena ed intima conoscenza della di lei possibilità, non si ha bisogno che di scovrire falsa una sola delle conseguenze, che fluiscono dal relativo contrapposto; ché in tal caso è pure falso il contrapposto ed è vera, per conseguente, la cognizione, che ne incombeva di provare.
Ma il genere apagogico d’argomentare può essere unicamente per messo in quelle scienze, nelle quali è possibile insinuare il subbiettivo delle nostre rappresentazioni sotto l’obbiettivo, il, cioè, supporre la cognizione di quanto si trova nell’oggetto, Solché, prevalendo quest’ultima circostanza, dee accadere, per lo meno di spesso, che la contraria di
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una certa qual proposizione o ripugni semplicemente alle condizioni subbiettive del pensare, non però all’oggetto, o che le si contraddicano vicendevolmente ambedue, sotto alcuna condizione subbiettiva, che venga falsamente reputata obbiettiva. Nel qual caso, essendo falsa la condizione, possono essere insieme fallaci le due proposizioni, senza che sia quindi lecito conchiudere la verità dell’una dalla fallacia dell’altra.
La surrettizia, or ora indicata, circostanza non è possibile nelle matematiche; ed è perciò che si addicono a queste, meglio che altrove, le prove in discorso e le vi hanno propriamente il lor posto. Nella fisica, dove tutto è fondato sopra visioni empiriche, può il detto prestigio evitarsi, mediante il confronto reciproco di copia d’osservazioni: oltreché vi è tuttavia
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e per lo più di poca importanza il detto genere d’argomenti. Ma i tentativi trascendentali della ragione pura vengono tutti istituiti nel vero centro, per così esprimermi, della illusione dialettica; volendo con ciò dire, del subbiettivo, cui offre, anzi prescrive assolutamente, nelle di lei premesse, la ragione, all’obbiettivo. Ora, per ciò che risguarda le proposizioni sintetiche, non è costì lecito per nulla che taluno avvisi giustificare le proprie asserzioni, solo confutando le contrarie. Imperocché o non è altro questa confutazione fuorché la semplice rappresentanza del contrasto fra l’opinione contraria e le condizioni subbiettive della comprensibilità, risguardo alla ragione dell’uomo: ciò che né aveva punto che fare costì, né da contribuire a che fosse rigettata l’asserzione (in quel modo, a cagion d’esempio,
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che non può essere da noi per nessun verso conceputa, nell’esistenza di un essere, l’assoluta necessità e ch’ella ben si oppone quindi subbiettivamente con ogni buon dritto a qualunque argomento speculativo intorno ad un ente supremo necessario, ma la si opporrebbe a torto alla possibilità di un tal essere originario per sé medesimo). O che, dal prestigio trascendentale deluse, ambedue le parti, sì l’asseverante, cioè, che la impugnante, pongono a fondamento un concetto impossibile dell’oggetto; ed, in questo caso, ha valore la regola, che stabilisce, ai non esseri non competere attributi (non entis nulla sunt praedicata). Voglio dire, essere ugualmente ingiusto e falso tanto ciò che, affermando, quanto ciò che, negando, sostenevasi intorno a tale oggetto e non potersi giungere apagogicamente (in modo suppositizio) alla
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cognizione della verità, mediante confutazione della sentenza contraria. Così, ove si presupponga, per esempio, essere dato per sé stesso il mondo sensibile nella sua totalità, gli è ugualmente falso ch’egli debba essere infinito, secondo lo spazio, come che debba essere finito e limitato, ed è, per conseguente, falso l’uno e l’altro. Imperocché le apparizioni (come semplici rappresentanze), che fossero tuttavia date per sé medesime (come oggetti), sono qualche cosa d’impossibile; e la infinità di un cotal tutto immaginario sarebbe assoluta, nel vero, ma ripugnerebbe (a motivo che tutto è condizionale nelle apparizioni) all’assoluta determinazione quantitativa, che viene tuttavia premessa nel concetto.
L’argomentazione apagogica in oltre costituisce la vera illusione, che ha sempre adescati e delusi gli
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ammiratori della solidità dei nostri dogmatici, argutamente raziocinanti. Essa è, per così dire, il campione, che vuole ad ogni patto sostenere la gloria e difendere il dritto irrevocabile del partito, cui prese a proteggere, col solo mostrarsi presto ed impegnato a cozzare con chiunque avvisasse porre in dubbio quella gloria e quel diritto. Vano bensì che tale iattanza non decide nulla rispetto alla cosa, ma solo rileva la forza comparativa dell’avversario; ben inteso che anche in ciò essa non decide se non rispetto a quella fra le parti, che si muove all’attacco. Vedendosi dagli spettatori come sì l’una che l’altra delle parti combattenti, ora è vincitrice ora vinta, prendono essi da questo sovente occasione, per cui dubitatore scetticamente intorno all’oggetto medesimo della controversia. Del che non hanno questi
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motivo; anzi basterebbe gridassero a quelle:
Non fanno più per noi tali avvocati(1)
E dee ciascheduno trattare la propria causa direttamente, voglio dire, con argomento ben condotto e mediante alcuna deduzione trascendentale delle di lui prove; acciò si rilevi cos’abbiano da, per sé stesse, addurre in campo le sue pretese di ragione. Imperocché, se il di lui avversario si pianta su argomenti subbiettivi, gli è facile, senza dubbio, il confutarlo, ma senza costrutto pel dogmatico; il quale già d’ordinario propende altrettanto per le ragioni subbiettive del giudizio e può essere ugualmente ridotto alle strette dal suo competitore. Procedendo
(1) Non defensoribus istis
Tempus eget.
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invece direttamente ambedue le parti, o ch’esse rileveranno di per sé la difficoltà, se non anzi l’impossibilità, onde il titolo cavar fuori delle loro asserzioni, e non potranno che finalmente appellarsi ad una prescrizione (proroga); o che non durerà guari fatica la critica né ad iscoprire il prestigio dogmatico, né a costringere la ragione pura, perché dalle sue troppo indiscrete pretese decampi, nell’uso contemplativo, e la si ritragga entro i confini del terreno di sua vera proprietà, voglio dire, perché la si occupi delle massime pratiche (della morale).