I. Della differenza tra la ragione pura e l'empirica
II. Del possedersi per noi certe cognizioni anteriori ad ogni senso ed esperienza e del non andar mai digiuno di queste neppure il volgare intendimento
III. Del bisogno che ha la filosofia di una scienza che stabilisca la possibilità, i principi ed il complesso di tutte le nozioni preconcepute
IV. Della differenza tra i giudizi analitici ed i sintetici
V. Dei giudizi sintetici a priori, come inerenti a tutte le scienze teoretiche della ragione
VI. Problema universale della ragione pura
VII. Idea e divisione di una scienza particolare, sotto nome di Critica della ragione pura
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All’elogio degli autori, cui è stile, in questa collezione, premettere, mano mano che se ne riproducono le opere, rispetto a Kant, vengono sostituiti questi cenni sulla di lui vita, che, dedicata intieramente alle meditazioni metafisiche, altra quasi non offre materia biografica, tranne intorno agli scritti, che furono il risultamento di quelle meditazioni. Il perché se le opere, per le quali fecero copia de’ lumi loro al pubblico i grandi scrittori, costituiscono la fonte principale degli elogi, onde
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fa loro tributo la pubblica riconoscenza, ciò è specialmente rispetto a Kant, non ostante che le di lui fatiche tendessero meno ad aumentare, che a riformare le scienze speculative, massime la metafisica. Quindi è che, per inferirne ragionamento che avesse forma d’elogio, né basterebbe annoverarne come sono per fare gli scritti, né vi si potrebbero annunziare scoverte o ben determinare i passi, che avess’egli fatto fare alla scienza; come quello che tolse piuttosto a ristrignere, che non a estendere le cognizioni dell’uomo, anzi l’attitudine del suo intendimento a farne tesoro. E non è ancora ben definito, né si può, che previo esame competente delle opere, definire, se questo vantaggio negativo ridondi, e quanto, com’egli asserisce, di positiva utilità. Dissi competente, volendo alludere all’essere sì quest’esame, che il giudizio consecutivo,
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devoluti a uomini già in tali materie ben altrimenti versati, che non credo poterlo essere chi ebbe a dedicarsi a tutt’altra professione. Che anzi credo qualmente, lungi dall’invogliare a prendere cognizione de’ suoi argomenti, chi si esibisse a provare metafisici di loro natura i medici, muoverebbe sospetto come ch’ei non fosse né l’uno né l’altro. E ho già indicato, sì non essere fra di noi conosciute per avventura quanto basta, onde giovarsi de’ giudizi altrui, le opere di Kant, sì non essere imparziali quei giudizi, de’ quali sarebbe ovvio non che facile giovarsi. Il perché tale critica (ed è la chiave delle altre opere filosofiche di quest’autore, se non lo è anzi d’ogni scienza filosofica, siccom’egli avvisa) riescirà più presto nuova riprodotta in Italia, pei molti almeno che non possono attingere direttamente
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alla fonte. Giacché nella versione latina, come ho notato nella prefazione, il Prof. di Gottinga, colla migliore intenzione del mondo per tutto l’opposto, non fece che aggiungere alle difficoltà e scurezze dell’originale; quand’anche non già imbarazzante per noi la latinità degli alemanni, atteso che, trasportandovi, senza forse avvedersene, la sintassi teutonica, rendono spesso impossibile il ben comprenderli a cui non sa quanto e in che differisca tal sintassi dalla vera latina. Il che bastando a giustificazione del surrogarsi al solito elogio i cenni che sono per aggiungere sulla vita e le opere del nostro filosofo; e siccome, non ostante il già detto, questi cenni contengono un succinto analitico delle metafisiche, debbo quindi prevenire avere desunto quel succinto, benché per seconda mano, da quanto ne scrisse da pochi
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anni (1812). Reichart in una specie d’Almanacco scientifico, abbastanza noto sotto nome di Urania.
Manuele Kant nacque il 22. Aprile 1724. a Conisberga, capitale della così detta Prussia reale, e pare da genitori di men che mediocre fortuna; giacché avvertono i primi suoi studi essere stati diretti alla teologia, per ristrettezza di circostanze. Nulla più sappiamo di questi studi, sin oltre il trentesimo anno dell’età sua (1754), quando lo si annunzia maestro accademico, vale a dire di quellino, che danno a prezzo lezioni private; giacchè non fu che nel 1770, quando ebbe incarico di Professore di Logica nella patria Università, nel quale incarico durò sin che visse. Come quella che non ha mestieri di essere avvertita, ommetto la sola cosa che ci si dice di sua gioventù, vale a dire ch’egli era inclinatissimo
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a investigare e riflettere. Ma non ommetto la pretesa di alcuni, ch’ei fosse rachitico; poiché circostanza, che troppo s’accorderebbe, nel caso nostro, coll’osservarsi d’ordinario attivissime non che precoci le disposizioni di spirito nei rachitici. È però circostanza, che sarebbe in contraddizione colla quasi longevità di Kant; il quale non fu lontano che di mesi dall’età ottuagenaria, avendo egli cessato di vivere il 22. Febbraio 1804. Se non rachitico, era egli però sì meschino della persona, perché i biografi asserissero non aver mai esistito al mondo uomo di lui più piccolo e magro: onde l’arguto se non affatto giusto proverbio, che udii più volte in pochi dì a Conisberga: niuno essere mai stato più asciutto di Kant sì dell’anima che del corpo. Ed è giusto se risguardi al nobile contegno di sue maniere, alla
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precisione più che ristrettezza del suo discorso, e all’aver egli vissuto, se non rinchiuso affatto in se stesso, certo senza mai allontanarsi che di raro e ben poco dal paese nativo; giacché assicurano che il suo maggior viaggio fosse a Pillau, quindi non più distante di sette leghe. Del resto la fronte del nostro filosofo è stato modello, per l’ampiezza delle dimensioni, e pelle sì pronunziate protuberanze anteriori, alla craniologia di Gall, quando sotto quelle protuberanze riponeva gli organi della finezza e speculazione metafisica. E ho veduto nell’atrio del maggior tempio di detta città il busto di Kant in marmo di Carrara, opera di Schadou(1)
(1) La Cattedrale di Conisberga è nello stesso tempo la Chiesa dell’Università; ed essendo state inumate in quell’atrio le spoglie
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dove, rilevando appunto spaziosa, ed elevata sopra un naso profilato la fronte, mi si aggiungeva, come non ugualmente ben espresso dallo scalpello, che gli occhi avesse inoltre chiari, fulgido lo sguardo e serena la fisionomia. Bensì che dal naso in giù è alquanto rozzo l’aspetto, e s’accorderebbe, o non contraddirebbe almeno, a quanto ne dicono di sua benché scarsa divozione a Bacco, e del blandire che per lui si facesse alla gola, quantunque più cercato che non cercatore di buoni deschi.
Ciò però non tolse ch’ei fosse ameno quant’altri mai, quindi caro
di Kant, vi fu esposto solennemente il detto busto il 22. Aprile 1811. con divisamento di ogni anno rinnovarvisi con eguale solennità la consacrazione di quella Stoa kantiana.
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e ricercatissimo nelle conversazioni e case più cospicue, sia per la purezza dei costumi e la elevatezza dello spirito, sia per l’interesse de’ suoi propositi e per la vivacità con che agli altrui propositi replicava. Oltrechè, trovandosi di brigata, usava divertirla con racconti e novellette assai piacevoli, e sapeva sì ben condire il discorso della suppellettile, che lui somministrava l’immensità di sua lettura, che fu egli tra’ pochi certamente dei quali può dirsi, che si odono volentieri a parlar soli. Se altro poi, oltre tutto questo, poteva renderlo generalmente accetto e desiderato, ciò fu per avventura l’interesse che soleva prendere, assai maggiore che non si crederebbe, alle novità del giorno, come quello che vaghissimo era dei pubblici fogli scientifici non meno, che delle gazzette ordinarie. Che anzi prendeva diletto
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a fantasticare non solo, ma predire con fondamento di ragione i più importanti fra i pubblici avvenimenti; e molto compiacevasi nel dimostrare altrui di avere indovinato; locché dovette mancare assai di raro alla squisitezza di sua penetrazione. La mercé delle quali prerogative, anche prima che lo si chiamasse, come ora generalmente, il filosofo di Conisberga, vi era Kant l’ornamento e l’anima delle migliori società: ed è grande argomento contro coloro, che avvisano misantropica essere la filosofia, e non guari compatibili colle delizie della vita i suoi studi, se non anzi per avventura esclusivi di ogni socievole comunanza. Né preferiva egli già o solo dedicavasi alle più distinte brigate, come quelle ove tanto brillava; poiché non ebbe a schifo i crocchi di confidenza, e non trascorreva sì facilmente una sera, in
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che avesse rinunziato alla partita sua favorita dell’ombretta,
In stuol d’amici numerato e casto(*).E soleva dire questo essere onesto passatempo non pure che l’unico e sicuro mezzo, per cui dalle meditazioni alleggiare lo spirito, e lena conciliargli a ulteriori fatiche. Ché il quasi contrasto di profondo e sublime, nel suo, non fu già ostacolo a che il di lui carattere vestisse una pressoché popolare dimestichezza; come né questa impedì ch’ei si mantenesse ognora dignitoso anche nel tenore ordinario della vita o in benché scherzevoli propositi: e non fu mai verso che ne decampasse anche nella foggia del vestire, cittadinesca sì ma sempre
(*) Parini Ode alla musa pel Sig. March. Febo d’Adda.
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pulita e nobilmente attillata. Né mai fu chi lui presente, meno poi contro di lui, si attentasse con espressioni alquanto libere o col menomo atto indecente o sconcio: quasicome il cospetto dell’uomo, ch’era nello stesso tempo il più spiritoso e il più profondo pensatore della città, le recasse onore non solo, ma fosse norma e freno ai cittadini; ciò che non può dirsi egualmente di Socrate rispetto agli Ateniesi. Se poi, oltre alla costumatezza e sociabilità, poniamo mente alla nuova direzione, cui egli diede allo spirito umano e alle tendenze del medesimo; se badiamo ai mezzi e alla forza, con che il moderno filosofo provocò la più salutare delle rivoluzioni nel regno della filosofia; se riflettiamo ch’ei sgomberò e rese libera la strada del vero ai pensatori che verranno dappoi; e se consideriamo la immensa vastità e comprensione
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di un uomo, che non si dipartì mai dai propri focolari, gli è giuoco forza convenire tal uomo appartenere non più alle diacciate paludi del Baltico, di quello che all’Europa, e all’umanità.
Poiché mi dilungai, senza quasi volerlo, dal proposito di astenermi dagli encomi (come si può egli, favellando dei grand’uomini?), ne farò ammenda, osservando, rispetto alla coltura, che il nostro Manuele non esercitò punto, anzi non ebbe forse in pregio, le arti belle; e, rispetto alla vita sociale, che mai non soddisfece a uno de’ suoi obblighi principali, quello cioè di ammogliarsi. Di che si cerca escusarlo, quasi che si trattasse di cose che straniere fossero a chi è tutto ragione contemplativa; quantunque la scusa non s’accordi colla cura, cui parve riponesse in accumulare quante può un filosofo ricchezze, se vero
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è ch’ei lasciasse, morendo, un podere di qualche rilievo. E lo poteva di leggieri, affaticando, siccome fece, anche dappoi l’esercizio pubblico della cattedra, nella pratica delle private lezioni; trovandosi anzi abitare abbastanza vasta città, onde gli fosse mestieri affaticare assai meno, poiché non gli occorreva di provvedere che alle bisogne di sé solo. Il che potrebbe inoltre non accordarsi colle assicurazioni di chi pretende ch’ei non fosse né tampoco proclive all’avarizia; come a difetto che, occupandolo di soverchio nelle dette lezioni, e in concorso delle brigate geniali, dei banchetti e del tavoliere, avesse defraudato di ore preziose gli emolumenti della scienza. Con ciò sia che trovo qualmente Kant leggeva sì della mattina che del dopo pranzo, quantunque più d’ordinario prima; che solo si concedeva una tregua di
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venti minuti da una lezione all’altra; e che, mentre interpolatamente insegnava etica, dritto naturale, antropologia, fisica e geografia, non erano che la logica e la metafisica le scienze per lui dettate pubblicamente dalla cattedra. La qual copia e varietà di, spesso promiscuo, insegnamento proverebbe la di lui memoria non dovesse aver limiti; mentre appunto pretendono combinarsi assai di raro siffatta dote colla somma finezza e perspicacia d’ingegno, e con quella vivacità d’immaginativa creatrice, cui dicono genio. Compagna fedele della memoria, nei letterati, l’erudizione rendeva straordinariamente interessanti le lezioni del nostro professore, quelle massime di geografia fisica; essendo state le quali raccolte, indi promulgate, per uno de’ suoi uditori, e rese volgari anche fra noi, fanno ampia testimonianza di quanta fosse la suppellettile
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ch’ei v’introduceva di storia, viaggi, aneddoti, biografie e altre notizie, che tanto nelle di lui mani arricchirono questo ramo del sapere. A onore di cotal forza di memoria, e quasi a maraviglia, recano i biografi l’attitudine, di questo maestro, a dire dalla cattedra senza giovarsi quasi mai del sottoposto quaderno, e così esporre all’improvviso e con precisione copia di nomi, di citazioni, di epoche, inserendo nel discorso quanto gli somministrava d’interessante o di nuovo una lettura senza confini e cui nulla poteva stancare. Tale attitudine però non è altrimenti nuova né maravigliosa nelle Università d’Italia: e non ha guari che sarebbe stato inutile non solo, ma disdicevole il quaderno ai corifei di questa pavese; la quale ne impone tuttavia colla ricordanza di quando poteva dirsi di loro
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Parlano un suon, che attenta Europa ascolta(*).
La sola geografia fisica indicherebbe, il sapere di Kant, anziché limitarsi ai cancelli della logica e metafisica, estendersi profondamente a quanto non pare quasi possibile che umana mente abbracciasse. Il perché, prescindendo eziandio dalle scienze filosofiche, non solo era egli reputato qual dotto di prim’ordine, dove non si è poi tanto corrivi nell’accordare tal nome ai coltivatori delle scienze; ma fu quasi oracolo degli altri dotti, suoi nazionali. I primi scrittori d’Alemagna infatti arrogavansi a debito e pregio di, non sì tosto pubblicate, le opere trasmettergli, come se per consultarne il giudizio. Bensì che, in luogo dei soliti rendimenti
(*) Invito a Lesbia.
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di grazie, frammesse a usura d’encomi, soleva Kant riscontrare e rimunerare i donatori con lunghe dissertazioni su qualunque si fosse l’argomento. Tali, di vero, le risposte ch’ei fece a Soemmering e Hufeland, quando il primo gli offeriva il suo Saggio sull’organo immediato dell’anima pensante; e l’arte di prolungare la vita il secondo, accompagnando il dono coi voti, perché tal opera valesse ottenere lo scopo, rispetto a quella del primo filosofo del secolo. Nella dissertazione di riscontro e ringraziamento al professore di Monaco, e che fu premessa da questi alla seconda edizione del suo Saggio, non saprei se più per dare o riceverne onore, espose il Conisberghese, con una delle più seducenti e ingegnose ipotesi, una speciale operazione chimico-dinamica nella secrezione sierosa dei ventricoli del
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cervello. Ponendo mente alla qual ipotesi, e alla prima di tutte le opere di Kant sulle forze vitali(*), non mal si apporrebbe chi ravvisasse in esso il primo fondatore del dinamismo fisico in Germania. In
(*) Pensieri sulla vera estimazione delle forze vitali, promulgati nel 1746., quando l’autore appena passava i quattro lustri; locché proverebbe fossero tutt’altro che teologici i primi di lui studi, siccome asserii dapprincipio, fidando ai biografi, che non avvertono com’ei ne fosse disertore sì di buon ora o con tutt’altri li dividesse; giacché non vedo come gli studi teologici potessero scorgerlo a quello della vita, e delle sue forze. Bensì vedo in quei pensieri e più ancora nella dissertazione al Soemmering i primi tentativi pei quali accomunare la fisiologia e patologia umorale colle solidistiche, richiamando cioè di bel nuovo gli umori a dividere, se non altro, coi solidi l’impero attivo della vita; come altri vi traviserà per avventura una qualche traccia o tendenza di materialismo.
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una infatti delle più recenti patologie di quella nazione(*), oltre i principi del dinamismo in generale, trovo desunte manifestamente da Kant sì la vitalità inerente agli umori animali, sì la teorica delle funzioni. Trovo anzi le parole non che il senso di Kant, non citato, nella teorica sulla digestione, ove la si fa consistere in una specie di particolare fermentazione dinamica degli alimenti coi succhi gastrici, e si avvisa esercitarsi negli organi gastrici non solo il processo vitale, ma sì pure comunicarsi da questi ai sughi suddetti(**). Fu pure Kant
(*) Hartmann, Pathologia dynamica.
(**) Se diversa è di fatto la fermentazione gastrica da quella, cui subiscono i cibi, esposti all’atmosfera, frammessi di fluido acquoso, e fomentati dal calore, condizioni che s’incontrano egualmente nello stomaco, bisogna inferirne altre condizioni esistere
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che insegnò dichiarare, coll’applicazione di tale di tale teorica, la diversità
nell’organismo vivente, le quali valgano produrre quella diversità nell’effetto. Ora tal condizione consiste nella mescolanza degli umori gastroenterici, considerandoli però come conduttori e partecipi essi medesimi della forza vitale, perché sieno atti a quindi comunicare alla massa digeribile sì la nuova suscettività organica omogenea, sì la stessa vitalità; e dicono a un di presso che colla pila di Volta rispetto alla corrente elettrica. Non è altronde chi possa immaginare il ventricolo essere prodotto degli alimenti che riceve; giacché ricevendoli e digerendoli deve di necessità preesistere ai medesimi. Tutti però credevano, e pareva naturale che, siccome dallo stomaco, dopo intrommessi nel medesimo gli alimenti, proviene il chilo e da questo il sangue, così altro non essere il chilo e il sangue, tranne il cibo così trasformato: nel qual caso il ventricolo altro non sarebbe che il ricettacolo, o tutt’al più un fornello particolare, entro cui fermentassero per se
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dei prodotti vegetabili sul suolo medesimo, quantunque vi assorbiscano gli stessi umori, la stess’aria, lo stesso ossigene, in somma gli stessi elementi. E trovò ch’egli offrono tuttavia risultamenti fra loro differenti, perciò che ai detti elementi, ch’ei chiama obbiettivi,
stesse le materie digeribili e si riducessero in chilo. Kant rileva, con altri, nel chilo due elementi, gli alimentari e i gastrici; ma questi ultimi distingue più che non si faceva, in quanto vi discopre una forza efficace, che li costituisce organi più digestivi che non erano in senso fisiologico gli stessi organi gastrici; e trova che senza questa forza non si avrebbe mai risultamento di chilo. Facendo inerente agli organi d’assimilazione (come sarebbero le ghiandole del mesenterio, il fegato e i respettivi umori) una forza consimile, rispetto alla trasformazione del chilo in sangue, sarà facile arguirne la teorica della sanguificazione.
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que’ vegetabili vi aggiungono e frammettono del proprio i subbiettivi; avendo ciascheduno uno stampo dirò così particolare, una forma plastica diversa, e una maniera specifica di elaborarsi: stampo, forma e maniera, che, se nol costituiscono affatto, corrispondono per lo meno al conato formativo, nel linguaggio dei fisiologi, tanto zoonomi quanto botanici, che vennero dappoi. E lo stesso può dirsi del succo dei fiori, che altro diventa secondo che venga elaborato da una farfalla o da una pecchia; non essendo già miele bello e fatto il succo attinto dalle api ne’ diversi fiori, e anche in tali da sembrare tutt’altro che dolci al palato più squisito. Egli è adunque nella mente di Kant che il dinamismo, quello almeno delle funzioni assimilatrici degli esseri organizzati, fu ridotto alla legge o necessità di concorrenza
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degli elementi somministrati dal di fuori coll’azione vitale, o con date condizioni vitali e organiche sì dei fluidi che dei solidi. La qual dottrina, se tende per un verso, come notai, a far che rivivano in patologia le viete ipotesi umorali, non lascia per l’altro quanta pare abbia influenza, massime e appunto dinamica, sui diversi prodotti, sulle diverse assimilazioni, e sulla vita medesima, la diversa indole degli agenti ed elementi obbiettivi. Ciò non di meno colla sua teorica delle facoltà originarie, della disposizione insita e delle forme attive dei corpi organizzati, avrebbe Kant già trasportato, egli medesimo, il trascendentalismo nella fisiologia sì degli animali che delle piante. A questa fisiologia trascendentale spetterebbe ora il rilevare cosa è veramente che nello stomaco p. e. rende la digestione un cambiamento
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di chilo; il che rilevando rispetto sì a questa che, analogamente, ad altre funzioni, essa ne svelerebbe, come se assistito avesse ai misteri della formazione organica, i principi efficienti e le vere facoltà, che ripose nella medesima il protomaestro dell’universo, perché se ne compiano i destini. Ora ciò, che dico dell’organo digestivo, è quanto imprese Kant a svelare nell’organo del sapere, supponendone alimento le impressioni sensibili, riconoscendo insite in quell’organo facoltà effettive, condizioni, e forme comunicabili al detto alimento, e deducendone risultamenti analoghi a quelli del chilo e del sangue nelle cognizioni circolanti, sarei per dire, l’angiologia dell’umano intendimento. Spinse anzi più oltre la cosa, investigando le modificazioni, che l’organo del sapere imprime alle nostre cognizioni; l’influenza
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ch’esso esercita per virtù propria su essoloro; e le leggi e forme, che il creatore avrebbe nascosto nel di lui tessuto, destinandolo a essere umana ragione.
Ma innanzi di passare alle cose metafisiche, debbo compiere i cenni già incominciati sulle altre provincie del sapere, alle quali furono recati per Kant non ordinari tributi o utili pietre a ristorarne o ricostruirne l’edifizio. E non farò che appunto accennarli; trascendendo per legge di brevità le riflessioni che, analogamente alle già fatte, potrebbero inferirsi dagli scritti per lui pubblicati sull’origine probabile della storia, sulle razze differenti del genere umano, sulla teorica dei venti e simili; che, come tutte le opere di quest’autore, sono contraddistinte col marchio di non mai frivola originalità, d’imperturbata e profonda meditazione, e del
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mirare unicamente ai vantaggi della scienza e dell’umanità, non occupando egli mai di se stesso il lettore, alludendo assai di raro ad altri scrittori, e non mai con oblique tendenze. Così fra’ suoi opuscoli di geologia e astrologia, trascendo la storia del terremoto del 1755, il trattato dei volcani della luna, e quello intorno all’influenza di questo pianeta sulla temperatura dell’atmosfera terrestre; i quali trattati hanno pure fornito materia, quantunque più speciosa che utile, a qualche eziologia. Ma non posso tacere della sua storia naturale del mondo e teorica celeste sui principi neutoniani, opera piena di arditi e nuovi pensamenti, ch’ei commetteva al pubblico dell’età di 30 anni (1755), e nella quale è conghietturata l’esistenza di più corpi celesti oltre la sfera di Saturno, ben cinque lustri avanti che i nuovi
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telescopi di Herschel iscoprissero nell’immensità di quegli spazi Urano. Ed ecco in qual modo la penetrazione di Kant superò, entro le pareti del proprio gabinetto, le indagini sulle più eminenti specule e gli occhi armati con insolito artifizio, e come precesse lo scoprimento non pure d’Urano che di altri corpi celesti. Aveva egli osservato essere costantemente eccentriche le orbite dei pianeti maggiori, e di tanto più pronunziata eccentricità, secondo che più lontane le stanze loro dal sole. Così essendo meno eccentrica di tutte l’orbita di Mercurio, aveva notato esserlo alquanto più quella di Venere, poi quelle del nostro globo e via via di Marte e di Giove, sinché più di tutte lo era l’orbita di Saturno. Avendo poi rilevato essere ancora maggiore la eccentricità delle comete, che già considerava per altrettanti
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pianeti, si confermò in tale pensamento, rilevando la eccentricità loro essere, ugualmente che quella dei pianeti, diretta in ragione della distanza loro dal sole. Il perché si convinse che tutti i corpi celesti aggirantisi allo intorno di quel centro comune, da Mercurio sino alla cometa più remota, fossero tutti pianeti, e tutti appartenessero al sistema solare. Dopo di che paragonando l’orbita della cometa eccentrica meno, della più prossima cioè a Saturno, colla di lui orbita, come la più lontana conosciuta in que’ tempi, rilevò da tale confronto una diversità e distanza troppo sproporzionata, perché non potess’egli starsi contento neppure alla possibilità di salto e vuoto così smisurato fra i due corpi celesti summentovati. Stabilì pertanto e predisse, che fra Saturno e la cometa più vicina dovevano
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avvolgersi diversi altri corpi planetari, la eccentricità dei quali crescesse via via per gradi, sino a incontrare un astro, il cui andamento partecipasse a quelli sì dei pianeti che delle comete(*). Dal che risulta avere Kant non solo prevista la scoperta di Herschel; ma il suo pensamento essere stato più vasto e più direi quasi ragionato che la scoperta medesima. Non oso asserire, come rispetto ai dinamisti, essere stato l’astronomo fatto accorto e quasi guidato dal filosofo a solo realizzarne la predizione; ché troppo se ne mostrò quegli colpito dappoi lo scoprimento, per non asserirlo. La qual cosa ove pur fosse, non ha però mancato chi scoprì Urano, col soccorso dei telescopi,
(*) Pag. 17. di detta opera: ediz. del 1799, e Villers nella prefazione.
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di farne quanto più poteva merito e onore allo scopritore speculativo.
Venendo alle opere metafisiche, a cui rifletta, nel 1771, avere l’accademia di Berlino proposto a quisito lo stabilire i caratteri dell’evidenza nelle scienze metafisiche; il premiato al concorso con Kant, essere stato Mendelson; di lì a dieci anni, precisamente (1781), pubblicata la critica della ragione pura; e questa vertere da capo a fondo sull’opposto quisito, se mo sia possibile una metafisica; dubiterà verificato in quest’opera il facit indignatio versus d’Orazio. Ma se per un verso, dominava di fatto a quei tempi, nella capitale del gran Federico (e non ha per anco ceduto affatto al teutonico), lo spirito filosofico dei letterati suoi cortigiani, così che si ebbe a dire essere quella un’accademia francese
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nel bel centro d’Alemagna; ond’è che una tale accademia non poteva non voglio dire, con altri, comprenderlo, ma solo decidersi, come decise il pubblico, poiché ne fu promulgata la dissertazione, a favore di Kant; per l’altro verso tutti ripetono la critica della ragione pura essere il frutto di venti anni di meditazioni su quante furono metafisiche al mondo; e risguardo al filosofo ebreo, che riescì vincitore al concorso, ben se ne confutano in tal’opera gli argomenti, non però di quelli che avessero stretto rapporto col quisito accademico. Altronde alcuni lampi delle nuove idee di Kant tralucono già dalle di lui considerazioni sul sentimento del bello e del sublime pubblicate sin dal 1764, ed è la sola opera che di lui fosse ridotta per esteso in francese prima del Saggio per un progetto di pace perpetua,
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e dell’idea cosmopolitica di una storia universale; quasi fossero le più confacenti, anche nei titoli, al genio dei nuovi lettori, non ostante che le forse meno apprezzate, fra tutte, nel suolo natìo. Sono più ancora pronunziate le tracce, che delle nuove idee sulla metafisica offre, benché anteriore questa pure al quisito berlinese (1770), la prolusione ch’ei recitò poiché fu eletto professore all’Università; e, sebbene in latino, e pubblicato eziandio negli atti accademici, questo scritto inaugurale fu poco noto o di poco pregio ai dotti d’Europa(*). L’opera che la riempì del suo grido, voglio dire la critica, non comparve che nel 1781; quantunque non ne fu
(*) De mundi sensibilis atque intelligibilis forma et principiis.
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rapido il successo; e già ne disperava il libraio di Riga, che ne assunse l’edizione, poiché se ne serviva di cartaccia e inviluppo, quando gli ne vennero fatte sì numerose inchieste, che gli bisognò replicarla più volte in breve tempo. A questa precessero di poco i principi metafisici della scienza della natura(*), come di poco vi tenner dietro (1783) i prolegomeni a ogni metafisica futura come scienza; e tali principi e prolegomeni possono considerarsi appartenere alla critica della ragione pura, massime i prolegomeni, che ne sono un riassunto analitico. Alla critica della ragione
(*) Villers fa questi principi posteriori alla critica, giudicandone dalla edizione del 1786; ma debbono esserle anteriori, poiché citati, come già di pubblico diritto, nella critica medesima.
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pura ne successero due altre, che, sebbene di soggetto non egualmente metafisico, hanno però tutta l’impronta dello spirito trascendente dell’autore, e costituiscono unitamente il criticismo kantiano. Pubblicò egli la seconda, quella della ragione pratica nel 1788, e nel 1790 la terza col titolo di critica della forza di giudicare, ossia del giudizio; ed è suggello ai preliminari critici delle scienze relative. Oltre le accennate operette sul progetto di una pace perpetua, e sull’idea di una storia universale cosmopolitica, riferisconsi alla ragione pratica, e costituiscono libri di maggior mole, rispetto alle suddette, i suoi Principi metafisici della virtù, quelli del diritto, la Base di una metafisica dei costumi, e la Religione d’accordo colla ragione. Così, oltre le parimenti accennate considerazioni sul senso del bello e del
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sublime, ha specialmente rapporto con quella del giudizio la Base di una critica del gusto, comparsa nel 1787: e non ho accennato che le opere principali di questo altrettanto facile che instancabile scrittore. Così non fosse di quando in quando arido, anzi che no, il di lui stile, o fossero sì fluidi e concatenati che sovente lunghi, a non poterne reggere il senso, i di lui periodi; prescindendo anche dai neologismi, poiché forse indispensabile, al creatore di filosofia nuova, un nuovo linguaggio. E, siccome i suoi sopravvissuti concittadini attestano del tanto più interessanti riescire i ragionamenti cattedratici di Kant, in quanto vi frammentava copia d’illustrazioni, per via massime d’esempi, così credo bene che fluissero questi spontanei dalla prontezza, come dicono, del vasto e a sì gran dovizia
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fornito ingegno; ma credo eziandio che sì questi sì quelle derivassero non meno dall’intimo convincimento di loro necessità. Il perché sarebbe a desiderarsi né foss’egli stato ugualmente largo negli scritti; come quelli che riesciranno per ciò sempre difficili e oscuri a parecchi leggitori che, attesa la somma confidenza nei concetti che andava sponendo, forse nel modo in che gli esponeva, non credette necessario di ricorrere più spesso, che non suole, a quei rischiaramenti ed esempi, né di più a lungo arrestarvisi quando pure vi ricorre.
L’epoca di poco anteriore alle indagini filosofiche di Kant era, come ognun sa, controddistinta dal predominio di un alquanto rilassato eccleticismo, il quale si occupava di perfezionare pezzo per pezzo gli argomenti o l’edificio della filosofia,
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anzi che nel suo tutto e nei suoi fondamenti. E così, non ostante che non basato per anco a dovere il materiale del sapere filosofico, si teneva come certa la riuscita in ogni parte del lavoro, solché i lavoratori si giovassero del metodo dimostrativo delle matematiche, tanta era la fede che vi si aveva in quei tempi. Sotto queste circostanze, avendo l’occhio penetrante di Kant già scoperto il fianco debole del dogmatismo, e dei guazzabugli metafisici delle trascorse età, mediante una quasi notomia di tutti i relativi sistemi; e mosso per avventura dall’arguto setticismo di Hume, imprese a disvelare il motivo della niuna o trista riuscita di tutte le metafisiche, a smascherarle dell’apparenza o larva filosofica, e quindi a investigare se altro mai fosse cammino, che meglio scorgesse l’indagatore filosofo, senza
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risico né di smarrirsi oltre la sfera dell’umano sapere, né di perdere nello stesso tempo di vista la verità. E qui dié prova di straordinario accorgimento nella investigazione filosofica, retrocedendo con essolei sino al vero e solo punto principale, onde poi muovere di bel nuovo all’acquisto di quanto è mai lo scibile, per chi si crede almeno autorizzato giudicarne dalla prima dimanda ch’ei propose a se stesso: Che posso io conoscere, e cosa è ciò che già conosco in origine? La necessità di rispondere alla qual dimanda è quella, che lo scorse a un esame dell’intima convinzione dell’attitudine dell’uomo a sapere o conoscere: dal qual esame, ch’egli chiamò e risguardò qual critica della ragione pura, credette rilevare o premise, come cosa di fatto, la sorgente della cognizione filosofica essere la ragione, onninamente
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disgiunta e libera dalla sperienza. Perciocché insegna egli su questo proposito che il necessario e l’universale sono subbiettivi(*) nel nostro sapere, appartengono cioè al soggetto pensante, non essendo possibile pensare né l’uno né l’altro, come forniti dalla sperienza. Ora dunque la necessità negli umani giudizi, vale a dire la relazione obbiettiva delle nostre idee o rappresentazioni, come quella che è intrinseca di tutti i giudizi universali e necessari, non ha realtà
(*) Soggetto è l’uomo in quanto conosce o giudica, ed è soggettivo quanto gli appartiene. Di due visionari, l’uno vede in ogni cosa un aspetto nero e triste, all’altro le cose medesime rassembrano di colore ameno e ridente. Ora quell’aspetto e questo colore sono subbiettivi; ed è così che ne’ giudizi vi è sempre alcunché di subbiettivo che si amalgama coll’obbiettivo, e costituisce la così detta sperienza degli oggetti.
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od autenticità obbiettiva di cognizione, o non è, ciò che torna lo stesso, cognizione obbiettiva. Dalle quali cose conchiude, riposti essere nell’animo i confini del sapere, o piuttosto lo stesso animo, nell’appariscente attività del medesimo, essere l’oggetto unico della cognizione filosofica.
Or vediamo la via per la quale giunse Kant a siffattamente restrittive risultanze. Cominciando egli dal dividere con analisi filosofica sì ciò che nelle rappresentazioni è devoluto al senso e all’intendimento, sì quanto è inseparabile dallo spirito, venne a distinguere la ragione teoretica o la facoltà di conoscere in sensibilità, come facoltà della visione(*), e in intendimento,
(*) Anschauung. I francesi lo traducono intuizione, vocabolo che mi pare penetri
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come facoltà del pensare; la qual distinzione corrisponde al consistere la stessa cognizione(*)
più addentro nella cosa veduta, che non quello di visione, cui ho perciò data la preferenza, non però quell’altro escludendo. Mi sarei giovato della voce intuito poiché italianizzata da Galilei nel significato di aspetto veduto di slancio, ove però si decampi (e ne priego i lettori), almeno in questa traduzione, dal prendere colla crusca visione per sogno, a rigor di termine, parmi anche in ciò giustificata la detta preferenza.
(*) Conoscere o sapere, nel linguaggio di Kant è qualche cosa di più che percepire e pensare, facendo egli consistere la cognizione tanto nel rapporto delle idee, che ci sono presentate coll’oggetto che ce le presenta, quanto nella riunione loro nella unità di una stessa coscienza. Dove nella percezione gli elementi e le rappresentazioni o sono staccati, o riuniti soltanto per caso e momentaneamente, senza quella connessione assoluta e necessaria, che costituisce,
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in vedere(*) e pensare. Nella visione distingue inoltre la materia dalla forma, quella come offerta da qualunque siasi sensazione, questa come inerente alla nostra medesima sensibilità(**). E con ciò
secondo Kant, la vera cognizione. Si distinguerebbe poi dal pensiero, in quanto esso verte sopra nozioni o rappresentanze, le quali non si riferiscono ad alcun oggetto determinato.
(*) Nel dianzi avvertito significato di visione, come quella cui è d’ordinario riferito, in quest’opera, l’appercepire degli oggetti.
(**) La sensibilità non è nel senso di Kant, siccome in quello di altri filosofi, una facoltà attiva; né le sue modificazioni sono prodotti dell’intelletto, siccome pensava Leibnizio. Ma la sensibilità di Kant è una facoltà passiva dell’anima, che la rende suscettiva di essere affetta e modificata dagli oggetti e di concepirne le idee, a misura ch’essi le trasmettono lor impressioni.
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distingue l’oggetto sensitivo(*) dalle condizioni originarie e indispensabili della visione sensitiva (cioè a dire dallo spazio, dal tempo e dalle molteplici loro determinazioni): le quali condizioni chiama poi forme della sensibilità, oppure oggetti
Così nel senso di Kant è l’intelletto che diventa facoltà spontanea e attiva di per sé: nel che differisce da Locke, il quale faceva dell’intendimento una facoltà passiva, una mera suscettività di cognizioni.
(*) Anche gli oggetti considera Kant in due diverse maniere; quali sono essi per sé medesimi, e quali si percepiscono. In sé stesso l’oggetto è cosa reale assoluta, ma niuno può presumere di qual è percepirla. Tal qual è percepita non è che una apparizione ordinariamente diversa da ciò che è l’oggetto per sé medesimo. Ora la maniera d’essere degli oggetti, indipendentemente da quella in che sono per noi percepiti o ci si rappresentano, è quello che si dice punto di vista o modo trascendente.
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trascendentali(*); comeché solo esistano in noi medesimi, prima ed
(*) Sinché il filosofo considera o giudica p. e. l’oggetto, cui vede rotondo, poter essere angolare, o esistere più nella propria idea che dove lo vede, o essere l’oggetto veduto e il soggetto veggente una sol cosa ec., sinché giudica insomma del modo in che gli oggetti sono, indipendentemente da quello in che li percepisce, il suo modo di vista è come dissi trascendente. Il perché potrebbe dirsi filosofia trascendente lo studio dell’obbiettivo considerato per sé stesso, e sotto questo rapporto non sarebbe trascendente la dottrina delle idee innate, bensì l’altra di Leibnizio, quando supponeva le monadi e l’armonia prestabilita. Sì tosto però che il filosofo giunge a imaginare, la propria maniera di essere potere influire sull’oggetto percepito, in quanto al modo di conoscerlo e giudicarlo, e che cerca nelle sue percezioni distinguere quanto può dall’oggetto procedere, da quanto può esservi aggiunto del proprio dal soggetto, allora le sue indagini e il suo
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indipendentemente da ogni sperienza. Tali condizioni o forme sono quelle, dietro le quali noi ci rappresentiamo il mondo, e quanti sono i suoi fenomeni, che Kant per
punto di vista diventano trascendentali. E sotto questo rapporto lo studio del subbiettivo, in quanto concorre alla rappresentazione, direi quasi alla formazione, degli oggetti, costituisce la filosofia trascendentale. Quindi è che tal nome non appartiene, come non fu di fatto attribuito, che alla critica e al criticismo nel senso di Kant; ritenuto però essere critico il metodo, e trascendentale la dottrina o ricerca di quanto si mette del proprio nella cognizione degli oggetti. Perlocché non più saremmo trascendentali, ma torneressimo a essere trascendenti sì tosto che ne giudicassimo come oggetti per sé stessi. E ho insistito, forse più che non doveva, sulle distinzioni dell’obbiettivo dal subbiettivo, e del trascendente dal trascendentale, perché le mi parvero preparatorie a ben comprendere le opere di Kant.
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essere conseguente a sé stesso, chiama più volentieri apparizioni(*). Perciocché il pensiero, la cui mercé l’intelletto esercita le sue funzioni, consisterebbe nell’atto che riconduce all’unità le varietà delle percezioni, ora nella formazione dei concetti, ora giudicandone, o riferendo le percezioni alle idee o nozioni che vi corrispondono, e ora finalmente raccogliendo parecchie idee sotto un’idea più generale, o, sotto un più elevato e sublime, diversi giudizi. L’intelletto sarebbe quindi la intrinsecamente o per sé stesso attiva capacità di rappresentare, per la quale riduciamo ad
(*) Non però apparenze, come traduce il Sig. Cons. Degerando; allorché trova misterioso ch’elleno ci vengano presentate, che noi le riceviamo, e che non appartengano ciò non di meno agli oggetti.
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una unità quanto vi è di molteplice nel materiale fornito per la sensibilità. In tale accoppiamento poi, che è quello in che consistono i concetti(*) e i giudizi(**), lo stesso
(*) Idee, concetti o nozioni intellettuali valgono, parmi, lo stesso nel linguaggio di Kant; appartengono assolutamente all’intelletto, e ne costituiscono il legittimo impero. Distinguonsi dalle intuizioni o visioni per ciò che le idee contengono in sé medesime rapporti o caratteri applicabili a più visioni, e che nello stesso tempo appartengono a diversi oggetti. Quantunque generalmente astratte quante sono, i kantiani distinguono dalle idee ordinarie le intellettuali pure, in quanto non fornite queste, come le prime, dalle visioni.
(**) Il giudizio è una funzione logica dell’intelletto; la quale consiste nell’accoppiamento di due rappresentazioni, come di attributo a soggetto, ed esprime il rapporto loro vicendevole. Appartengono ai giudizi nella dottrina di Kant sì le cognizioni mediate degli oggetti, sì l’atto che unisce
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intelletto sarebbe legato a condizioni originarie, che l’autore chiama forme dell’intendimento, e sono le categorie d’Aristotile, che si troveranno mirabilmente sviluppate non che precisate in quest’opera. Ora se vero è che noi stessi, mediante le dette forme, sì della sensibilità che dell’intelletto(*), determiniamo
una data rappresentazione a una idea, che la contiene insieme ad altre. Rispetto alla distinzione de’ giudizi in analitici e sintetici mi limito accennare come l’autore sostenga darsene di sintetici a priori, senza dato cioè di sperienza. Tali giudizi passano per una delle più importanti scoverte del criticismo, e sono, se non altro, di tanta importanza in quest’opera, perché fosse premessa, ed esposta nell’introduzione, la teorica respettiva.
(*) Forme della sensibilità o dell’intelletto sono i caratteri costanti, che, in virtù di leggi fondamentali e immutabili, vi ricevono i dati (materia), sui quali si esercitano
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gli oggetti, che ne vengono somministrati dalla sperienza,
le facoltà respettive. Essendo quindi materia della sensibilità (non pura) la materia delle visioni, costituendosi cioè dalle sensazioni la parte materiale empirica di nostre percezioni, ciò che v’ha di fisso, assoluto e necessario in queste, sarà forma o legge della sensibilità. Che tali forme sieno, pei sensi esterni lo spazio, il tempo per tutti, ce ne convince il non potersi concepire oggetto (esteriore) che nello spazio, e niuno (sia dentro sia fuori di noi) che non sia rappresentato nel tempo. La dottrina dello spazio e del tempo dicesi estetica e dimostra esser eglino visioni pure, assolute, necessarie, illimitate, uniche, e primitive della nostra sensibilità: non empiriche cioè, né idee generali, né astratte, nella significazione ordinaria, non essendovi oggetto che le contenga, e onde le si possano staccare; non composte, perché mere circoscrizioni della stessa visione assoluta lo spazio e il tempo parziali; e neppure innate, benché anteriori alle percezioni sensibili
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ne verrebbe di conseguenza, che solo conosceremmo le cose in quanto le ci appariscono, e come già ne
fondate in noi stessi, producendosi esse alla prima occasione di modificazioni sensibili, e realizzandosi colle relative percezioni, senza le quali rimarrebbero visioni vuote e come se non esistessero. In quel modo che le impressioni passive offrono alla sensibilità la materia a esso lei competente, l’intelletto la riceve dalla sensibilità, e tal materia è l’oggetto su cui esso esercita la sua funzione. Consistendo questa in riunire o centralizzare le percezioni, la materia dell’intelletto deve comprendere quanto è destinato a essere insieme riunito in forma d’idee o di giudizi, essendo materia delle prime i prodotti delle sensazioni o le visioni, e dei secondi le stesse idee. Dunque le forme dell’intelletto, come risultanze delle leggi o dell’espressione di sua funzione, consistendo questa in combinare, risolvonsi finalmente in giudizi; e questi forniscono argomento alle accennate categorie.
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trovaressimo obbligati a pensarle, giusta le leggi prestabilite nell’animo nostro, non però come sono, vale a dire non come cose per sé, ma come apparizioni. Sotto il qual rapporto a quella parte del dottrinale di Kant, che risguarda la critica delle facoltà dell’animo(*), fu
(*) Sensibilità, intendimento e ragione sono, in questa dottrina, le tre facoltà che concorrono al grande atto del sapere: e lo spirito umano sarebbe, come dice il Cons. Degerando, un governo, dove la sensibilità rappresentasse i sudditi, l’intelletto i ministri, e la ragione il sovrano; così che la ragione comandi all’intelletto e questo alla sensibilità. E soggiunge a maggiore chiarezza il paragone di un edifizio, di cui fosse architetto la ragione, che, dietro un’ideale suo proprio, disponesse i materiali, che la sensibilità offrisse dispersi all’intelletto, e questi alla ragione, dopo averli ricevuti e raccolti. Perciocché sebbene strettamente collegate, le dette facoltà, in una subordinazione
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dato nome d’idealismo critico, per non dire che altri pretendono tutta
o gerarchia logica graduale, dalla sensibilità, come fondamento, alla ragione come sommità, Kant però le ritiene distinte, sì nelle proprietà che nei rapporti e nelle funzioni. Ho già indicato il senso in ch’egli riceve la sensibilità e l’intelletto, e come stabilisce privilegio di questo il pensiero, l’atto cioè che lo caratterizza intelletto, raccogliendo in un tutto le impressioni sensibili, producendo concetti e giudizi, e dirigendo, anzi formando, le cognizioni della sperienza. Ora la linea di demarcazione, fra queste due facoltà, è quella che parte le cognizioni sensibili dalle intellettuali, e dove la dottrina di Kant differirebbe dalla così detta empirica di Locke, supponendo non questa riconoscere una facoltà attiva nell’intelletto, ma una mera suscettività di idee. Il più alto grado finalmente di uno spirito padrone di sé stesso, e consapevole di sue forze è la ragione, che l’autore fa consistere nella facoltà di dedurre da principi, di conoscere dal generale al particolare,
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quanta la di lui dottrina risolversi in un idealismo subbiettivo(*).
e di sottoporre a unità più elevata, e a leggi primordiali e assolute, quelle dell’intendimento, come segue a dire nel prossimo paragrafo il testo.
(*) Kant parte dalla necessità che tutto quanto accade nella natura sia retto, quindi preceduto, da leggi; e ne inferisce avere le sue anche la funzione di percepire gli oggetti, che sono la materia del nostro sapere; anzi conchiude influire sul medesimo siffatte leggi. E su queste leggi intellettuali prestabilite, osservo per incidente, col prelodato Cons. Degerando, ch’esse nel senso di Kant hanno un valore molto più esteso che non in quello dei filosofi, che ammettono le nostre facoltà svilupparsi dietro le regole dell’attenzione, dell’associazione dei concetti ec., le quali regole sarebbero sperimentali; dove le leggi di Kant esprimono visioni, idee e cognizioni pure. Ora queste leggi, dimanda la critica, le abbiamo noi dagli oggetti, o ci sono esse già inerenti, e non fanno che aspettare l’impressione
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A ogni modo, mentre la critica insegna essere tutte le cose pensate
degli oggetti, per quindi combinare l’azione propria con quella delle dette impressioni? Ommetto, poiché già indicato, che il primo punto della quistione risguarderebbe un punto di vista empirico, e sarebbe trascendentale quello del secondo: e a favore della possibilità di quest’ultimo riferisco, per cui non fossero noti, gli esempi addotti dal Villers, affine di rischiararlo. E sono quelli di una camera oscura, di una pietra incisa, e di tre specchi, uno piano, cilindrico l’altro, e conico il terzo. Il vetro, al pertugio della camera ottica, sia di un dato colore, p. e. rosso, e compariranno rosse tutte le rappresentazioni, che indi si dipingeranno sulla parete; il perché dovendo la camera oscura giudicarne, attribuirà quel colore agli oggetti, dov’esso invece proverrebbe dal vetro, avente in sé la condizione, la legge, la forma universale degli oggetti per di lui mezzo rappresentati. Dotata di sentimento e intelletto la pietra o il sugello, su cui fosse incisa una Minerva,
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in conformità, gli è lo stesso che se dicesse, mediante coteste forme,
ne troverebbe l’effigie in tutte le ostie o cere, sulle quali fosse imposto, e tutte le reputerebbe sotto quella forma esistere, lungi dall’avvertire tal forma essere la legge insita generale di sue percezioni. Per egual modo i tre specchi riceverebbero ciascheduno un’immagine diversa dell’oggetto medesimo; cosicché lo specchio piano direbbe l’oggetto perfettamente circolare; ovale allungatissimo lo direbbe il cilindrico; e iperbolico doppio, con manifestissima divergenza, il conico: eppure l’oggetto in sé stesso potrà non avere nessuna di queste tre forme, come quelle che sono determinate dall’intima struttura degli specchi. Tuttavia ciascuno di questi giudicherebbe giusto, non avendo per oggetto che la propria rappresentazione del medesimo. Se mo l’intelletto, supposto agli specchi, al sigillo, alla camera ottica, avesse in vece degli oggetti studiato sé medesimo, e investigato nella propria natura ciò che può influire sulle sue percezioni, sarebbero
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l’intelletto impor leggi a natura, e consistere in esso loro la teoretica
stati tolti d’inganno tutti quanti, e i tre specchi i quali tacciavano l’un l’altro di visionario, avrebbero evitato le dispute vicendevoli non solo, ma le tante analisi che degli oggetti avrebbero fatto per sostenere ciascheduno il proprio assunto, e avrebbono rilevato come sieno chiare le idee che i filosofi avvisano estorquere dallo studio meramente obbiettivo. Giova intanto conchiudere, qualmente la cognizione, che i dianzi supposti automi avevano degli oggetti, era composta di un’impressione qualunque provegnente da questi, e da quella che ciascheduno informava o mescolava del proprio all’esterna suddetta; il perché da quest’ultima combinazione delle due impressioni risultavano le rappresentazioni tutte rosse, alla parte, le tante Palladi al suggello, e le sì diverse figure ai tre specchi. Ed è precisamente riportando, senza avvedersene, la parte propria delle percezioni agli oggetti esteriori, che la occasionano, combinando cioè gli elementi obbiettivi
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ragione a priori, l’unica filosofica. Di tal ragione teoretica infatti ne fa essa critica una facoltà pensante superlativa, una sublime intelligenza, che tenda e miri colle idee a più assoluta unità. E son queste quelle idee, le quali, sì primigenie che derivate, non hanno alcun oggetto, che loro corrisponda in quanto è vasto il dominio della sperienza, e delle quali non può farsi alcun uso costitutivo, affine di riconoscere oggetti, che ugualmente oltrepassino i confini dell’empirismo e sieno proprio trascendentali. Che anzi, non prima si attenterebbe la ragione di farne l’uso, cui dissi costitutivo in proposito, che si troverebbe avvolta e presso che
coi subbiettivi della cognizione, che si compie, nel senso dei kantiani, ciò cui diciamo sperienza.
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smarrita in quelle contraddizioni, che ha procurato Kant con ogni cura di porre in chiaro colle sue così dette antinomie. Onde conchiude, la ragion pura non contenere in se stessa che principi regolativi ad ampliazione delle nozioni già date, né poter ella spingersi ad altro sapere in generale oltre la sfera della sperienza; ond’è che, dichiarandoli meri concetti, nulla sa dirne di positivo (obbiettivamente vero) né dell’incominciamento del mondo, né della divisibilità della materia all’infinito, né della natura e immortalità dell’anima e della di lei libertà, e né della stessa esistenza di Dio; tutti argomenti, che fino a ora costituirono il midollo della metafisica(*).
(*) La stessa critica, la quale considera la ragione pura, come intrinsecamente
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Ma ciò, cui la critica non consente alla teoretica, lo concede alla pratica, essendo anche pratica la ragione, in quanto atta per sé stessa determinare la volontà e la direzione imprimerle della virtù. Ed
spinta per bisogno naturale a estendere quasi despoticamente il proprio governo in applicazioni reali obbiettive delle proprie idee, sino a creare, come vedremo a momenti, un mondo metafisico, considera poi queste applicazioni come postulati o meri voti e desideri della ragione medesima. E Kant raccoglie con lunga pazienza, e divide gli accennati argomenti per serie di tesi e antitesi cosmologiche o teologiche; non per altro direste che per trovarle ugualmente sostenibili, comeché paradossali; poi si esime dal risolvere le quistioni, dichiarando ch’esse posano sopra una fallace supposizione: che le idee cioè ond’emergono possano avere un valore obbiettivo.
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è mediante la facoltà di questa seconda ragione (libertà morale), che l’uomo tende infinitamente al di là d’ogni sfera sperimentale a una perfezione oltre i confini dei sensi (ipersensitiva): e tale tendenza lo convince della realtà dell’ideale, della realtà di un mondo intelligibile. Perciocché la virtù, cui Kant considera prescritta in forza di una legge di ragione a priori, e intimamente collegata colla felicità, la virtù, costituisce il supremo bene. E per tale combinazione della felicità colla virtù, come che da noi affatto indipendente, se ne inferisce che veniamo costretti ammettere una causa prima; la qual causa non può essere che l’ente perfetto per eccellenza, vale a dire la divinità. Tutto questo però è molto meno sapere teoretico, se pure lo può essere in senso critico, di quello sia una fede pratica
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razionale(*), una filosofia, che fa copia di sé più con utili credenze che non con cognizioni positive sulla morale dell’uomo, e si direbbe ch’ella viene officiosa, onde riempire gl’immensi vuoti, che ha lasciati,
(*) Kant definisce la fede: l’ammettere come vera una cosa in virtù di motivi subbiettivamente bastevoli, obbiettivamente insufficienti. Il perché la dichiara di niuna applicazione agli argomenti speculativi o teoretici, e non avente valore che nella pratica; nella quale diventa la fede un effetto delle condizioni annesse allo scopo cui si prefigge la ragione pratica. Quindi è che la necessità della fede, rispetto alle verità morali, dipenderebbe dalla necessità sì del detto scopo, sì delle condizioni annesse al medesimo. Essendo poi anche provate queste necessità di scopi e condizioni, che andremo tantosto annunziando, si potrebbe sempre dire avere Kant fatto perdere il processo alla fede in prima istanza, per fargliele poi guadagnare in appello.
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nella di lui ragione pura, la severità della critica(*). Ciò non
(*) In quanto non ammette alcun sapere positivo nella sfera trascendentale, ma solo in quella della sperienza, Reinhold aveva già definito il kantismo, un idealismo trascendentale e un idealismo empirico. Ora vedendo come nella ragione pratica cerca esso di appoggiare il valore delle idee a postulati e prove morali, invece di rinunziare qui pure alle prove, e retrocedere alla cognizione immediata della ragione, altri ebbi ad asserire che il kantismo cacciò le idee dalla porta d’avanti dell’edifizio filosofico, affine di nuovamente introdurvele per quella di dietro. La nuova direzione intanto, cui diede Kant alle sue ricerche nella elaborazione della filosofia pratica e religiosa, fondando unicamente sulla pratica la fede in Dio, e deducendola dalla necessità di agire, lo condusse a un egualmente puro che rigoroso perfezionamento dell’etica nel suo più stretto significato, rispetto sì alle idee morali, sì alla legge del dovere ne’ costumi. A questa legge poi
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di meno è critica essa pure l’indagine della pratica ragione, limitata cioè sempre a quelle tali forme originarie dell’intelletto; abbenché si protesti lontana da ogni pretesa non pure che da qualunque applicazione metafisica o speculativa. Il perché, a cui chiedesse come si conoscano dunque in senso critico la ragione pratica e la di lei facoltà? Kant risponde: per mezzo della teoretica, la quale unitamente alla pratica non costituisce che una sola facoltà. Essa è teoretica, prosiegue, in quanto si occupa degli oggetti di nostre cognizioni, sia ch’esse appartengano alle cose naturali o alla speculazione; e divien pratica, ove determina e stabilisce l’esercizio
diede nome d’imperativo categorico, e la stabilì nell’intimo sentimento, cui ha l’uomo della propria dignità.
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di nostra facoltà morale, e ne dirige gli appetiti. Analoga pertanto nel piano a quello della prima critica, questa pure distingue gli scopi della pratica ragione in materiali, che ne vengono dal di fuori, come i piaceri sensuali, e in iscopo formale, che è quello cui ne prefiggiamo noi medesimi; sebbene Kant lo consideri stabilito a priori(*). E così rende, o procura
(*) I due scopi sono la felicità e la virtù, come quelli che risguardano l’uomo nella sua qualità di essere sensibile il primo, e di essere morale il secondo. Dall’accoppiamento poi della felicità colla virtù emerge, come dissi, uno scopo ancor più elevato, quello cioè che la ragione pratica stabilisce come necessario, e dal quale nasce la fede. Perciocché, avendo egualmente stabilito dover la fede ammettere per vero quanto è condizione assoluta e necessaria di uno scopo necessario, e non potendosi mirare
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di rendere necessarie, generali e indipendenti dai sensi, le leggi morali; e imponendo che l’uomo debba farsi alle tracce della virtù per sé stessa, tende per lo meno a una morale platonica, o cerca instillarne ai lettori l’entusiasmo, da cui pare investito: se può dirsi entusiasta lo stoicismo, che rende inflessibile agli adescamenti della
a uno scopo, tranne risguardandolo come possibile, si deve credere a quanto si richiede onde renderlo tale. Divengono poi condizioni necessarie del detto accoppiamento sì l’immortalità dell’anima, che un sistema di rimunerazione dopo la vita, come lo diviene di questo sistema l’esistenza di Dio e de’ suoi attributi. Dal che si vede queste verità non avere valore obbiettivo, come accennai nella definizione della fede, non essere nozioni teoretiche, anzi neppure convincenti, ma cose (come ripete lo stesso Kant) da credersi, a manco di conoscersi.
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voluttà, riponendo come fondata in sé medesima, la legge del dovere. Nella qual dottrina, sebbene primeggi con tutto il vigore, ond’è suscettivo, il senso morale, e oppongasi, quanto può, a un rilassato Eudemonismo, bisogna tuttavia convenire che la virtù, qual è prescritta da Kant, ad altro finalmente non riducesi che alla necessità di rigorosamente agire in conformità e grazia delle leggi sociali. Nel che la ragione pratica di Kant pare avvicinarsi moltissimo alla dottrina dei settici sull’intimo convincimento, non che alle così dette prove di sentimento di alcuni moderni. Che anzi essa non differisce gran cosa neppure dalla maniera volgare di filosofare, per la quale i kantisti affettano tanto spregio; quella cioè che, disperando conseguirne prove convincenti, si attiene alle idee religiose, come a punto
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d’appoggio necessario alla moralità. Così questa critica morale si risolverebbe, come conchiude il Sig. Degerando, nell’energia del più esaltato entusiasmo sotto larva di apparato metodico; non ostante che fosse, come diceva Reinhold un’ala di supplimento, un rimedio all’insufficienza di tutto l’edifizio critico(*).
(*) Le sinistre interpretazioni, che incontrò la prima delle critiche, procurarono all’autore non solamente opposizioni, ma satire, oltraggi, proibizione d’alcuni governi, poco accoglimento da tutti, e dicono eziandio contrasti assai vivi per parte del proprio Sovrano, padre del Re attuale, fomentati forse dalla ostinata contrarietà dell’Accademia di Berlino. Villers per lo meno assicura essere state presentate sotto un falso aspetto al prelodato Sovrano le dottrine del filosofo di Conisberga, sino a indurlo a proibirgli di scrivere, anzi a esigere una specie di ritrattazione delle
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Tali in iscorcio l’architettura e i principi delle due critiche della
cose già scritte; sinché riconosciuto l’errore, decampasse quel principe dal proposito, e cedesse alla modesta fermezza del saggio (e venne pubblicata sotto gli auspici del Ministro di Stato la seconda edizione della critica). Lo stesso autore soggiunge inoltre, che nel suo viaggio alla Capitale della Prussia Reale, il nuovo Re non vi si mostrò punto vago di vedere l’uomo più celebre del suo regno, mentre Alessandro visitò Aristotile in Macedonia e Calano alle Indie. Le quali circostanze intorno alla vita dell’Autore, siccome piuttosto riferibili alle dottrine da lui esposte nella prima critica, le ho riserbato a questa nota, per quello che avessero potuto influire a produrre, qual dissi la critica della ragione pratica. Dopo questo però, e non ostante il calore, con che vi sono predicati la virtù, i doveri e la religiosità, Kant fu tacciato qual idealista non solo, ma quale capo d’illuminati da chi non fu mai degno di tal nome in verun senso; ed
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ragione, come delle due opere principali dell’autore; giacché la terza critica, quella cioè del giudizio, è affatto a quelle prime subordinata; e, anzi che nulla vi aggiunga di essenziale, non fa che abbracciarle ambedue, con quanto solo era necessaria diversità nello sviluppo e nella sposizione, perché ne risultasse un’opera particolare. Così i di lui principi metafisici della scienza del diritto(*) sono uno sviluppo formale delle idee di tale scienza; il quale sviluppo conduce a una morale negativa. L’Antropologia sotto aspetto prammatico(**) è ricca di molta suppellettile d’interessanti
uno de’ suoi scolari più celebri fu rimosso dalla cattedra di filosofia, per imputazione d’ateismo.
(*) Conisberga 1797.
(**) Ivi 1798 e 1800.
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e argute osservazioni sulle scienze le più elevate, onde renderle, si direbbe, di uso volgare. La Geografia fisica e la Logica, pubblicate la prima da Link, da Jahsche la seconda, si assicurano copiate imperfettamente, o scritte come lo si poteva sotto la rapidità del discorso, duranti le respettive lezioni. Ommetto i così detti piccioli scritti (kleine Scrifften), i quali però fornirono materia per tre volumi, in due diverse collezioni(*).
Ciò che si riferisce tanto agli oppositori e alle opposizioni alla critica della ragione pura, quanto, ai riformatori, e alle riforme del criticismo fornirà materia alle annotazioni che saranno aggiunte a questa traduzione. Osservo intanto
(*) Conisberga e Lipsia 1797. Halle 1799 Raccolta di Tieftrunk.
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che la denominazione di critica, sebbene usata in significazione sostantiva, sottintende il nome di filosofia o scienza; e a cui potesse far senso la novità del frontispizio, avverto cogl’interpreti, il titolo dell’opera corrispondere agli usuali di scienza dell’umano intendimento o di filosofia dello spirito umano. Differisce però in ciò, che trattata generalmente, almeno dappoi Nevton e Loke, per via del così detto metodo sperimentale, tale scienza o filosofia, nel senso di Kant, è basata sopra un metodo a priori, fatta cioè astrazione da tutti i dati della sperienza, considerando la ragione quasiché anteriore all’osservazione de’ suoi prodotti, e deducendola da nozioni esclusivamente attinte dal proprio fondo. Ed è in questo senso che alla ragione si aggiunge il predicato di pura, vale a dire teoretica e generale affatto, indipendente
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da ogni uso di sperienza, e fondata su principi noti a lei e per lei sola. Ché ove la ragione poggia sui fatti e da essa deriva, i kantisti la dicono individua, empirica, sperimentale; e chiamano psicologia empirica la scienza o filosofia dell’intelletto o dello spirito umano, trattata e ricevuta col metodo e nel senso ordinario. Nel che si appellano alla distinzione aristotelica tra la teoria e la sperienza, dandosi già da quei tempi nome di scienza o cognizione alla prima, e di empirica alla seconda. Ho già indicato in qual significazione tali nozioni e dottrine dicansi trascendenti o trascendentali, secondo che gli oggetti si considerano indipendentemente dalla maniera, nella quale sono da noi percepiti, o in quanto su loro influisce la nostra maniera di percepirli; in quanto cioè non ci occupiamo degli oggetti,
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bensì del come ne acquistiamo contezza, e cerchiamo di spiegare a priori la possibilità di acquistarla. E siccome lo scopo di Kant era di quindi esaminare e provare la legittimità di ogni nostro sapere, così ha dato al suo metodo nome di critica; ed è metodo nuovo, anche per ciò che finisce precisamente ove incominciano le teoretiche ordinarie. E, quantunque abbia esso tutto l’aspetto di scientifico e dottrinale, pare a Kant non doverselo chiamare scienza e neppure dottrina, ma piuttosto magistero, disciplina, o come sarebbe a dire un laboratorio, in cui l’umano sapere assaggiare, depurarlo, e rettificarne il valore.