I. Della differenza tra la ragione pura e l'empirica
II. Del possedersi per noi certe cognizioni anteriori ad ogni senso ed esperienza e del non andar mai digiuno di queste neppure il volgare intendimento
III. Del bisogno che ha la filosofia di una scienza che stabilisca la possibilità, i principi ed il complesso di tutte le nozioni preconcepute
IV. Della differenza tra i giudizi analitici ed i sintetici
V. Dei giudizi sintetici a priori, come inerenti a tutte le scienze teoretiche della ragione
VI. Problema universale della ragione pura
VII. Idea e divisione di una scienza particolare, sotto nome di Critica della ragione pura
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Se lo studio per cui perfezionare le cognizioni, che sono retaggio della ragione, sia o no atto a battere un sentiero sicuro e scientifico, lo si potrà quanto prima dall’evento giudicare. Perciocché, fino a tanto che tale studio veggiamo arenato e in forse, appena giunti, dappoi gran preparativi e apparecchi, al proposto fine; così ogniqualvolta non è possibile mettere all’unissono i diversi collaboratori, che pur tentano colpire alla stessa maniera nel comun segno, teniamo per fermo che il detto studio, ben lungi dal calcare il cammino sicuro della scienza, non fa che andare
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qua e là tentoni e palpando. Ed è già un merito, presso la ragione, l’adoperarsi a per quanto è possibile aprire siffatta strada; e fosse anche a costo di quindi rinunziare a quanto di vano era già nello scopo, senza la dovuta riflessione prefisso.
Che da’ tempi remotissimi appostasse la logica una via così certa, lo si può da ciò arguire che, dopo Aristotile, non le fu mai d’uopo retrogradare neppure di un passo; non volendo reputare quali miglioramenti e ammende in proposito né l’allontanamento di alcune inutili sottigliezze, né la per avventura più chiara sposizione di argomenti già prima discussi; come cose le quali appartengono piuttosto all’eleganza, che non alla certezza della scienza. Egli è anzi degnissimo di rimarco non avere questa sino al
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dì d’oggi potuto neppure di un passo avanzare: dal che potrebbe inferirsi essere già pienamente compiuta e perfezionata la logica. E se alcuni moderni avvisano per ciò ampliarla, che vanno intrommettendovi quando argomenti psicologici sulle diverse forze del sapere (come sarebbero l’immaginativa o la fantasia), quando i metafisici risguardo all’origine della cognizione o al come variino della certezza i gradi, giusta la varietà degli oggetti (idealismo, scetticismo ec.), e quando gli antropologici rispetto alle pregiudicate opinioni, alle cause loro e al come apporvi riparo, mentre ciò fanno, ei si dichiarano ignari della natura e facoltà di questa scienza. Ché le scienze non si aumentano, ma le si guastano tuttavolta che se ne confondono i confini; e quelli della logica sono in ciò appunto colla massima precisione
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determinati, che a null’altro è dessa destinata che a esporre una per una, e rigorosamente indicare, le regole formali d’ogni pensamento, provenga poi questo a priori o dall’empirismo, abbia origine od oggetto qualunque si voglia, e sia che trovi per accidente o naturali nell’animo gl’impedimenti(1).
(1) Ammessa, come si vedrà in seguito, la distinzione della logica in generale e applicata, nel linguaggio dell’autore la generale diventa logica pura, ed empirica l’applicata. E definisce la prima quale scienza delle regole, già fondate nell’intelletto, e che debbonsi osservare ne l’uso del pensare; la scienza cioè delle forme già necessarie de’ nostri concetti e giudizi. Alla quale scienza o filosofia formale non competendo che il trattar delle forme, dev’essa far astrazione da ogni oggetto concreto del pensiero, vale a dire dalla materia, e dal contenuto
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Dell’avere tal vantaggio sì bene ottenuto la logica, essa ne va debitrice
degli oggetti; che sotto questo rapporto appartengono alle altri parti della filosofia, che potrebbe quindi chiamarsi col nome generico di materiale: e sarebbe l’opposto della logica pura, presa nella dianzi accennata significazione. Nel qual senso l’empirica o applicata non costituirebbe, a propriamente parlare, una scienza, ma sì piuttosto un ammasso d’osservazioni, di principi e di massime intorno alla funzione del pensare, avuto risguardo al soggetto in cui la si esercita, come sarebbero le passioni, l’immaginazione, i pregiudizi, o rispetto alle fonti del sapere, alla genesi delle idee, alla diversità degli oggetti, alle qualità e imperfezioni del linguaggio e così via discorrendo. Ma le nozioni comunque interessanti, e le ingegnose risultanze, le quali emersero dallo studio su questi argomenti, non avrebbero, nel senso di Kant, fatto fare alcun passo alla logica, come scienza. Che anzi, trattandosi di ricerche straniere non che accessorie, avrebbero
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a quella sua limitazione, ond’è autorizzata, anzi tenuta, fare astrazione da tutti gli oggetti del sapere non che dalle differenze loro; e non deve in essa occuparsi di altro l’intelletto se non che di sé medesimo e della propria forma. Dove bisognò naturalmente che assai più arduo riescisse alla ragione il prepararsi una strada scientifica
queste fatto perdere di vista e confusi reciprocamente i confini della scienza formale con quelli della materiale. Sotto questo rapporto non sarebbe che una logica empirica l’opera di Malebranche, e sarebbe un misto di psicologia empirica, di metafisica, e di grammatica generale la logica di Condillac. Adescati quindi gli scrittori per la facilità di una strada eclettica, ebbero il successo della popolarità, disertando sullo spirito umano, sulle idee chiare, sui rapporti fra i segni e i concetti, sull’analisi ec.; ma la vera logica non ne avrebbe conseguito alcun emolumento.
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e l’incamminarsi con sicurezza, ogni qual volta ebbe che fare con sé stessa non solo, ma sì pure cogli oggetti. Quindi è che, come iniziativa (propedeutica) delle altre scienze, la logica non ne costituisce per così dire che l’atrio; e quando si tratta di cognizioni, ben si procede con qualche logica, onde giudicarle; ma l’acquisto delle medesime non può rintracciarsi altrove che nelle scienze vere od obbiettive, come si usa denominarle.
Perché debbano queste chiamarsi razionali, ed esservi inerente la ragione, gli è dunque necessario che ci si possano alcune cose comprendere a priori; e la ricognizione loro, come tali, può in due modi riportarsi all’oggetto che ne dipende, secondo cioè che si tratta o di determinare sì la cosa che il di lei concetto (il quale deve di
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necessità esistere altrove), o di effettivamente realizzarli: delle quali due maniere la prima è la teoretica, la seconda è la ragione pratica. La parte pura dell’una e dell’altra maniera, e quanto molto o poco ne cape ciascheduna, quella cioè, in grazia di cui la ragione determina per anticipazione il proprio oggetto, siffatta parte dico è quella che vuol trattarsi la prima e sola, né mai devono con essa confondersi le derivate per altre sorgenti. Perciocché farai cattiva economia se profondi sconsigliatamente quanto avessi guadagnato; e, trovandosi quella in secco, non saprai distinguere né qual parte del guadagno valga sostenere la spesa, né quale debbasi di questa circoscrivere o emendare.
La matematica e la fisica sono entrambe conoscenze teoretiche della
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ragione, che debbono stabilire per anticipazione gli oggetti loro (sottoposti), la prima tutto puramente, l’altra per lo meno in parte, nel resto anche per tutt’altre fonti di cognizione, che per quella della ragione.
Dall’antichità più remota, sin dove almeno può giungere la storia dell’umana ragione, la matematica pose piede sulla via sicura della scienza presso la più ammirabile fra le genti, la greca. Non è però da credersi aver essa potuto abbattersi o farsi ardito, per dir meglio, a quella strada maestra, e prepararsela sì facilmente che la logica, nella quale non si occupa la ragione che di sé stessa. E sono anzi d’avviso che la matematca eziandio andasse lunga pezza tentoni e palpando, presso gli Egiziani sopra tutto; e che debba il cambiamento
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attribuirsi a una rivoluzione, occasionata per la benaugurata idea, che avrà scorto l’ingegno di un sol uomo a imprenderne con successo il tentativo. Dopo di che penso non sarà stato più quasi possibile fallar la strada o scartarsene, come quella sulla quale fu poi giocoforza mantenersi e progredire; onde non rimaneva che di batterla, poiché tracciata per tutti i tempi e a immense distanze, come unicamente sicura per la scienza. Non pervenne sino ai nostri tempi né la storia di tale convertimento nella maniera di pensare, quantunque di gran lunga più importante che non fu la scoverta del sì rinomato Capo (di Buona speranza) né che fosse l’ingegno felice che lo divisò e condusse a effetto. Ciò non di meno la fama, la quale ne trasmise, per mezzo di Diogene Laerzio, il nome presuntivo dell’inventore
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dei minimi elementi della dimostrazione geometrica (li quali per verità e per universale consentimento neppure abbisognavano di prova), mostra che dev’essere ai matematici sembrata rilevantissima la ricordanza del cambiamento accaduto alla prima traccia della nuova strada quindi aperta, e dev’essere loro sembrato rilevante al segno, perché ugualmente preda non fosse d’obblìo. Così un raggio di luce rifulse pure a chi primo dimostrò il triangolo equilatero; sia ch’ei si chiamasse Talete o comunque: perciocché scoprì che doveva non già investigare quanto rilevava nella figura, e neppure il solo concetto della medesima, per quindi quasi appararne le proprietà; ma che gli era d’uopo ricavarle da quanto vi aveva introdotto col pensiero e rappresentato egli stesso per mezzo di concetti a priori; e che, per avere
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sicura contezza di checchesia per anticipazione, gli è mestieri non aggiungere mai niente alla cosa, tranne quanto è necessaria conseguenza di ciò, cui si è già riposto nella medesima, coerentemente al proprio concetto.
Molto maggior tempo vi si volle alla fisica, prima ch’essa incontrasse il gran cammino della scienza; poiché decorre a pena un secolo e mezzo all’incirca, da che il consiglio del perspicace Bacone da Verulamio diede in parte occasione a tale scoperta, e in parte vi animò, trovandosi già i fisici su quelle tracce; ciò che può ugualmente, anzi non per altro, spiegarsi che in virtù di cambiamento rapidamente avvenuto nella maniera di pensare. Ora mi farò a considerare la fisica solamente, in quanto empirici sono i principi sui quali è basata.
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Quando Galilei spiccava giù da un piano inclinato palle, delle quali aveva egli già determinata la gravità; quando l’aria caricava Torricelli di un peso, dianzi per esso imaginato eguale a una già pure conosciuta colonna d’acqua, e quando più tardi cangiava lo Stahl in calce i metalli e quella di bel nuovo in questi, aggiungendovi o sottraendone alcunché(1), gli è allora che nuova e maggior luce balenò a ogni sguardo investigatore della natura. Allora compresero i fisici che la ragione penetra soltanto le cose ch’ella medesima produce a progetto, ch’essa deve precedere co’ principi de’ suoi giudizi, dedotti
(1) Qui non si tiene dietro con precisione al filo storico del metodo sperimentale; oltreché né a bastanza conosciuti ne sono per avventura i veri principi.
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da leggi costanti, e obbligare natura perché alle sue dimande soddisfaccia, né mai quella soffrire di essere da questa sola, come fanciullo, corretta e guidata. Che altrimenti le osservazioni prodotte dall’accidente, o fatte senza mirare con esse a uno scopo e ordine prestabiliti, non possono essere fra di loro d’accordo, e dipendenti da una legge necessaria: il che è quanto la ragione ricerca e di quanto ha bisogno. Perciocché, dell’una mano afferrando i principi, la sola mercé dei quali possono i corrispondenti fenomeni aver forza di leggi, ed eseguendo coll’altra gli esperimenti già imaginati analogamente ai detti principi, deve la ragione avanzarsi verso la natura, per esserne istruita bensì, non però come scolaro che si lascia dettare ogni cosa dal maestro e come più a questo aggrada; ma qual
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giudice costituito, il quale costringe i testimoni rispondere alle interrogazioni che va loro facendo. Quindi è che persino la fisica è debitrice di rivoluzione così vantaggiosa, nel suo modo di pensare, al felice azzardo che la portò a ricercare, non già fingere, nella natura, e coerentemente a quanto vi aveva intromesso la stessa ragione, ciò che doveva questa imparare da quella, e di che non avrebbe saputo mai nulla di per sé sola. E solo per tal mezzo, e non prima, fu scorta la fisica sulla via sicura di una scienza, dopo che non aveva potuto che andare per tanti secoli vagabonda e tastando.
Circoscritta invece ai soli concetti la metafisica, e affatto isolata nella cognizione razionale contemplativa (la quale trascende assolutamente ogni empirica istituzione,
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senza potere giovarsi della visione, come le matematiche), e dove, per quindi necessaria conseguenza, è la ragione discepolo di sé medesima, non ebbe sino a ora sì propizia la fortuna, onde potere avviarsi pel sentiero sicuro della scienza, non ostante che sia la più antica fra tutte, anzi la sola destinata sopravvivere, quand’anche le altre dovessero essere affatto inghiottite dalla voragine della barbarie, che tutte le distruggesse. Perciocché la ragione vi è continuamente incagliata, quando pure si limiti a voler solo comprendere per anticipazione le leggi, che la più volgare sperienza conferma: il che è pur quanto si arroga la metafisica. Ed è mestieri che tu rifaccia con essa migliaia di volte la strada, come quella cui mai non vedi guidare ove tendi: e, se badi al consentimento de’ suoi settari, tanto la ti
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parrà distante dalla meta, nelle asserzioni loro, che la crederai piuttosto palestra destinata esclusivamente a esercitare le forze in conflitti giuochevoli; dove il gladiatore mai non giunge, pugnando, né a impadronirsi del minimo dei posti, né a stabile possesso acquistare colla vittoria. Niuna dubbiezza pertanto che la di lei ragione fosse finora un mero andar tentoni, e quel che peggio è, non aggirandosi che frammezzo a sole idee.
Qual è dunque il motivo, per cui non si è qui potuto per anco rinvenire il cammino sicuro della scienza? Che sia forse impossibile? Or perché tanto impose natura e tanto instancabile sollecitudine per tale indagine alla nostra ragione, come per la più importante di sue bisogne? Che più dunque fidare a siffatta ragione, se non solo ci abbandona,
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ma ne adesca di lusinghe, per finalmente ingannarci ov’è del massimo rilievo la nostra curiosità? Se poi tale strada fosse stata soltanto presa in fallo sino a ora, qual sarebbe, in tal caso, la guida onde giovarne, onde sperare di essere più fortunati che i nostri antecessori, volendo pur tornare su quelle indagini e tracce. Sto per credere sieno a bastanza degni di riflessione gli esempi della subitanea rivoluzione, cui subirono la fisica e le matematiche (come quella mercé la quale furono esse poi scorte al grado in cui le si trovano attualmente); onde investigare qual fosse il punto essenziale nel cambiamento, a quelle già tanto salutevole nella maniera di pensare, per poscia imitarne per lo meno il tentativo; per quanto lo permette al confronto colla metafisica, l’analogia della parte cui hanno le dette
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scienze fra le cognizioni razionabili. Si è supposto sin’ora dovere ogni nostra cognizione regolarsi dagli oggetti; la qual presunzione fece abortire quanti si fecero tentativi, onde a priori e per via di concetti alcuna cosa decidere intorno agli stessi oggetti, la quale potesse ridondare allo sviluppo e accrescimento dell’umano sapere. Or via mettiamo dunque alla prova, se non fosse per meglio avvenirci nelle questioni metafisiche, facendo in modo che debbano gli oggetti alle nostre nozioni ubbidire: locché anche meglio si accorda colla possibilità della ricognizione loro a priori; come quella che, anche già prima che le si presentino, deve alcunché determinare delle cose medesime. La ragione di tale divisamento è la stessa che del pensiero di Copernico, allorché persuaso che non sarebbesi avanzato mai nulla
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nella spiegazione del movimento dei corpi celesti, sinché tutta la caterva degli astri sopponevasi aggirarsi allo intorno dello spettatore, tentò se non fosse per ottenere migliore costrutto, facendo girare gli spettatori, e ferme starsi le stelle. Ora potrà farsi analogo tentativo in metafisica, rispetto alla visione degli oggetti. Sinché infatti vorrà la visione regolarsi a norma delle proprietà delle cose rappresentate, non vedo come si potrà mai nulla sapere a priori: mentre, se invece si conformi la cosa (come oggetto subordinato ai sensi) e la si acconci alla natura della nostra facoltà intuitiva, eccoti ovvio il persuadersi della detta possibilità. Ma siccome, onde le si trasformino in cognizioni, non posso arrestarmi su codeste visioni, ma debbo riferirle, come rappresentanze, a qualche cosa che ne sia l’oggetto, e questo per
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via di quelle determinare, così mi rimane a scegliere fra due partiti. L’uno è di supporre che i concetti, quali debbono servirmi alla determinazione suddetta, si adattino e accordino essi medesimi all’oggetto; con che mi trovo nello stesso imbarazzo, rispetto al modo per cui saperne alcuna cosa per anticipazione. L’altro partito è di ammettere che siano corrispondenti, o si adattino alle idee, gli oggetti ossia la sperienza, ciò che torna lo stesso; giacché, nella qualità loro di cose rappresentate, non possono gli oggetti essere conosciuti che nella sperienza. E con ciò tosto mi accorgo di molto più facile riuscita; giacché la sperienza medesima è una maniera di cognizione che richiede intendimento, la cui norma debbo io presupporre in me stesso, prima già che mi siano mai stati presentati gli oggetti (quindi a priori),
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come quella che si esprime in concetti per anticipazione; ond’è che dovranno con tali concetti regolarsi, e ai medesimi corrispondere, quante sono le offerte dalla sperienza. Risguardo agli oggetti, e in quanto possono, anzi debbono di necessità, meditarsi dalla ragione soltanto, e per niun verso dalla sperienza offerirsi, in quel modo almeno come la ragione li medita, i tentativi che farai di meditarli (giacché debbono pure lasciarsi meditare) ti forniranno una regola eccellente, che potrà servirti qual pietra di paragone, risguardo a quello che io considero nuovo metodo nella maniera di pensare; che nelle cose cioè altro non conosciamo per anticipazione, tranne quanto v’intromettiamo per noi stessi(*).
(*) Imitato dai fisici, questo metodo consiste adunque nel rintracciare gli elementi
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Il successo di tale tentativo è quale aveva preveduto, e promette
della ragione pura in ciò che si può confermare o distruggere per via d’esperimento. Solché, onde provare le proposizioni della ragione pura, massime cimentate o spinte oltre quanti sono i confini d’ogni sperienza possibile, i di lei oggetti non possono sottoporsi all’esperimento, come le cose fisiche. Non sarà quindi lecito sottoporvi che i concetti e principi ammessi per anticipazione; divisandoli però in maniera che gli stessi oggetti possano essere considerati sotto due diversi aspetti: parte cioè come soggetti ai sensi e all’intendimento per via dell’esperienza, parte poi come cose unicamente immaginate per la ragione isolata, e che si attenti oltre ogni uso e termine di sperienza. Se accade pertanto che le cose, contemplate sotto questo doppio aspetto si trovino corrispondere col principio della ragione pura, ma che nasca sotto lo stesso rapporto una indispensabile contraddizione della ragione con sé medesima, sarà in tal caso decisa collo sperimento la verità della distinzione suddetta.
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cammino sicuro e scientifico alla metafisica già ne’ primi suoi passi (prima parte); ove appunto si occupa di concetti preconceputi, gli oggetti corrispondenti ai quali possono incontrarsi nella sperienza, opportunamente adatti alle medesime idee. E da siffatto cangiamento nella maniera di pensare riescono più che agevoli a dichiararsi tanto la possibilità di una cognizione a priori, quanto (ed è ciò che più rileva) le leggi che sono di fondamento alla natura, come al complesso degli oggetti della sperienza, e queste col relativo corredo di prove soddisfacenti: l’una e l’altra delle quali cose non poté mai conseguirsi col metodo stato finora in voga. Se non che, in detta prima parte della metafisica, da codesta deduzione della nostra facoltà di sapere per anticipazione risulta uno stravagante corollario, e apparentemente assai
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nocivo all’intiero scopo della scienza, di cui ella si occupa nella seconda parte; vale a dire che mai non potremo con ciò trasportarci oltre i confini della sperienza, ed è questo precisamente il fine principalissimo, cui mira la metafisica. Ma in ciò consiste appunto l’esperimento di una controprova della verità del risultamento di quella prima esplorazione della nostra cognizione razionale per anticipazione; ch’essa cioè non risguarda che ai fenomeni e lascia e lascia stare le cose, come quelle che ci sono sconosciute, per quanto le sieno reali, considerate in sé medesime. Perciocché l’assoluto è ciò che necessariamente ne spinge a oltrepassare i termini della sperienza e dei fenomeni tutti quanti, e la ragione lo pretende a ogni buon dritto e di necessità nelle cose dipendenti da qualunque condizione; quindi è che vi pretende
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assoluta la serie delle condizioni. Se pertanto avviene che, senza ripugnanza, non possa per verun conto imaginarsi l’assoluto, supponendo l’empirica nostra cognizione prestarsi agli oggetti, come a cose per sé stesse, dove che per l’opposto cessi la contraddizione, ammettendo la nostra rappresentazione delle cose, quali ci vengono esibite, non accordarsi già con queste, come cose per sé medesime, ma sibbene uniformarsi piuttosto tali oggetti colla nostra maniera d’imaginare, nella qualità loro di apparizioni: e se risulta quindi essere da ritrovare nelle cose l’assoluto, non già per quanto le conosciamo (ci vengono presentate), bensì come cose per sé stesse e in quanto non le ci sono conosciute, risulterà(1)
(1) Questo sperimento della ragione pura è somigliantissimo a quello dei chimici,
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in tal caso vero e fondato ciò che da principio avevamo supposto per un semplice tentativo. E quand’anche alla ragione contemplativa si ricusi ogni avanzamento in questa provincia delle cose che trascendono i sensi, ne rimane sempre facoltativo lo sperimentare se, nella cognizione pratica della medesima, s’incontrino dati pei quali determinare quel concetto razionale dell’assoluto, e colla nostra cognizione a
ch’ei generalmente chiamano prova sintetica e talora di riduzione. L’analisi del metafisico separa in due assai dissimili elementi la cognizione pura per anticipazione, in quella cioè delle cose come fenomeni, poi delle cose in sé stesse. La dialettica le combina di bel nuovo all’unisono coll’idea razionale necessaria dell’assoluto, e trova non aver mai luogo siffatto accordo altrimenti, che per mezzo di quella distinzione, che risulta pertanto la vera.
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priori, benché soltanto rispetto alla pratica, giungere analogamente al desiderio della metafisica, oltre i limiti di quanta può essere la sperienza. E con tale maniera di procedere la ragione speculativa ci ha per lo meno somministrato il campo, su cui siffattamente allargarci; e, quando pure dovess’ella vuoto lasciarlo, restiamo sempre autorizzati e padroni, anzi ne provoca la stessa ragione, a, ogni qualvolta potremo, riempirlo coi dati pratici della medesima(1).
(1) Così le leggi centrali dei movimenti dei corpi celesti procacciarono assoluta certezza al principio stabilito sulle prime, come una mera ipotesi, da Copernico, e comprovarono contemporaneamente quella forza invisibile, che combina e sostiene l’edifizio dell’universo (attrazione neutoniana); la quale sarebbe rimasta eternamente nascosta, se non avesse osato quel primo, con argomento
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Tutta la bisogna di cotesta critica della ragione pura contemplativa consiste adunque nel detto cimento, per cangiare il procedere sinora usitato in metafisica, e nello imprenderne la totale rivoluzione, sull’esempio dei geometri e dei fisici. Quest’opera è quindi un trattato
contradditorio, eppure vero, di ricercare i movimenti osservati, non già negli oggetti quali ce li offre il firmamento, ma in chi sta osservandoli. In questa prefazione viene solo proposta qual ipotesi, da poscia esporsi nella critica, come analogica della copernicana, la rivoluzione accaduta nella maniera di pensare. Dessa è però confermata nell’opera, con prove apodittiche anzi che ipotetiche, dalla natura delle nostre idee dello spazio e del tempo, e dei concetti elementari dell’intendimento: e solo è così esibita qual ipotesi, affinché più rimarchevoli riescano i primi tentativi del detto cangiamento, come quelli che sono mai sempre ipotetici.
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sul metodo, anzi che un sistema della scienza medesima. Vi si abbozza ciò non di meno e traccia per esteso il di lei disegno, rispetto sì all’intiera connessione interna di sue parti. È proprietà e diritto infatti della ragione pura contemplativa, ch’ella possa, anzi debba, e misurare la propria capacità nelle diverse maniere, colle quali sceglie oggetti da meditare, e numerare inoltre uno per uno i diversi modi, coi quali esibirsi le quistioni, e così delineare l’intiero piano per un sistema di metafisica. Con ciò sia che, per ciò che risguarda il primo assunto, nulla può essere attribuito alle cose offerte nella cognizione a priori, tranne quanto il soggetto pensante produce per sé medesimo; e rispetto al secondo, avuto risguardo ai principi della cognizione, la ragione trovasi essere unità isolata
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del tutto e consistente per sé stessa; dove ciascuno de’ suoi membri esiste, come nel corpo organizzato, in grazia di tutti gli altri, e tutti esistono in grazia di ciascheduno; il perché non può con sicurezza riceversi alcun principio, sotto un dato rapporto, senz’averlo nello stesso tempo esaminato in piena relazione coll’uso universale della ragione pura. Su di che si ha però in metafisica la sorte ben rara che, ove la si abbia ridotta, mediante siffatta critica sopra sentiero certo e scientifico, può essa pienamente abbracciare quanto è vasto il campo delle cognizioni che le appartengono, quindi perfezionare il suo lavoro, e depositarlo a uso della posterità come una seggiola fissa, da non mai potersi per volger d’anni aggrandire; stanteché non ha ella che fare, tranne con principi e circoscrizioni del proprio uso, che vengono
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per la medesima determinati. La qual sorte non è mai che tocchi a verun’altra scienza razionale, che verta sopra oggetti presentati, ritenuto non d’altro la logica occuparsi che della maniera di pensare in generale. Quindi è che la metafisica è inoltre obbligata strettamente alla detta perfezione, anche nella sua qualità di scienza fondamentale, e si deve dire sul di lei conto:
Nil actunm reputans si quid superesset agendum
Sinché altro a far ne resta è nulla il fatto.
Ma quali sono i tesori, dirai, che io avviso potersi ai posteri trasmettere per siffatta metafisica depurata colla critica, e ridotta inoltre a limiti e stato impreteribili? Giacché se percorri superficialmente questa opera, ei ti parrà di rilevare la di lei utilità non essere che negativa;
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di cioè non mai attentarci, colla meramente speculatrice ragione, oltre i cancelli della sperienza: ed è questo per verità il suo primo vantaggio. Ma tale vantaggio si cangia in positivo, sì tosto che avrai compreso che la conseguenza inevitabile dei principi, coi quali osa la ragione contemplativa trascendere suoi limiti, non è già effettivamente ingrandimento, rispetto all’impiego della ragione, ma se penetri più addentro è piuttosto un restringerlo davvantaggio, in quanto ben effettivamente quei principi minacciano di estendere a tutto l’universo i confini della sensibilità, cui essi propriamente appartengono, e di persino respingere, se non escludere, il puro uso (pratico) di ragione(1). Quindi ne viene che una
(1) L’intenzione principale di Kant e della critica, in quanto determina la possibilità
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critica, la quale circoscriva la contemplativa, è bensì negativa in questo, ma siccome toglie in conseguenza e nello stesso tempo un ostacolo, il quale ne restringe l’esercizio
di stabilire principi anticipati, e derivare tutte le cognizioni da una sorgente a priori, tende cionnonostante a precisare i confini del sapere. Anzi troveremo essere conclusione di queste indagini, che il sapere positivo non si estende oltre il dominio della sperienza, e che non possiamo dalla sperienza inferir cognizioni, che già oggetto non sieno, almeno possibile, della medesima. Pare quindi che il rimprovero di estendere a tutto l’universo i confini della sensibilità risguardi specialmente alle dottrine di Locke, comecché mirino queste a dedurre dalla sperienza nozioni, che ne trascendano la sfera immediata. Sotto il qual rapporto accusa in altro luogo il filosofo inglese (che non si sarebbe mai aspettato accusa così fatta, siccome osserva il Cons. Degerando) di avere spalancate le porte alle illusioni dell’entusiasmo.
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pratico, se non anche abolirlo minaccia, ecco avere per ciò in effetto la critica un utile positivo e di grandissima importanza, appena che tu sii persuaso darsi, ed essere assolutamente necessario, un uso pratico della ragione pura (il morale), in cui ella si estende inevitabilmente oltre la portata dei sensi. E a malgrado che non le sia perciò d’uopo il soccorso della speculativa, tuttavia però dev’ella essere assicurata e guarentita contro la costei reazione, onde non quindi cadere in contraddizione con sé medesima. Che se in tale uffizio negassi alla critica un vantaggio positivo, sarebbe lo stesso che se dicessi la polizia non arrecare alcun’assoluta utilità, per ciò che il di lei principale incarico è quello solamente di opporre freni e argini alla prepotenza dei cittadini contro cittadini, onde possa ciascheduno
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accudire alle proprie faccende con libertà e sicurezza. Nella parte analitica della critica viene provato che lo spazio e il tempo non sono che forme di visione sensitiva, quindi non altro se non condizioni dell’esistenza delle cose come fenomeni; che inoltre non possediamo concetti razionali, e perciò neppure il minimo elemento della cognizione delle cose, tranne in quanto può darsi visione corrispondente a tali concetti; e che per conseguenza non possiamo aver cognizione di verun oggetto, come cosa per sé stesso, ma solo in quanto esso è già oggetto della visione sensitiva, vale a dire in qualità di apparizione o fenomeno: e per verità che altro da tutto ciò non risulta se non limitazione, di quanta è mai possibile cognizione speculativa della ragione, ai soli oggetti della sperienza. Tutto ciò non ostante ne
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rimane sempre facoltativo, anzi dobbiamo (il che merita riflessione) potere per lo meno meditare, se non conoscere, gli stessi oggetti, anche nella qualità loro di cose per sé stesse(1). Perciocché altrimenti
(1) Per conoscere un oggetto si richiede che io possa provarne la possibilità (sia col testimonio della sperienza, per la realtà della cosa, o sia per anticipazione colla ragione). Mi posso pensare tutto quanto mi aggrada, sempreché non mi trovi ripugnare a me medesimo, vale a dire solché il mio concetto sia pensiero possibile, quantunque non mi trovi al caso di assicurare altrui se, nella massa delle possibilità, sia o no un oggetto, che a tale concetto attribuire un valore obbiettivo (possibilità reale, poiché la prima non era che logica), si richiede ancora di più. Il qual di più non è per altro sì necessario perché debba rintracciarsi tra le fonti teoretiche della cognizione, potendoselo trovare eziandio nelle pratiche.
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ne verrebbe l’assurdo: esservi fenomeni senza nulla di ciò che appare. Ma diamo pure per non fatta, quantunque resa necessaria dalla nostra critica, la distinzione delle cose, in come soggette alla sperienza e come cose per sé stesse: dovrebbe in tal caso valer il principio della causalità, e con esso il meccanismo della natura nella relativa determinazione di tutte assolutamente le cose in generale, come cause efficienti. Or dunque non potrei, senza cadere in aperta contraddizione, asserire del medesimo ente, dell’anima dell’uomo a cagion d’esempio, che fosse libera la di lei volontà e subordinata nello stesso tempo alla necessità fisica, cioè non libera. Perciocché in ambedue le proposizioni avrei considerata l’anima nell’affatto uguale significazione di ente in generale, come cosa cioè per sé stessa; né
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senza il previo soccorso della critica poteva io considerarla diversamente. Che se la critica non errò, quando insegnava doversi gli oggetti ricevere in doppio significato, vale adire come fenomeni e come cose in sé medesime; se vera è la deduzione de’ concetti loro intellettuali; e se quindi anche il principio di causalità risguarda le sole cose prese nel primo senso, in quanto e come oggetti subordinati alla sperienza, che però allo stesso principio soggette non fossero nell’altro senso; ne verrà di conseguenza, non considerarsi libera la stessa volontà nel fenomeno (azione visibile), in quanto e come necessariamente coerente a una legge di natura, ed essere non pertanto immaginata libera per l’altro verso, come appartenente a cosa per sé stessa e indipendente da leggi fisiche; così che non vi avrà
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più luogo alcuna contraddizione. Ora, quantunque non possa io, per niuna ragione contemplativa, e molto meno per via di osservazioni empiriche, ravvisare l’anima mia considerata sotto questo secondo aspetto; quindi neppure la libertà, come proprietà di un ente, cui attribuiscono effetti nel mondo sensibile; stanteché dovrei già conoscere il mondo nella sua maniera di esistere, non però determinato nel tempo (ciò che non è possibile, in quanto non posso al mio concetto sottoporre alcuna visione), posso tuttavia pensare la libertà, vale a dire che, ammessa la mia distinzione critica delle due diverse maniere di pensare (sensitiva e intellettuale), non che la demarcazione che indi emerge sì dei concetti puri dell’intendimento, sì, e per conseguenza, delle leggi fondamentali che ne derivano,
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la rappresentazione della libertà non inchiude per lo meno ripugnanza. Dato pertanto che la morale supponga necessaria la libertà (nel più stretto senso), qual prerogativa di nostra volontà, in quanto la stessa morale ammette principi pratici, fondamentali, indigeni e originari della ragione, come dati a priori della medesima, i quali principi sarebbero assolutamente impossibili, senza presupporre la libertà; ma dato inoltre che la ragione contemplatrice avesse dimostrato, non potersi questa libertà né tampoco immaginare, in tal caso la prima supposizione, cioè la morale, dovrà cedere a quella, il contrario della quale inchiude manifesta contraddizione: e quindi la libertà e con essa la moralità (il cui opposto non contiene punto contraddizione, a meno di presupporre la libertà) dovranno sgombrare
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ugualmente il campo al meccanismo della natura. Siccome però nel morale possiamo starci contenti a che la libertà non ripugni con sé medesima, e senza che sia necessario di più addentro comprenderla, basta che si possa per lo meno immaginare, non ella opporre il minimo impedimento al meccanismo naturale della propria azione (considerata rispetto ad altre); così rimangono al posto loro e lo conservano sì la dottrina dei costumi che la fisica: locché non sarebbe stato, se la critica non ci avesse prima fatti scorti sulla inevitabile nostra ignoranza in quanto risguarda le cose per sé stesse, e se non avesse ridotto e limitato ai soli fenomeni tutto ciò che ne è concesso di teoreticamente conoscere. Questo medesimo schiarimento, sulla utilità positiva dei principi critici fondamentali della ragione
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pura, potrei applicare non che dimostrare anche rispetto alle idee intorno a Dio, e alla natura semplice delle anime; ciò che per legge di brevità ommetto di fare. Perciocché non posso neppure ammettere Dio, la libertà e l’immortalità, per iscopi dell’uso pratico necessario di mia ragione, se dalla speculativa non tolgo nello stesso tempo la di lei pretensione a notizie trascendentali; dovendo essa, per acquistarle, servirsi di principi tali che, mentre non risguardano che oggetti possibilmente ovvii alla sperienza, ove però vengano applicati a cose che non possano esserne oggetto, le trasformano sempre in fenomeni; con che dichiarano impossibile qualunque ingrandimento pratico della ragione pura. Per la qual cosa, onde far luogo alla fede, bisognerebbe levare la scienza; e il dogmatismo della metafisica, vale
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a dire la pregiudicata opinione di potere con esso lei progredire senza la critica della ragione pura, è la vera sorgente di ogni miscredenza, in contraddizione alla moralità: giacché fu sempre dogmatica la miscredenza.
Se può dunque non essere sì ardua cosa il trasmettere in retaggio ai posteri una metafisica sistematica, la quale sia conforme alla critica della ragione pura, non è però da stimarsene di poco prezzo il dono: sia che tu in generale risguardi alla sola coltura della ragione, avviata su cammino sicuro e scientifico, in paragone col vano e superficiale di lei andar tentoni e vagabonda senza critica: sia che consideri l’impiego migliore del tempo di una gioventù vaga di sapere, la quale sì presto e con tanto impegno si esercita nel dogmatismo
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usuale, perché sofistichi a bell’agio di cose che né comprende né potrà mai altro al mondo comprendere, o perché fantastichi al ritrovamento di nuove opinioni e conghietture, trascurando per ciò di scienze più solide apparare: soprattutto poi se poni al calcolo il vantaggio inapprezzabile d’impor fine una volta e per sempre, colla prova socratica della ignoranza evidentissima degli avversari, a quanti si muovono argomenti contro la moralità e la religione. Perciocché non evvi età né tempo, quando non fosse fra gli uomini una qualche metafisica, siccome la vi sarà sempre nei tempi a venire, e con essa una dialettica eziandio della ragione pura; poiché, naturalmente inerente a questa, non potrassi a meno di riscontrarvela. Quindi è che la prima, e più importante fra tutte le cure della filosofia, è quella di alidire non che
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riturare la sorgente degli errori, e così una volta per tutte assicurarsi da ogni maligna loro influenza.
Non ostante un così gran cambiamento nel campo delle scienze e lo scapito cui sta per ridondarne alla ragione contemplatrice ne’ suoi fino a ora imaginati possedimenti, rimangono tuttavia nel ben essere loro, e quali furono mai sempre, le umane cose, né corre pericolo il bene, cui ritrasse il mondo finora dalle scienze di ragione pura; giacché lo scapito risguarda solamente il monopolio delle scuole, non già e per niente affatto gl’interessi del genere umano. E domando al più ostinato fra i dogmatici, se, dedotta dalla semplicità della sostanza, la prova che sarà per durare dopo morte l’anima nostra; se quella del libero arbitrio contro il meccanismo universale, ragionata sulle sottili
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ma svenevoli distinzioni, della necessità pratica, in subbiettiva e obbiettiva; e se gli argomenti per la esistenza di Dio, mercé l’idea della più perfetta fra le nature (aggiungi mercé l’accidentalità delle cose mutabili e la necessità di un primo motore); se poiché sortiti dalle scuole, dimando, questi argomenti, abbiano mai potuto penetrare la massa del pubblico, né mai la minima influenza esercitare sul di lui convincimento? Il che se non è mai avvenuto, né può aspettarsi perché avvenga giammai, stante l’inettitudine della comune intelligenza degli uomini per così fine speculazioni; se anzi, rispetto alla prima delle dette questioni, è siffattamente costituita la disposizione che rileviamo nella natura di tutti gli uomini, perch’ei non possano essere mai soddisfatti della vita attuale, come insufficiente alla capacità dei
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loro destini, talché da questa sola circostanza è per nascere la speranza di una vita futura; se, rapporto al secondo punto, non può la coscienza della libertà risultare che da una manifesta sposizione dei doveri, sempre in opposizione alla tendenza degli appetiti; se, in quanto al terzo finalmente, non sono che le meraviglie dell’ordine, della bellezza, della provvidenza, le quali si manifestano in ogni parte della natura, che invoglino credere nel saggio e grande autore dell’universo; e se in quanto poggia sopra basi ragionevoli non può altrimenti propalarsi nel pubblico la persuasione di siffatti argomenti, non solo ne rimane imperturbato il possesso, ma essi acquistano maggiore importanza; dacché massime avvertite oggimai le scuole, perché in cose risguardanti l’interesse generale degli uomini, non le si arroghino
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avvedutezza più elevata ed estesa di quella, ove può giungere agevolmente la gran moltitudine, cui dobbiamo avere sempre in gran pregio, e perché si limitino quindi a semplicemente coltivarli, ove trattisi di argomenti, rispetto allo scopo morale bastevoli, e suscettivi di essere generalmente compresi. Per le quali cose il mentovato cambiamento non risguarda che le arroganti pretensioni di quelle scuole, che vagheggiassero di questa (come altronde a ragione in molte altre materie) a essere credute quali uniche apprezzatrici e dispensiere di quelle verità, onde vanno esse partecipando al pubblico solamente la pratica, e se ne riserbano la chiave.
Quod mecum nescit solus vult scire videri.
Vuol sembrare solo istrutto
Di ciò che meco ignora.
Ciò non pertanto è provveduto a
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che non sia delusa, ove più discreta, la pretesa del filosofo speculativo; in quanto rimane egli depositario esclusivo di una scienza utile al pubblico, senza che il pubblico lo sappia, e questa scienza è la critica della ragione. Che se non è possibile ch’essa mai rendasi popolare, non se ne ha neppur d’uopo; che per verità quanto più si rifiutano le teste del volgo a penetrarsi delle più fine argomentazioni, come di utili verità, ricorrono anche meno al pensiero le quandomai altrettanto sottili obbiezioni alle medesime. Mentre all’opposto, siccome la scuola, e chiunque solleva lo spirito alla contemplazione, cade inevitabilmente sì nella sottigliezza degli argomenti, che in quella delle obbiezioni, così è dovere della critica, perché mediante profondo esame dei diritti della ragione contemplatrice prevenga e impedisca
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una volta per sempre lo scandalo, che non può a meno di tardi o tosto insorgere anche nel popolo, mercé le controversie, nelle quali si avviluppano inevitabilmente senza la critica i metafisici (e come tali finalmente anche i teologi); prescindendo che ne vengono quindi adulterate le dottrine. Colla sola critica infatti possono sin le radici estirparsi del materialismo, del fatalismo, dell’ateismo, della irreligiosa miscredenza, del fanatismo, della non meno generalmente nociva superstizione; come possono finalmente recidersi anche le radici dell’idealismo e del setticismo(1), che
(1) Gli espositori convengono essere stato scopo alle indagini di Kant il desiderio di por fine alle dissenzioni dei filosofi sui punti più importanti delle umane speculazioni, come quelli ove appena ei convenivano dei principi della logica: giacché i pirronisti
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sono anche più pericolosi alle scuole, comeché diffondasi più difficilmente
ne contrastavano il valore, dichiarandola incapace a giustificare sé stessa, come determinante le leggi del pensiero; mentre supposto era il principio sì del pensare agli oggetti che del conoscerli. Perciocché non si era d’accordo neppure sul modo con che il pensiero e la cognizione si combinassero in uno stesso principio. Rispetto poi alla teorica metafisica delle sorgenti del sapere, le due gran sette contrarie dei realisti e idealisti si suddividevano in molte altre, tutte differenti. Così rispetto alla natura dell’anima quasi ogni materialista e spiritualista si distingueva con qualche modificazione particolare nella propria ipotesi; e mentre i deterministi ne impugnavano la libertà, gl’indeterministi sostenevano il libero arbitrio. Questi pretendeva il nostro mondo essere il migliore dei mondi possibili, e non darsi male né fisico né morale; mentre altri te lo dipingevano a nero, come una valle di tribolazione, un vaso di Pandora, un aggregato di mali fisici, di
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nel pubblico. Il perché se i governi avvisassero dover eglino
follie, di vizi, che non solo equiparassero ma ne trascendessero di gran lunga il poco bene. Chi studiavasi trovare le leggi del moto universale; chi sosteneva non avere il moto la menoma realtà, e non essere che illusione dei sensi. Che dirò dei dubbi sull’esistenza di Dio e sui suoi attributi e rapporti coll’universo; della divisione dei filosofi teologi in teisti, deisti, panteisti, naturalisti e atei; e delle tante dispute nel diritto naturale, nell’etica, nella politica e nella pubblica economia?
Le principali fra le accennate dissensioni, quelle cioè fra il dogmatismo e il setticismo, fra le teoriche razionali e le sperimentali, e fra l’idealismo e il materialismo, sono i tre gran litigi filosofici, ai quali Kant si propose di far alto, se non anzi di sentenziarli colla sua critica. Mentre tale scopo non poteva che svegliare l’ammirazione di quanti ne sentivano l’importanza, questa si rese anche maggiore, poiché si rilevò che il critico imprese a combattere
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ingerirsi negli affari dei dotti, ben sarebbe degno prezzo di lor saggie
tutti questi sistemi, senza nullamente servirsi di loro dottrine, ma cercando una strada frammessa alle sì opposte dei detti sistemi. Per trovare tale strada, e guarentirsi dallo incontrarsi con quelle altre cammin facendo, le quali benché si opposte fra loro fiancheggiavano la sua, pensò dover egli partire da un punto assai più lontano. Il perché si propose problemi anteriori ai principi di que’ sistemi; e cotesti problemi sono anche più maravigliosi, perciocché nati appunto dai contrasti reciproci delle ripetute dottrine.
Mentreché infatti lo scettico dimanda ragioni e prove intorno agli elementi del sapere, rimprovera i frequenti errori al dogmatico, e lo dileggia come inetto allo scoprimento del vero; e mentre il dogmatico risponde coll’autorità del buon senso, dell’intima convinzione, dell’evidenza, e prende argomento a giustificarsi dalle contraddizioni dell’avversario, Kant va molto più alto e dimanda: è possibile il sapere
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cure, a migliore provvedimento sì delle scienze che della società, che
della ragione? com’è possibile? cosa è conoscere? quali sono i rapporti che ha il conoscente col conosciuto? Così, mentre il filosofo sperimentale dice al razionalista, che, basando le di lui teoriche sull’identità, sulla definizione della cosa per la cosa, le si risolvono in copia e abuso di parole, e rimangono sterili e vuote in sostanza; e che il razionale fa rimprovero allo sperimentale de’ suoi fatti parziali, isolati, accidentali, della sua inettitudine a ben concatenarli, e dell’uopo che ha per ciò di un principio metafisico, cui non è in caso di per sé stesso procacciarsi, Kant interpella se la sperienza è possibile, se lo è una metafisica, e con ciò chiede qual può essere il principio che fecondi rende i principi razionali, e qual è la legge per la quale concatenare gli osservati fenomeni. Dove per ultimo il materialista non trova nelle idee se non l’effigie materiali degli oggetti esteriori, e trova che ogni sapere consiste in movimenti eccitati nei nostri organi
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essi favoreggiassero la libertà di siffatta critica; poiché la sola capace di stabilire con fermezza gli studi e lavori della ragione. Essa è quindi assai più meritevole di protezione, che non lo è il ridicolo dogmatismo delle scuole; comeché alzino queste romore di pubblica disgrazia, tosto che alcuno squarci le ragnatele dei loro argomenti: mentre, non avendone mai avuto
dagli oggetti; e dove l’idealista riflette arbitrarie queste ipotesi; e, rilevando nelle dee altrettante nostre maniere di essere, un prodotto cioè dell’intima capacità dell’uomo, ricusa ch’elleno dagli oggetti provengano, e loro s’assomiglino, Kant interroga per ultimo se vi sieno criteri, e quali, per distinguere nelle idee ciò che in esse appartiene all’intelletto del proprio, da quanto appartiene agli oggetti; e così nello studio degli elementi, che le compongono, trova per cui comporre quei dispareri.
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contezza il pubblico, non può quindi risentirsi di tali rovine.
Non è già che la critica, nella cognizione sua pura come scienza, trovisi in opposizione col procedere dogmatico della ragione, dovendo quella essere via sempre dogmatica, cioè provare a tutto rigore di principi a priori: ma ella si oppone al dogmatismo, vale a dire alla presunzione di progredire colla sola cognizione pura, ideale (filosofica) e corrispondente a’ principi adottati già da lungo tempo dalla ragione; però senza punto informarsi né del modo, né del dritto, coi quali giunse ai detti principi. Dogmatismo è pertanto il procedere dogmatico della ragione pura non premessa la critica della propria facoltà. Ora questa opposizione ha nulla che fare collo sterile cicaleggio, che si è usurpato nome di popolarità, e
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neppure col setticismo, sì facile distruttore d’ogni metafisica; perciocché tal critica è piuttosto un regolamento preparatorio indispensabile ai progressi di metafisica più solida come scienza, e non può quindi a meno di essere trattata dogmaticamente, anzi col massimo rigore sistematico, perciò con modi scolastici, non però popolari. Le quali maniere di trattarla sono per essa impreteribili; dacché la si assume di eseguire il suo lavoro affatto a priori, quindi a tutto grado e parere della ragione contemplatrice. Quando sarò dunque per eseguire il piano quivi prescritto dalla critica, vale a dire nel sistema di una metafisica, da poscia esporsi, dovrò di quando in quando seguire il metodo severo dell’illustre Volfio, come del più grande tra i filosofi dogmatici. Perciocché si fu egli che diede il primo esempio (e con
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tal esempio fu l’introduttore del non per anco estinto spirito della profondità in Alemagna) come, parendo dai principi stabiliti e legittimi, determinando con chiarezza le idee, affrontando il rigore delle prove, e schivando nelle conseguenze ogni audacia di salti, si possa e debba imprendere il cammino sicuro di una scienza. E ben era egli da tanto da potere anche prima trasformare in tale stato di scienza la metafisica, se gli fosse caduto in pensiero di prepararsi e lavorare in prevenzione il campo colla critica dell’organo, vale a dire della stessa ragione pura. La qual mancanza pare doversi non tanto attribuire a essolui, quanto piuttosto alla maniera dogmatica di pensare in quell’età; sulla qual maniera non fu tra i filosofi né di quella, né dell’età precedenti, chi l’altro a vicenda redarguisse. Quelli che riprovano
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il di lui metodo, e quindi rigettano il solo, con che si vuole procedere nella critica della ragione pura, non possono mirare ad altro che a vedere disciolti e dispersi della scienza i legami, e convertite le di lei fatiche in giuoco, in opinione la certezza, e la filosofia in filodossia.
Per ciò che risguarda questa seconda edizione, non ho intralasciato, e non lo doveva, di giovarmene a per quanta per me potevasi ammenda sì delle difficoltà che delle scurezze; dalle quali emersero forse, e senza mia colpa fors’anche, alcune male intelligenze, occorse a uomini perspicaci nel giudicare di questo libro. Non ho trovato che dovessi nulla cangiare nella espressione o nelle prove delle proposizioni, e così non più nella forma che in tutto l’insieme del piano
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il che vuole ascriversi parte al lungo esame cui sottoposi l’opera, prima di al pubblico sottoporla, parte alla stessa natura della medesima. Con che intendo alla natura di una puramente contemplatrice ragione, l’intima costruzione della quale trovasi articolata in modo, che tutto vi è organo, tutti cioè vi dipendono da cadauno e un per uno da tutti; così che nell’uso loro debba rendersi inevitabilmente palese la benché minima imperfezione, sia poi questa errore o difetto. E spero che tale sistema sarà per successivamente mantenersi nella detta immobilità: e me ne affida non già la presunzione, bensì la sola evidenza, cui produce l’esperimento d’uguaglianza nei risultamenti, sia nel partire dai minimi elementi, onde progredire al tutto della ragione pura, sia tornando alle singole parti, movendo dal tutto (che
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ha pur essa il suo tutto la ragione pura, stante il di lei scopo finale in pratica); dove il tentativo di cangiare, anche la più picciola delle parti, cagiona tosto contraddizioni, e queste nel sistema non pure che nel senso comune dell’umana ragione. Rimane però molto ancora da emendarsi nella sposizione: su di che ho procurato in questa ristampa diverse correzioni, le quali toglieranno in parte le false interpretazioni dell’estetica, quelle specialmente sull’idea del tempo, in parte la oscurità della deduzione dei concetti dell’intendimento, e così la pretesa mancanza di quanta vorrebesi evidenza nelle prove dei principi dell’intelletto, e per ultimo la sinistra interpretazione dei paralogismi rimproverati alla psicologia razionale. Sin qui(1), e non
(1) Il primo libro dell’estetica trascendentale.
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oltre, si estendono i cangiamenti fatti nella maniera di esporre le cose(*): ché né mi concesse il
(*) Non può dirsi che le accennate correzioni abbiano arricchito effettivamente il materiale, tranne che nella nuova disamina e confutazione dell’idealismo psicologico (III. vol. di questa traduz.): e qui pure l’accrescimento non risguarda che la maniera di provare, trattandosi appunto della prova più rigorosa, e forse l’unica possibile, della realtà obbiettiva dell’esterna visione. Ché per quanto si voglia reputare innocente (come non lo è di fatto), rapporto allo scopo essenziale della metafisica, l’idealismo, sarà sempre scandaloso nella filosofia, e per l’umana ragione in generale il volerci costretti ad ammettere, per sola fede, l’esistenza delle cose fuori di noi (mentre da queste ricaviamo tutta quanta la suppellettile delle cognizioni, e persino dell’intimo senso); e il ridurci quindi a tal punto, che non ci rimanga prova soddisfacente da contrapporre a cui prendesse vaghezza di mettere in dubbio la detta esistenza.
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tempo di estenderli più oltre, né mi è noto che agl’imparziali e periti estimatori delle medesime ne occorressero di male intese nel rimanente. Nei luoghi poi, e dal tenore, delle correzioni rileveranno quei dotti quanto e qual conto facessi delle avvertenze loro; locché mi dispensa dallo indicarne colla dovuta lode i nomi(1). Se non che tali ammende resero inevitabile un lieve scapito pei leggitori, e non lo si poteva scansare, a meno di soverchiamente, l’opera ingrandire. Il quale scapito consiste nell’avere io dovuto intralasciare o esporre in iscorcio diverse cose, per verità non essenziali alla perfezione del tutto, comunque tali che le avrebbe gradite più d’uno, siccome utili sotto altri
(1) Qui finisce, nella traduzione latina, la prefazione.
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rapporti. E dovetti ommetterle o compendiarle, per far luogo a ora spero più intelligibile sposizione; mentre la quale non altera quindi minimamente in sostanza le proposizioni e neppure le dimostrazioni relative, si allontana però qua e là dall’antecedente metodo di esporre in maniera, da non sempre potersela, per via d’inserzioni, perfezionare. Oltre che può essere facilmente compensato il detto scapito, mediante confronto colla prima edizione, spero tuttavia, che sarà sempre compensato a larga usura nella molto più facile intelligenza. Leggendo alcuni pubblici scritti, ora per mezzo delle recensione dei libri, ora negli stessi trattati particolari, mi accorsi con riconoscenza e piacere qualmente, a malgrado che sopraffatto in questi ultimi tempi dal genio di moda, cui dicono libertà di pensare, non è però ancora spento,
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in Germania, quello della profondità; e che i sentieri spinosi della critica, i quali guidano a una metodica, e perciò solo durevole, non che necessarissima, scienza della ragione pura, non hanno impedito perché fossero que’ sentieri affrontati da ingegni coraggiosi e chiaroveggenti, e ch’essi di questa s’impossessassero. A uomini sì benemeriti, e ne’ quali alla profondità nelle viste accoppiò inoltre, a me in ciò forse non ugualmente propizia, la fortuna, il talento di saper esporre nella loro maggior luce le cose, a siffatti uomini rimetto e affido l’incarico di perfezionare il mio lavoro, facilmente qua e là tuttavia difettoso, rispetto massime alla chiarezza: nel qual caso non si corre già pericolo di essere confutati, bensì di non essere intesi. Su di che avverto soltanto che, sebbene abbia divisato di non
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più d’ora innanzi darmi briga di controversie, non trascurerò ciò non pertanto di starmi attento a non fossero che cenni di rilievi, che mi venissero sì dagli amici che dagli oppositori, onde farne tesoro pel successivo eseguimento del sistema correlativo a cotesta propedeutica. Perciocché, scorto da simili fatiche a età già di molto inoltrata, e ne decorre l’anno sessantasei col mese in cui scrivo, ben mi è necessaria l’economia del tempo, se voglio condurre a termine il progetto di esporre la metafisica sì della natura che dei costumi, per quindi la giustezza confermare della critica della ragione contemplatrice non meno che della pratica. Starò pertanto aspettando sì lo schiarimento delle dapprincipio appena evitabili oscurità di quest’opera, sì la di lei difesa, da queglino che se l’hanno quasicome appropriata. Non è
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altronde sposizione filosofica, la quale in alcune delle sue parti non offra il fianco, niuna potendo sortire sì agguerrita e ricinta di corazza che le matematiche. Ciò non di meno, e quantunque l’articolazione del sistema, considerato come unità, non vi arrischierebbe né punto né poco, anche pochi son quelli che posseggano la disinvoltura necessaria per esaminarlo, se nuovo, e pochissimi che ne abbiano la voglia, dispiacendo sempre al maggior numero qualunque novità. Vi sono inoltre apparenti contraddizioni, che si possono pescare in ogni libro, massime in tali che furono scritti colla libertà del discorso, purché si stacchino dall’insieme loro alcune parti, e le si confrontino poscia, ciascheduna isolata, fra loro: e queste contraddizioni abbagliano talora di luce, alle medesime svantaggiosa gli occhi di
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chi massime si commette ai giudizi degli altri; mentre le riescono agevolissime a risolversi per chi si è reso padrone delle singole idee nel loro insieme. Con tutto ciò, se una teorica è ben fondata, l’azione e la reazione, che parevano minacciarla cotanto sulle prime, servono col tempo ad appianarne le ineguaglianze. Ove poi sia fornito d’imparzialità, d’accorgimento e di vera popolarità (urbanità), chi se ne occupa, non va guari che il lavoro acquista eziandio la quando mai necessaria venustà.