I. Della differenza tra la ragione pura e l'empirica
II. Del possedersi per noi certe cognizioni anteriori ad ogni senso ed esperienza e del non andar mai digiuno di queste neppure il volgare intendimento
III. Del bisogno che ha la filosofia di una scienza che stabilisca la possibilità, i principi ed il complesso di tutte le nozioni preconcepute
IV. Della differenza tra i giudizi analitici ed i sintetici
V. Dei giudizi sintetici a priori, come inerenti a tutte le scienze teoretiche della ragione
VI. Problema universale della ragione pura
VII. Idea e divisione di una scienza particolare, sotto nome di Critica della ragione pura
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Gli è come destino dell’umana ragione, in certo genere di cognizioni, perch’ella si affatichi, anzi che possa rifiutarsi, a quistioni che le vengono mosse d’ora in ora, per genio naturale alla ragione medesima; quantunque non atta essa risolverle in quanto le sembrano trascendere la sfera di sue capacità. Non è pertanto sua colpa s’ella cade in simili difficoltà; come quelle che nascono da leggi e massime, l’uso delle quali non può evitarsi nella sperienza della vita, e tanto meno quanto più viene giustificato in conseguenza
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quell’uso. Bensì che alto sollevasi la ragione con que’ principi ed, essendo a ciò presta di sua natura, sale quindi a qualità più remote. Ma, sentendo ella dovere in tal guisa imperfette rimanersi mai sempre le proprie fatiche, né mai farsi alcun termine alle quistioni, trovasi obbligata ricorrere a’ dogmi, i quali oltrepassano per quanto è possibile ogni uso di sperienza, e sembrano sì giusti nel tempo stesso, perché si accordi con esso loro il comune consentimento. Dal che ne viene che, precipitandosi essa medesima in oscurità e contraddizioni, ben quinci s’avvede la ragione come debbano in qualche parte nascondersi non che fondarsi gli errori. Ma non può essa per ciò rivelarli; ché, oltre i confini d’ogni sperienza passando i principi dei quali si giova, questi non più soggiacciono ai di lei criteri e né più tampoco li
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riconoscono. E dicesi metafisica il campo di queste infinite contese.
Ben fu tempo in che la metafisica venne salutata reina delle scienze quante si erano; e, se prendiamo l’intenzione pel fatto, certo che l’importanza delle cose, ch’ella si propone, la renderebbe assai meritevole di nome così onorifico. Ma il tenore dei tempi la ridusse a che debba essa, ripudiata e deserta, lagnarsi coll’Ecuba d’Ovidio
Modo maxima rerum,
Tot generis natisque potens…,
Nunc trahor exul inops.
Donna già d’alta possa,
E sì ricca di generi e di prole,
Ora in esiglio a mendicar son tratta.
Dapprima sotto il governo dei dogmatici fu pressoché despotico il di lei dominio. Mentre però le sue leggi mostravano tuttavia le vestigia dell’antica barbarie, le guerre intestine
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fecero sì che degenerasse poi quel governo in verace anarchia. Sopravvennero i scettici, essendo i quali una quasi razza di Nomadi(1)
(1) Non ostante che l’autore sia sempre conseguente a quanto esprime in questo luogo, tuttavolta che fa parole del setticismo, egli parte però sempre dal dubbio nelle sue quistioni, interrogando sé medesimo sulla possibilità della cosa domandata. Il che fece per avventura dire al Sig. Villers, che il setticismo e il criticismo camminano pari passo e di brigata, sin dove il primo s’arresta; dove cioè lo scettico risponde negativamente alla dimanda, che già da lungo tempo credono i dogmatici avere affermando soddisfatta: se vi sia una metafisica? Ed è la prima anzi quella, che tutte abbraccia le quistioni della critica; la quale non è già paga di chiedere se la vi sia, ma insiste se, in qual modo, e sin dove sia essa possibile. Ora ponno ridursi a questo i diversi punti, ove lo scettico si arresta nel dubbio: e non è che infingardaggine
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che, lungi dall’accudirvi, hanno in abborrimento la coltivazione del proprio terreno, andò via via rallentandosi e disciogliendosi ogni legame di società. Solché, ridotti essendo costoro a pochi, non valsero impedire perché tornassero i primi coltivatori; per quanta si dessero pena
o tristo interesse, che valgano trattenere l’uomo in uno stato di vera violenza pel di lui spirito; giacché lo stesso Rousseau ebbe a dire nell’Emilio, essere così fatta la tempra dell’uomo ch’ei preferisce l’inganno al nulla credere. Ma non s’arresta coraggioso il critico, soggiunge Villers, e accommiatandosi dal compagno: Rimaniti gli dice, se vuoi e siedi sul dubbio, come su pietra sulla quale mal pensi riposare. A me a vedere su che poggia e sin dove s’approfonda cotal pietra, a me lo scavarla dalle radici dell’umano sapere, lo svelare il mistero di sua formazione, e lo scoprirne, per quanto si può, gli elementi.
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i quali nei loro lavori, questi furono però senza spirito di comune accordo e vicendevole cospirazione. Non ha guari che il celebre Locke, mediante una quasi fisiologia dell’umano intendimento, parve stabilire un termine a tante dissensioni e dispute, e dichiararne il valore(1).
(1) Lo stesso può dirsi di Aristotile fra gli antichi, alludendo al non essersi per le fatiche di questi due grand’uomini costruita una critica di puro intendimento. Perciocché le fatiche loro non giunsero alle operazioni delle facoltà intellettuali che come a fatti, senza che avessero per iscopo d’indagarne la possibilità e quindi stabilire in generale il valore dell’umano sapere. Era quindi inevitabile, sinché non se ne conoscevano i confini, che la ragione, oltrepassandoli, fosse portata sulle ali dell’immaginazione in un mondo metafisico, senza nulla guadagnare nel saper suo positivo, e senza che le fosse tuttavia possibile concepire come venisse a trascendere
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Se non che avvenne che, sebbene i natali della supposta sovrana si derivassero dalla massa delle più volgari sperienze, ond’è che avrebbe dovuto riescirne giustamente sospettata la presunzione; e, non ostante che falsa di fatto l’attribuzione di quell’origine, tuttavia la metafisica insisté per modo nelle sue pretese, talché si ricadde in quel vieto e tarlato dogmatismo, dal quale si avrebbe voluto liberare la scienza. Di maniera che dopo avere indarno
la sfera della sensibilità, e da quali cause vi fosse spinta. Ora i limiti della ragione rimasero celati, perché s’ignorava in che differiscano la sensibilità e l’intendimento; ignoranza per la quale attribuivasi all’una delle due facoltà quanto all’altra competeva, e si eccedeva specialmente nel porre a carico dell’intelletto, assai più di ciò, cui potess’egli per sua natura soddisfare.
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tentato, come si crede, le vie tutte quante, regna invece la noia e quello spirito di piena indifferenza(1), che è padre di confusione e di tenebre nelle scienze. È però eziandio preludio certamente, se non anzi
(1) Ciò che dice la nota precedente di Aristotele vale per quanti furono i filosofi dell’antichità, per niuno dei quali fu impresa l’analisi della facoltà pura dell’intelletto in se stessa col metodo, con cui solo potevano conseguirsene deduzioni soddisfacenti. Perciocché gl’inventori dei sistemi filosofici mossero tutti dalla considerazione delle cose in se medesime, senza mai prendersi briga di prima investigare nello stesso intelletto i principi della contemplazione, come i soli dietro i quali calcolar poscia il valore dei risultamenti delle fatte ricerche. Quindi è che o presto la censura scopriva la imperfezione dei sistemi o, dopo essersi vanamente affaticati, si cadeva nell’indifferenza o nel setticismo.
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origine, di trasformazione vicina e di rischiaramento di opera fatta oscura, per cattivo collocamento, e resa quindi confusa e inutile.
A nulla ridonda infatti l’affettare indifferenza rispetto a investigazioni, lo scopo delle quali non può a meno di sommamente interessare la natura umana. Altronde, per quanto si studino quelli che si vantano indifferenti, onde ridurre affatto popolare il già sì cambiato linguaggio delle scuole, solché ad alcuna cosa pensino da senno, eccoli ricadere in quelle stesse proposizioni metafisiche, al dispregio delle quali pongono pure tanta cura. Frattanto, e ciò non di meno, è ben degno di riguardo e meditazione questo spirito d’indifferenza, che sorge in tanta luce d’ogni scienza, e cerca invadere pur quelle, alle quandomai possibili nozioni delle quali niuno
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di noi certamente sarebbe vago di rinunziare. Oltre di che gli è manifesto essa non essere frutto né di temerità né di leggerezza, bensì della facoltà di giudicare in età bastevolmente matura(*), perché oramai
(*) Si odono lagnanze di quand’ in quando sulla quasi povera maniera di ragionare de’ nostri giorni, e sul decadimento della vera scienza. Non però sembrami tal redarguzione convenire alle scienze ben costituite, come la matematica, la fisica e simili, che non solo conservano l’antico lustro di verità, ma che anzi lo vanno superando. Ora lo stesso vigore si manifesterebbe ugualmente in altri rami dell’umano sapere, ove si fosse posto mente a prima di tutto emendarne i principi. Trascurata la qual cosa, l’indifferenza, la dubbiezza, e la valorosa critica non altro provano infine che movimenti più fermi e determinati nella maniera di pensare. Perciocché l’età è proprio questa della critica; né v’è cosa che non debba esserle, di necessità, sottoposta. Ben cercano
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non consenta di essere delusa da una scienza fittizia, e alla ragione si appelli, perch’essa nuovamente si occupi della più grave di sue bisogne, qual è la cognizione di sé stesso, e costituisca tribunale competente, il quale pronunzii con sicurezza, e valga ogni vana tracotanza reprimere, con arbitrarie sentenze non già, ma in virtù di sue leggi eterne, immutabili: né altro evvi tribunale più competente all’uopo, tranne la critica della ragione pura.
d’ordinario sottrarsele sotto l’usbergo di santità la religione, come sotto quello della maestà loro le leggi: nel qual caso esse corrono rischio di essere giustamente sospette, e di non potere a quella estimazione sincera pretendere, che la ragione accorda solamente a quanto può sostenerne il libero e pubblico esame.
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Ma per critica della ragione pura non già intendo censura di sistemi o libri, bensì di quanta è la facoltà di ragionare intorno a tutte le cognizioni, sulle quali si possa, indipendentemente da ogni sperienza, trovare fondamento. Essa mira dunque a decidere sulla possibilità o impossibilità della metafisica in genere, a determinarne sì le fonti e l’estensione, che il complesso e i termini, e tutto ciò in conseguenza di principi.
Sono entrato pertanto in questa strada, la sola che rimanesse a battersi, e credo avere in essa manifestato come vi si possano evitare tutti gli errori, pei quali dissente da sé medesima, ogni qual volta non assistita dall’uso della sperienza, la ragione. Né ho cercato perciò di esimermi dal rispondere alle di lei quistioni, o di eluderle con pretesto
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e scusa d’impotenza dell’umano intendimento. Ma ho distinta e distribuita in tutte le sue parti, sempre in forza di principi, la stessa ragione; ho destinato espressamente un capitolo alle di lei contraddizoni con sé medesima, e le ho spianate in modo che sembri averla io piuttosto soddisfatta. Non ho però quelle quistioni risolto, come si sarà forse aspettato, la dogmaticamente pazza curiosità; il che per me non si poteva, lontano come sono e ignaro d’ogni fattuccheria. Né avrei con ciò corrisposto allo scopo naturale del nostro intelletto, né a quello cui sempre si propose la filosofia; di cioè togliere qualunque inganno emerga da mala intelligenza, e quando pure a costo di distruggere opinioni celebratissime non che predilette. Nel trattar le quali cose posi mente a essere quanto bisognava diffuso anzi che no: e oso asserire
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non darsi la menoma quistione metafisica, la quale non trovisi risolta e appianata in quest’opera, o che non vi si trovi per lo meno la chiave, onde risolverla. Ché di vero è sì perfetta e assoluta l’unita di tutto quanto, su che verte la ragione pura, che qualunque suo principio atto non fosse a risolvere una sola delle quistioni, ch’essa per sua natura esibisce a sé stessa, lo si potrebbe, dirò così, rigettare affatto, come inetto pure a tutte le altre.
Mentre scrivo le quali cose parmi vedere in volto a chi legge un certo sdegno misto a ischerno per quasi come sfrontata non che immodesta iattanza; quantunque più assai moderata codesta, che non quella dei programmi comunissimi di altro qualunque autore, il quale imprendesse a provare niente meno che la natura semplice dell’anima, o la necessità
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dell’incominciamento del mondo. Eppure questi presumerebbe d’ingrandire non pure che di estendere, oltre quanti sono i limiti possibili dell’esperienza, l’umana cognizione: ciò che io confesso trascendere le mie facoltà; come quello che non tratto che della ragione stessa e del puro di lei pensiero. Né mi occorre, onde averne piena cognizione, di farne lontane ricerche; poiché la troverò in me stesso, e me ne offrono tal esempio le stesse logiche più volgari, da potere sistematicamente annoverare non che distinguere tutte le azioni semplici della ragione. E qui sarebbe piuttosto luogo alla domanda: quanto e sin dove la si possa immaginare, senza ogni materiale non che aiuto di sperienza?
Ma feci a bastanza parole sì dell’ampiezza dell’argomento, quantunque
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tendente a un sol fine, sì del piano col quale ottenerne tutti gli scopi, a cui non si preferisce arbitrario il soggetto, ma lo riceve dalla stessa natura della cognizione, che serve di materiale a questa indagine critica.
Due cose però, le quali si ha tutta ragione di chiedere a uno scrittore, che si commette a sì lubrica intrapresa, sono la certezza e la chiarezza, poiché indispensabili al tenore dell’opera.
Per ciò che riguarda la certezza, mi sono pronunziato la sentenza per me stesso, poiché dichiarai assolutamente illecita ogni opinione in questo genere d’indagini ed esservi, quasi merce di contrabbando, interdetta ogn’idea che abbia solo sembianza d’ipotesi; così che, anzi che nullamente ammettervisi,
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la si deve sbandire, non che dichiarare, sì tosto che riconosciuta, per tale. Qualunque sia di fatto la cognizione di stabilirsi e provare per anticipazione, già per sé medesima indica dover essa ritenersi assolutamente necessaria; e tanto più trattandosi di determinare a priori quante sono le nozioni pure: come quelle che vogliono servire di norma, e sono già esempio per sé stesse di ogni apodittica (necessità di persuasione) nella certezza filosofica. Se io tenga in ciò la parola ne rimane il giudizio ai lettori, non potendo l’autore che le ragioni esibire, non già prevedere gli effetti loro sull’animo di chi deve giudicarle. Solché, onde non sia motivo benché innocente, per cui vengano quelle infermate, sarà certamente lecito a chi scrive il far cenno egli stesso dei punti, che potessero far luogo ad alcuna diffidenza, quantunque
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rispetto solamente ai fini secondari, per così preventivamente allontanare ogni anche minima occasione di ambiguità, risguardo al fine principale delle massime respettive. Nella diligente informazione di quella facoltà cui dicono intendimento, e nel determinare le leggi e i confini del di lui esercizio, non ho mai conosciuto ricerche più importanti che le per me intraprese nel capo secondo dell’analitica trascendentale(1): come quelle che mi costarono molta e spero non vana fatica. Perciocché, penetrando più addentro nell’argomento, proposi due cose alla relativa contemplazione, una delle quali si riferisce alle già subordinate alla ragione pura, e tende, anzi deve insegnare non
(1) Deduzione dei concetti puri dell’intelletto.
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che provare per anticipazione il valore obbiettivo de’ respettivi concetti; vale a dire che per ciò appunto risponde necessariamente al mio proposito. L’altra poi mira chiamare non che subordinare alla ragione lo stesso intendimento puro, in quanto alla possibilità e facoltà pelle quali esso è destinato e idoneo a sapere, sotto il di lui rapporto cioè subbiettivo. La quale sposizione, per quanto mi sembri di gravissima importanza, rispetto al fine, cui mi sono principalmente prefisso, non però gli appartiene di tutta necessità. Perciocché rimane inalterata non pertanto la quistione, cosa cioè possano e quanto conoscere l’intelletto e la ragione privi d’ogni soccorso d’esperienza; ché né perciò si chiede qual sia o possa essere la stessa facoltà di pensare. Siccome la qual ultima quistone risguarda una quasi ricerca di causa, rispetto
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a un dato effetto, e inchiude quindi alcunché d’ipotetico (sebbene così di fatto non sia, come dimostrerò altrove); così pare si potrà in ciò perdonarmi l’opinare; tanto più che resta in balìa di chi legge il mantenersi di contrario avviso. Su di che, per altro, penso doverlo inoltre avvertire in prevenzione, che se mai la mia deduzione subbiettiva non meritasse da esso lui sì piena fede che me ne fossi lusingato, nulla però vi perderebbe del suo valore l’obbiettiva: ed è quella di cui faccio il massimo conto in proposito.
Rispetto alla chiarezza finalmente, può il lettore a tutto buon diritto pretendere la discorrevole o logica nei concetti, quindi anche la intuitiva o estetica nelle imagini e nelle altre maniere di ogni singolo rischiarimento. E ho provvisto quanto
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conviensi alla chiarezza logica nei concetti, siccome a quella che richiedevasi per l’indole medesima dell’opera. Se non che la stessa cura, cui vi posi, è forse motivo che non avrò potuto soddisfare ugualmente a legge così rigorosa che altronde giusta, rispetto alla chiarezza estetica. Fui anzi lungamente perplesso, avanzando nel mio lavoro, a che dovessi perciò determinarmi; giacché incontrava sempre bisogno di esempi e dichiarazioni, sui quali ho quindi a suo luogo e opportunamente calcolato nel primo sbozzo dell’opera. Allora però io non considerava che, per così dire, in iscorcio l’ampiezza dell’intrapreso argomento, e la molta suppellettile delle cose da trattarsi: mentre, avendo poi compreso qualmente queste sole avrebbero dato quanto bastava estensione al lavoro, anche limitandolo al più secco e mero trattato scolastico,
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parvemi fuori di proposito il via maggiormente ampliarlo con copia di commenti e paragoni, onde ha d’uopo la sola intelligenza del volgo. E tanto più che, non potendo questo lavoro per verun conto addirsi o ridursi a uso volgare, gl’ingenui estimatori delle scienze non hanno egual bisogno di chiose; le quali per quanto potessero incontrare accoglimento, non però converrebbe il quasi a disegno costì farvi luogo(1). Siccome anzi diceva l’abb. Terasson doversi la vastità di un libro misurare, dal numero delle pagine non già, bensì dal tempo
(1) Senza defraudare al merito dei motivi, con che l’autore giustifica l’ommissione dei commenti ed esempi; questi riescirebbono tuttavia, come dissi nei cenni biografici, più graditi di quando in quando, che non la giustificazione di avergli ommessi.
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che vi si vuole a ben comprenderlo (il perché certi libri assai più brevi e concisi riescirebbono, se lo fossero meno); così, risguardo all’agevole comprendimento di quanto si voglia estesa cognizione contemplativa, sempreché sia questa coerente a un vero principio, potrà dirsi con eguale verità, che riescirebbe assai più chiaro un qualche libro, se tanto non fosse bisogno di renderlo chiaro. E, alludendo a cotesto, mancano per avventura i soccorsi per l’evidenza nelle di lui parti, sono essi però frequenti e diffusi nel tutto. Che se non conduco sì tosto il lettore al pieno di lui comprendimento, e vado con tinte ora lucide, ora chiaroscure, spargendo e adombrando l’architettura, e le connessioni del sistema, gli è che non può giudicarselo, eccetto e solo da chi e dappoi che ne conobbe l’unità e la sodezza. Oltre di che reputo
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cosiffatta maniera di esporlo poter essere di molto eccitamento ai leggitori, perché l’attenzione loro aggiungano all’opera di chi scrive; se gli è pur lecito sperare che sarà per compiersi, e lungamente sostenersi, alla maniera in che se lo propose, un sì grandioso e serio lavoro. Conciosiaché la sola metafisica è quella fra le scienze, la quale, dai concetti che sono per quivi dichiarare sulla medesima, possa lusingarsi di conseguire tanto perfezionamento, in breve tempo e con mediocre fatica (ove sia combinata), che alla posteriorità non debba rimanere che la bisogna di analogamente ridurre e distribuirne tutti gli oggetti, senza che sia per ciò nullamente possibile aumentarne il materiale. Altro infatti la metafisica non risulta quindi essere, che un indice sistematico di quanto possediamo in grazia della ragione pura:
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né v’è cosa che possa sfuggirne, di quelle almeno ch’ella per sé stessa rivela; giacché sarebbe vana impresa il volerle occultare, ove la stessa ragione le mette in chiaro, sì tosto che ne sia stato scoverto il principio comune. Ché solo amplificando ed estendendo la sì perfetta unità di codeste cognizioni, ed essendo elleno inoltre dedotte unicamente da concetti così puri, che nulla vi entra di empirico, e non fossero che intuizioni particolari, le quali potessero guidare a certa e definita sperienza, e in essa esercitare il poter loro, l’insieme di cui sopra diventa non solo assoluto, ma sì pure necessario.
Tecum Habita: noris quam sit tibi curta supellex.
Teco abita,
E vedrai non t’aver che cenci e zacchere(1).
(1) Così nella versione del Sig. Cav. Monti,
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Un tale sistema della ragione pura (contemplativa) spero produrre io stesso una volta col titolo di Metafisica della natura(1). E sarà più breve della metà, sebbene contenendo assai più cose che questa critica non contenga: mediante la quale importava esporre da prima le fonti e condizioni della possibilità di quella,
la quale però non rende il verso di Persio nel senso, cui allude in questo luogo il filosofo, e sarebbe, se mal non m’appongo,
Teco rimanti e ti saprai ben corto.
(1) Non va confusa, quest’opera, coi principi metafisici della scienza della natura, come quelli che trovandosi citati nella critica, debbono averla preceduto. Non essendo, ch’io mi sappia comparsa l’accennata metafisica, si può inferirne che l’autore abbia esaurito o cangiato il suo progetto coi prolegomeni accennati nei cenni biografici.
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espurgarne il suolo incolto e appianarlo. Se in questa pertanto confido nella sofferenza dei leggitori e nell’animo equo dei giudici, non m’aspetto ivi che a facilità e aiuto di compagnia. Perciocché, sebbene i principi tutti di questo sistema sieno ampiamente stabiliti nella critica, onde però perfezionarlo si richiede inoltre copia e concorso di concetti derivati. Siccome i quali non possono determinarsi per anticipazione, ma debbono indi appunto inferirsi e raccogliersi; e siccome viene ora tutta esaurita la sintesi dei concetti; così non resterà che di fare altrettanto rispetto all’analisi: tutte cose che riescono assai più agevoli a eseguirsi, oltre che allettano coll’amenità, più che non istanchino colla difficoltà del lavoro.