I
CRITICA ELEMENTARE TRASCENDENTALE
PARTE SECONDA
LOGICA TRASCENDENTALE
Analitica trascendentale
Libro secondo
Introduzione - Della facoltà trascendentale di giudicare in generale
Della dottrina trascendentale della facoltà di giudicare
Cap. I - Dello schematismo dei concetti intellettuali puri
Cap. II - Sistema di tutti i principi del puro intendimento
Sezione prima - Del principio supremo di tutti i principi analitici
Sezione seconda - Del principio supremo di tutti i giudizi sintetici
Sezione terza - Sposizione sistematica di tutti i principi sintetici
II - Anticipazioni della percezione
III - Analogie della sperienza
A. Analogia prima - Permanenza della sostanza
B. Analogia seconda - Successione del tempo, giusta la legge di causalità
C. Analogia terza - Simultaneità, giusta la legge di comunanza reciproca
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Principio della successione del tempo giusta la legge di causalità.
Tutte le mutazioni accadono secondo la legge di congiunzione tra causa ed effetto(1).
Prova
(Il principio antecedente ha provato, che tutte quante le apparizioni della successione del tempo consistono in meri cambiamenti, sono cioè un essere e non essere consecutivo delle determinazioni della sostanza, ivi sempre permanente; sono per conseguenza l’essere della medesima sostanza, che succede al di lei non essere, od il non essere,
(1) Tutto quanto accade presuppone qualche cosa alla quale succede necessariamente l’accidente.
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che viceversa tien dietro all’esistenza di quella; oppure in altri termini, che non ha propriamente luogo il nascere o perire della sostanza. Il detto principio si sarebbe anche potuto esprimere così: Ogni vicenda (successione) delle apparizioni è mero cambiamento; giacché nascere o perire della sostanza non costituiscono mutazioni della medesima, stanteché il concetto del cambiamento presuppone il medesimo soggetto, qual esistente, con due determinazioni contradditorie, quindi come perseverante. Dopo la qual premonizione segue la prova).
Che le apparizioni succedano una dopo l’altra lo percepisco; percepisco cioè, darsi uno stato di cose in un tempo, il cui contrario era nello stato antecedente. A propriamente parlare accoppio dunque nel tempo due percezioni. Ora l’accoppiamento non è opera del solo senso
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e della visione, ma costì è il prodotto di una facoltà sintetica dell’immaginazione, determinante il senso interno, rispetto alla relazione del tempo. L’immaginazione però può in due diverse maniere combinare i due stati summentovati, così che l’uno preceda, o l’altro, nel tempo. Giacché non può questo in sé stesso percepirsi; e, rispetto ad esso, può solo in maniera empirica determinarsi, nell’oggetto, ciò che precede e ciò che segue. Io sono dunque soltanto consapevole a me stesso, che la mia immaginazione mette uno prima l’altro dopo, non già che l’uno stato preceda l’altro nell’oggetto: o, con altre parole, mediante la sola percezione, rimane indeterminato il rapporto obbiettivo delle apparizioni consecutive. Ora, perché possa rilevarsi, come determinato, cotesto rapporto, vuol essere pensata
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in modo la relazione fra i due stati, che venga indi stabilito, come di necessità, qual di essi debba essere posto prima, quale dappoi, e non all’opposto. L’idea però, che porta con seco la necessità dell’unità sintetica, non può essere che un concetto puro dell’intelletto, non fondato nella percezione; il qual concetto in questo caso è quello della relazione fra causa ed effetto: ed in tale idea la causa determina l’effetto nel tempo, come conseguenza, non come qualche cosa, che potesse meramente precedere nella fantasia (od anche non essere generalmente percepita). Dunque non è che in grazia del subordinare, cui facciamo, la successione delle apparizioni, quindi ogni cangiamento, alla legge della causalità, che possibile rendesi la sperienza medesima, vale a dire la cognizione empirica dei fenomeni;
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e non sono questi, per conseguenza, possibili, come oggetti della sperienza, che secondo appunto la detta legge.
È sempre successiva l’apprensione del moltiplice nell’apparizione. Le rappresentazioni delle parti si succedono l’una all’altra. S’elle succedansi anche negli oggetti, riasguarda un secondo punto della quistione, che non è compresa nel primo. È bensì lecito dar nome di oggetto ad ogni cosa, e sino alla stessa rappresentazione, purché siasi di essa consapevoli, ma è di molto più profonda indagine la significazione, che può competere, nelle apparizioni, alla parola oggetto, non in quanto esse oggetti sono (come rappresentazioni), ma solo in quanto dinotano un oggetto. In quanto non sono esse, come rappresentazioni, che oggetti nello stesso tempo della coscienza, non distinguonsi
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né punto né poco dall’apprensione, vale a dire dal ricevimento nella sintesi della forza immaginativa; e bisogna quindi convenire, prodursi ognora successivamente nell’animo il moltiplice delle apparizioni. Se le apparizioni fossero cose in sé stesse, non vi sarebbe alcuno, che dalla successione delle rappresentazioni del moltiplice loro fosse mai capace di misurare (comprendere) come sia questo collegato nell’oggetto. Conciossiaché non abbiamo che fare se non colle nostre rappresentazioni; ed è affatto al di là della nostra sfera conoscitiva come possano essere le cose in sé stesse (lasciato a parte ogni risguardo alle rappresentazioni, per le quali esse cose ci affettano). Ora quantunque non sieno cose per sé le apparizioni, e costituiscano tuttavia la sola che possa offrirsi al nostro sapere, devo però indicare quale
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competa congiungimento, nel tempo, al moltiplice delle stesse apparizioni; dacché la costui rappresentazione procede pur sempre successiva nell’apprensione. Così p. e. è consecutiva l’apprensione del moltiplice nell’apparizione di una casa, che agli occhi ho presente. Ora si dimanda, se mo sia consecutivo anche il moltiplice di cotesta casa, e non è certo cui piacesse accordarlo. Ora però, sì tosto che trasporto e sollevo le mie idee di un oggetto sino alla significazione trascendentale, la casa non è più cosa in sé stessa, ma è soltanto apparizione, una rappresentanza cioè, della quale non è conosciuto l’oggetto trascendentale. Cosa è dunque ciò cui sottintendo nella dimanda: come possa essere congiunto il moltiplice nell’apparizione (non ostante che nulla in sé stessa)? Qui si considera, qual rappresentazione,
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ciò che risiede nell’apprensione successiva; ma l’apparizione che mi è data, non ostante che altro non sia, tranne il complesso di tali rappresentazioni, si considera come l’oggetto della medesima, col quale deve trovarsi d’accordo il mio con dalle rappresenta zioni dell’apprensione. Consistendo pertanto la verità nell’accordo della cognizione coll’oggetto, è ben tosto veduto, altra non aver qui luogo dimanda che delle condizioni formali della verità empirica; e non potersi perciò rappresentare il fenomeno, in contro-rapporto colle rappresentanze dell’apprensione, se non qual oggetto loro, da loro distinto, dato che l’apprensione soggiaccia ad una regola, che la distingue da qualunque altra, e rende necessaria una qualche specie di riunione del moltiplice. Nel fenomeno adunque l’oggetto è ciò, che
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la condizione contiene della detta legge necessaria dell’apprensione.
Ora progrediamo nella proposta quistione. L’accadere alcunché, il cioè diventar qualche cosa o stato, che prima non era, ciò non può empiricamente percepirsi, a meno che preceda un’apparizione, che tale stato in sé non contenga; essendo sì poco suscettiva di essere appresa, che lo è già il tempo vuoto, una effettività (cosa di positivo), cui vuoto, come dissi, precedesse il tempo. Qualunque apprensione di un evento è dunque una percezione, che tien dietro ad un’altra. Il che però comportandosi nel modo, che ho più sopra dimostrato (nell’apparizione di una casa) in ogni sintesi d’apprensione, così da un’altra. Solché osservo inoltre, che, se in un’apparizione, la quale capisca un avvenimento, chiamo A
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lo stato precedente la percezione, e B lo stato susseguente, B può succedere ad A soltanto nell’apprensione; che però la percezione A non può seguire a B, ma soltanto precedervi. Veggo p. e. una barca giù trasportata per la corrente del fiume. La mia percezione della posizione della nave, sotto la corrente, succede alla percezione della di lei situazione, al di sopra della medesima, ed è impossibile che, nell’apprensione di cotesto fenomeno, debba la barca essere percepita prima sopra, e poi sotto la ripetuta corrente. Costì è dunque determinato l’ordine di successione delle percezioni nel concepimento, ed è questo obbligato al detto ordine. Nell’esempio antecedente della casa le percezioni mie, nell’apprensione, potevano muovere dal tetto e finire alle fondamenta, come potevano anche da queste incominciare
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per far punto alla sommità così apprendere ugualmente a destra che a sinistra il moltiplice dell’intuizione. Nella serie di queste percezioni adunque non era fissato alcun ordine, che rendesse necessario di empiricamente congiungere il moltiplice, perché avesse in noi principio l’apprensione. Ma la detta regola deve sempre aver luogo, e sempre s’incontra, nella percezione degli avvenimenti; come legge, che rende necessario l’ordine delle percezioni consecutive (nell’apprensione di siffatte apparizioni).
Nel nostro caso pertanto mi sarà mestieri derivare la successione subbiettiva d’apprensione dalla successione subbiettiva di apparizione; ché altrimenti la prima è del tutto indeterminata, e niuna distingue apparizione da un’altra. Da sola, essendo affatto arbitraria, essa non indica nulla, rispetto all’accoppiamento
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del moltiplice nell’oggetto. L’obbiettiva dunque consisterà nell’ordine del moltiplice dell’apparizione, giusta il qual ordine l’apprensione dell’uno (ciò che accade) segue, coerentemente ad una legge, all’apprensione dell’altro (che precede). Solo perciò potrà essere autorizzato a dire dell’apparizione stessa, e non solo dell’apprensione mia propria, incontrarsi nella prima una successione; il che torna lo stesso che se dicessi, non potere io collocare altrimenti l’apprensione, che precisamente in questa successione.
Dietro siffatta legge, adunque, in ciò che generalmente precede un avvenimento dev’essere inerente la condizione di una regola, giusta la quale succede ognora e necessariamente l’evento in discorso; dove che invece non posso da questo retrogradare, non che determinare
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(mediante apprensione) ciò che antecorre. Perciocchè dal momento successivo non retrocede alcun’apparizione verso il precorso; benché si riferisca sempre ad un qualche antecedente; mentre, per lo contrario, è necessaria la progressione da un dato tempo ad un tempo determinatamente consecutivo. Essendo quindi pur sempre qualche cosa ciò che segue, debbo di necessità riferirla generalmente a qualche altra cosa che precede, ed a cui quella segue giusta una qualche regola, così necessariamente cioè, che nella sua qualità di condizionato, l’avvenimento fornisce indicazione sicura ad una qualche condizione: ed è questa che determina l’accidente.
Suppongasi ad un avvenimento nulla precedere, a cui dovesse quello seguire legittimamente. Ogni successione, in tal caso, avrebbe solo e semplicemente luogo nell’apprensione,
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sarebbe cioè affatto subbiettiva, non però quindi obbiettivamente fissato e distinto con precisione ciò che l’antecedente delle percezioni, e ciò che dovess’esserne il conseguente. Per la qual guisa non avremmo che un giuoco di percezioni, che non si riporterebbe ad alcun oggetto: con che intendo a dire, che non verrebbe a distinguersi, mercé la nostra percezione, un’apparizione dall’altra, nei rapporti loro vicendevoli; riescendo la stessa ed unica dappertutto la successione nell’atto apprensivo, e non essendovi quindi nulla, che la stabilisse nell’apparizione, in maniera da rendere per ciò necessario, come obbiettivo, un certo conseguimento. Non dirai pertanto, in tale supposto, uno dopo l’altro succedersi due stati nell’apparizione; ma solo dirai, che un’apprensione tien dietro all’altra: locché non è che subbiettivo,
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non determina oggetto veruno, e non può quindi né per ombra competergli valore di cognizione, intorno a qualsivoglia oggetto (né tampoco nell’apparizione).
Dunque ogni qual volta la sperienza ne fa scorti accadere alcunché, in ciò sempre supponiamo una qualche precedenza di quanto, a cui segue, in virtù di legge, l’evento. Il che se infatti non fosse, non potrei dire che l’oggetto seguisse; giacché, limitata soltanto all’apprensione mia propria, la successione senza essere determinata, mediante legge, che ad alcuna cosa preceduta si riferisca, non giustifica nell’oggetto alcun succedimento. Che io renda obbiettiva pertanto la subbiettiva mia sintesi (d’apprensione), ciò accade sempre in conseguenza e rispetto ad una regola, giusta la quale vengono determinate nella successione loro, mediante lo stato
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antecedente, le apparizioni, quali esse accadono; e la sperienza medesima di alcuna cosa, che accade, non è possibile altrimenti, che data esclusivamente la mentovata supposizione(1).
Pare veramente che ciò ripugni
(1) La serie dei fenomeni potrebb’essere puramente successiva, una successione cioè, la quale non esprimesse che una concatenazione subbiettiva nell’apprensione. Ma da ciò non consta per anco se avrebbe dessa luogo anche obbiettivamente nella pluralità dei fenomeni. Tuttavia, siccome ad ogni fenomeno, che incomincia, si vede che non fa che precedere, e non potrebbe seguire, lo stato anteriore a codesto incominciamento, bisogna che in tal caso la concatenazione subbiettiva delle appercezioni sia determinata dalla concatenazione obbiettiva dei fenomeni. Dal che risulta, che il principio di causalità, od efficienza, rende possibile il conoscere obbiettivamente i fenomeni secondo le relazioni loro nella successione del tempo.
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a quante si fecero in ogni età osservazioni sul procedere nell’uso del nostro intendimento; come quelle che insegnano essere noi guidati, non prima che mediante percezione, confronto ed accordo della successione di parecchi avvenimenti colle precedute apparizioni, allo scoprimento di una legge, in conformità della quale succedono sempre dati accidenti a date apparizioni, e non prima che per tal mezzo avere noi occasione, onde concepire la causa. La qual concezione sarebbe in tal modo soltanto empirica; e la legge, cui essa procaccia e prescrive dello avere tutto quanto accade una causa, verrebbe ad altrettanto accidentale che la sperienza medesima. Non sarebbero quindi che fittizie la universalità e necessità di legge cosiffatta, e non competerebbe loro alcuna vera e generale autenticità,
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come quelle che a priori non già, ma sarebbero soltanto basate sull’induzione. Accade però lo stesso di queste, come di altre rappresentazioni pure anticipate (p. e. spazio e tempo); le quali per ciò solo ricaviamo dalla sperienza, quali idee chiare, che le avevamo già riposte in essolei, e riducevamo quindi ad effetto la sperienza, in grazia solo, e col mezzo, delle dette rappresentanze. Certo che la chiarezza logica di queste rappresentazioni di una legge determinante la serie degli accidenti, come di un concetto di causa, non è possibile, se non dappoiché ne facemmo uso nella sperienza; ma un certo risguardo però alla medesima legge, come a condizione della unità sintetica delle apparizioni nel tempo, era tuttavia fondamento alla stessa sperienza, e lei precedeva conseguentemente a priori.
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Egli è dunque mestieri perché si dimostri con esempi, che mai non attribuiamo, neppure nella sperienza, la successione (di un accidente ove succede qualche cosa, che prima non era) all’oggetto; e che la distinguiamo dalla successione subbiettiva della nostr’apprensione, quasicome in forza di una legge fondamentale, onde siamo costretti osservare piuttosto quest’ordine di percezioni che un altro; e che anzi tal necessita è proprio quella, che rende possibile finalmente la rappresentanza di una successione nell’oggetto.
Sono in noi stessi percezioni, onde possiamo farci consapevoli. Per quanto estesa però, e per quanto precisa ed accurata, si voglia questa coscienza, quelle tuttavia rimangono pur sempre semplici rappresentazioni, vale a dire determinazioni od interne affezioni dell’animo
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nostro in questa o quella relazione di tempo. Come ne vien egli fatto, adunque, di a queste rappresentazioni un oggetto apporre, s’elle non sono che modificazioni; o come si può egli, oltre la realtà loro subbiettiva, una obbiettiva eziandio, né saprei quale, attribuire alle medesime? La significazione obbiettiva non può consistere nel rapporto con altra qualunque rappresentazione (di ciò cui dovesse denominarsi dall’oggetto); ché altrimenti verrebbe a rinnovarsi la dimanda, come riproducasi tal rappresentazione da sé medesima, e come acquisti significazione obbiettiva, oltre già la subbiettiva che ad essa compete, qual determinazione dello stato dell’animo. Se ti prenda vaghezza d’investigare qual nuova indole somministri la relazione con un oggetto alle tue rappresentazioni, e qual esse quindi acquistino dignità, scoprirai
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ch’essa relazione altro non fa che rendere in certa maniera necessario l’accoppiamento delle rappresentazioni, e sottoporlo ad una legge; dove, per lo contrario, non è che in grazia della necessità di un ordine determinato, nella relazione di tue rappresentazioni col tempo, che loro si ascrive significazione obbiettiva.
Nella sintesi delle apparizioni accade sempre in un modo successivo il moltiplice delle rappresentazioni. Ora non viene per ciò rappresentato verun oggetto; attesoché mediante siffatta successione, altronde comune alle apprensioni tutte quante, non ha punto luogo distinzione di parti. Tosto però che percepisco (o presuppongo) essere in questa successione un rapporto collo stato antecedente, e da siffatto rapporto seguirne, secondo qualche legge, la rappresentazione, ecco rappresentarsi
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alcunché, in qualità di accidente o di ciò che avviene; voglio dire che riconosco un oggetto, cui debbo riporre in certa situazione determinata nel tempo; situazione, che dallo stato antecedente non può essergli altrimenti assegnata. Quando adunque percepisco succedere alcuna cosa, ciò che, prima di tutto, si contiene in tale rappresentazione, si è che altra qualche cosa precede; giacché, appunto in grazia di questa, riceve l’apparizione il suo rapporto col tempo, l’esistenza cioè risguardo ad un tempo antecedente, in cui essa apparizione non era. Ma ella non può acquistare, in tale rapporto, il suo posto determinato nel tempo, che mediante presupposizione di qualche cosa nello stato antecedente, alla quale succeda costantemente, in conformità cioè di una regola, quell’apparizione. Dal che risulta
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che, in primo luogo, non mi è lecito retrogradare una serie, premettendo ciò che accade a quello, cui esso tien dietro; in secondo luogo, che, posto lo stato antecedente, deve di necessità ed inevitabilmente succedere quel determinato avvenimento. Dal che risulta, essere tralle nostre rappresentazioni un ordine, in cui l’attuale (in quanto già fosse accaduto) indica un qualche stato precedente, come correlativo, quantunque ancora indeterminato, di quel già dato evento; il quale stato però si riferisce determinatamente al detto evento, come alla sua conseguenza, e questo congiunge necessariamente a sé stesso nella serie del tempo.
Ora, essendo legge indispensabile della nostra sensibilità, e perciò condizione formale di tutte le percezioni, che il tempo trascorso determini di necessità l’avvenire (giacché
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non posso altrimenti giungere al futuro, che mediante il passato), così è impreteribile niente meno la legge della rappresentanza empirica della serie del tempo; che le apparizioni cioè di già tempo stabiliscono ogni esistenza in quello a venire, e che non ha luogo l’esistenza, in qualità di avvenimento, se non in quanto le apparizioni la destinano nel tempo, voglio dire la stabiliscono, conforme a qualche regola. Perciocché non è che nelle apparizioni, che ci è dato di empiricamente conoscere questa continuità nella connessione dei tempi.
Ad ogni sperienza, e possibilità di sperienza, si richiede intelletto; il cui primo contribuire a quella non consiste già nel rendere chiara e distinta la rappresentazione degli oggetti; ma nel renderla generalmente possibile. Lo che non ha luogo se non mediante il trasportare,
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cui esso fa, l’ordine del tempo alle apparizioni ed alla loro esistenza, assegnando a ciascuna delle medesime, come a successione, una piazza determinata nel tempo, rispetto alle apparizioni precedute a priori; senza il quale assegno, l’apparizione non comunicherebbe neppure col tempo, come con quello che determina il suo posto, a priori, a tutte le di lei parti. Ora tale determinazione de’ luoghi non può già desumersi dal rapporto delle apparizioni col tempo assoluto (che non costituisce oggetto di percezione); ma, per lo contrario, le apparizioni debbono determinare vicendevolmente i posti loro nello stesso tempo, e renderli necessari nell’ordine del medesimo. Con che intendo a dire, qualmente ciò che segue, od avviene, deve succedere, in conformità di una regola generale, a ciò che si conteneva nello
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stato antecedente; onde nasce una serie di apparizioni, la quale produce, mediante l’intelletto, e rende necessario lo stess’ordine appuntino, e la stessa connessione costante nella serie delle percezioni possibili, quale incontrasi a priori nella forma dell’interna visione (del tempo); dove a tutte le percezioni compete un posto determinato.
L’accadere pertanto qualche cosa è una percezione appartegnente a possibile sperienza; la quale si rende positiva sì tosto che risguardi l’apparizione, come determinata, secondo il suo posto, nel tempo, quindi come un oggetto, che può essere sempre incontrato, conforme a qualche regola, nel contesto delle percezioni. Ma questa regola, per la quale determinare qualche cosa, giusta la successione del tempo è che in ciò che precede si trovi la condizione, data la quale ne
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segue ognora (cioè necessariamente) l’avvenimento. Dunque l’assioma della causa sufficiente serve di fondamento ad ogni sperienza possibile; voglio dire alla cognizione obbiettiva delle apparizioni, rispetto al rapporto loro colla successione, per serie, del tempo.
L’argomento fondamentale però del detto assioma poggia unicamente sui momenti che seguono. Alle apparizioni empiriche tutte quante compete la sintesi del moltiplice, mediante l’immaginazione, che è sempremai successiva, succedendovisi costantemente a vicenda le rappresentazioni. La successione però, nella facoltà immaginativa, non è punto né poco determinata con ordine (di ciò che deve precedere o seguire); e può essere presa ugualmente a ritroso che di fronte la serie di alcune delle rappresentazioni consecutive. Se mo
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sarà sintesi d’apprensione (del moltiplice di un’apparizione data) questa sintesi, l’ordine allora viene determinato nell’oggetto: o, per esprimermi con più di precisione, vi è inerente l’ordine di una sintesi successiva, determinante un qualche oggetto; giusta il qual ordine debba necessariamente precedere qualche cosa e, data questa, succedervi l’altra. Se anche la mia percezione deve contenere la cognizione di un avvenimento (allorché realmente accade qualche cosa) bisogna ch’essa consista in un giudizio empirico, in cui si pensi essere determinata la successione; voglio dire ch’essa cognizione supponga preceduto, in quanto al tempo, un altro fenomeno, al quale succede necessariamente, o conforme ad una legge, l’attuale. Se per lo contrario ponessi l’antecedente, e che lui non seguisse di necessità
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l’avvenimento, bisognerebbe che lo reputassi un giuoco subbiettivo di mia immaginazione; che se mi rappresentassi tuttavia qualche cosa di obbiettivo in essolui, dovrei dirla fantasima o sogno. Dunque la relazione delle apparizioni (come possibili percezioni), colla quale viene di necessità e conforme ad una regola determinato nel tempo il consecutivo (ciò che accade), mediante alcunché di preceduto, rispetto alla di lui esistenza, e perciò la relazione fra causa ed effetto è la condizione del valore obbiettivo dei nostri giudizi empirici, risguardo alla serie delle percezioni; la condizione, per conseguenza della verità empirica loro e così della sperienza. Quindi è che il principio fondamentale del rapporto causale, nella successione delle apparizioni, vale anche per tutti gli oggetti della sperienza (sotto le
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condizioni della successione); poiché già fondamento, egli stesso, alla possibilità di tale sperienza.
Ma così emerge un’altra dubbiezza, che deve pur essere tolta. Il principio di concatenazione causale fra le apparizioni è, nella nostra formola; circoscritto alla successione per serie, delle medesime; mentre tuttavia, nell’impiego di quel principio, si trova ch’egli si addice alla comunanza loro eziandio, potendo essere contemporanei la causa e l’effetto. Evvi p. e. un caldo nella stanza, il quale non si incontra nell’aria aperta: cerco la causa e trovo accesa una stufa. Ora questa stufa, come causa, è contemporanea, col suo effetto, il calore della stanza; dunque non è qui serie successiva, rispetto al tempo, tra causa ed effetto, ma ei vanno simultanei; eppure la legge vale. La maggior parte delle cause
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efficienti va contemporanea nella natura cogli effetti loro; e la successione degli ultimi, nel tempo, dipende unicamente dal non potere la causa produrre suo pieno effetto in un istante. Vero bensì che, nel momento in che nasce, va esso già pari passo e simultaneo sempre colla efficienza della propria causa; che se avesse questa cessato un istante, prima di essere, quello non sarebbe stato punto prodotto. Nel che vuole aversi risguardo all’ordine bensì, non però al decorso, del tempo; perciocché il rapporto rimane; quando anche niun tempo trascorra. Il tempo, fra la causalità del motivo ed il di lui effetto immediato, può essere sfuggevole (insieme coll’effetto); ma resta pur sempre determinabile, rispetto al tempo, il rapporto dell’uno coll’altro. Se io considero, qual causa, la palla di piombo che, sur
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un gonfio capezzale giacendo, v’imprime una fossetta, siffatto motivo è contemporaneo coll’effetto. Però li distinguo ammendue mediante la relazione temporaria del dinamico loro congiungimento. Giacché, mentre pongo la palla sul coscino, la fossetta segue alla già liscia figura del medesimo; dove, se nel coscino vi è già (non so d’onde) la fossetta, non ne viene di conseguenza una palla di piombo.
Per le quali cose la successione del tempo è, senza forse, il solo criterio empirico dell’effetto, rapporto all’efficienza della causa, che precede. Il vetro è la causa dello innalzarsi l’acqua sulla sua superficie orizzontale, sebbene le due apparizioni sieno contemporanee. Sì tosto, infatti, che l’attingi col bicchiero da un vaso maggiore, ne segue alcunché, vale a dire il cambiamento dallo stato orizzontale,
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ch’ella dianzi aveva nel secchio, al concavo cui prende nella tazza di vetro.
Questa causalità conduce all’idea dell’azione, questa all’idea della forza, e quindi si viene al concetto della sostanza. Non essendo mio divisamento il rimestare questo critico lavoro, che solo tende alle fonti del sapere sintetico a priori, di ragioni analitiche, tendenti unicamente a dichiarare (non estendere) le idee; così riserbo al futuro sistema della ragione pura una sposizione de[t]tagliata delle medesime: non ostante che s’incontri gran copia di tali analisi anche né già sinora conosciuti libri elementari di questo genere. Ma non posso qui dispensarmi dal por mano al criterio empirico della sostanza, in quanto essa pare manifestarsi assai meglio, e più agevolmente, mediante l’azione, che non fa mediante la perseveranza dell’apparizione.
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Dov’è azione, quindi attività e forza, ivi è pure sostanza; e nella sostanza deve unicamente cercarsi di quella feconda sorgente delle apparizioni la sede. Ciò è detto benissimo; solché, volendo spiegare cosa intendasi per sostanza, ed evitare in siffatta spiegazione il circolo vizioso, l’impresa riesce malagevole anzi che no. Come infatti arguire dall’azione la perseveranza dell’agente, se tuttavia consiste in questa il criterio intrinseco ed essenziale della sostanza (phaenomenon)? Vero bensì non essere poi tanta la difficoltà nello scioglimento di cotesta quistione, attenendoci alle nostre premesse; dov’essa invece riesce inestricabile, attenendosi alla maniera ordinaria (di solo analiticamente procedere coi propri concetti). Azione significa già il rapporto del soggetto della causalità coll’effetto. Poiché ogni effetto pertanto
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consiste in ciò che accade quindi nel mutabile, che nella successione dinota il tempo, così l’ultimo di lui soggetto costituisce il perseverante, come sottostrato a quanto è mutabile in esso; costituisce cioè la sostanza. Dietro il principio di causalità infatti le azioni costituiscono sempre il primo fondamento d’ogni vicissitudine delle apparizioni: ond’è che non le ponno in soggetto incontrarsi, che già cangi egli stesso; ché altrimenti vi si vorrebbero altre azioni ed altro soggetto, che tal vicissitudine determinasse. Or dunque l’azione, qual sufficiente criterio empirico, dinota e prova la sostanzialità, senza che mi sia mestieri di prima indagare, mediante percezioni paragonate, la respettiva perseveranza. Il che neppure per questa strada potrebbe ottenersi con quella perfezione, che si richiede alla grandezza ed al valore
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assolutamente universale del concetto. Perciocché la deduzione, del non potere nascere né perire (nel campo delle apparizioni) il primo soggetto dell’efficienza d’ogni nascita e perimento, è conclusione sicura, che si estende alla necessità e perseveranza empirica nell’esistenza, quindi al concetto di una sostanza come fenomeno.
Allorché accade alcuna cosa, è già oggetto d’investigazione la sola nascita, senza risguardo a ciò che nasce. Ché offre, nel vero, necessità di ricerche il passaggio dal non essere di uno stato a tale stato, accordando pur anco non questo costituire alcuna qualità nell’apparizione. Tale nascita, siccome ho dimostrato nel Num. A, non risguarda la sostanza (che non nasce), ma il di lei stato; ed è quindi mero cambiamento, non già origine dal nulla. Risguardando l’origine qual
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effetto di causa straniera, chiamasi creazione. Questa però non può essere ammessa, in qualità di avvenimento, fra le apparizioni; giacché la sola di lei possibilità farebbe ostacolo ed eccezione all’unità della sperienza. Ciò non di meno, se consideri tutte le cose, non come fenomeni, ma come cose per sé, come oggetti del puro intelletto, sebbene le sieno sostanze, elle possono tuttavia risguardarsi, rispetto all’esistenza loro, comeché dipendano da causa straniera. Ma ciò arrecherebbe necessità di affatto atterrare la significazione dei vocaboli, né si addirebbe alle apparizioni, come ad oggetti possibili della sperienza.
Come, in generale, possa qualche cosa cambiare, come sia possibile che ad uno stato, in un punto (di tempo), ne succeda l’opposto in un altro, ciò è di cui non possediamo il minimo concetto anticipato.
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È necessaria su questo particolare la cognizione di forze positive; la quale non è data se non empiricamente, come sarebbe quella delle forze moventi o, ciò che torna lo stesso, di certe apparizioni successive (quali movimenti), indicanti simili forze. Ma la forma di ogni cambiamento, la condizione, data soltanto la quale può esso avere luogo (sia poi qual si vuole il di lui contenuto, vale a dire lo stato in ch’ei si cangia), nella sua qualità di nascita di un secondo stato, quindi la successione del medesimo stato (l’accaduto) possono tuttavia considerarsi a priori, a norma della legge di causalità e delle condizioni del tempo(*).
(*) Qui non si tratta (nota bene) del cangiamento in generale di certi rapporti, ma di quello di stato. Quando pertanto un corpo si muove uniformemente non cangia
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Trapassando una sostanza dallo stato A nell’altro B, il punto del tempo del secondo stato è diverso da quello del primo, come quello che a questo succede. Precisamente così differisce anche il secondo stato, come realtà (nell’apparizione), dal primo, in cui non era apparizione, siccome B differisce da zero: vale a dire che, non distinguendosi lo sta to B dallo stato A se non rispetto alla grandezza, questo cambiamento consiste nella nascita di B - A; lo che non era nel precedente stato, e, rispetto al quale, il nuovo stato è = 0.
Si dimanda pertanto: come trasmigri una cosa da uno stato = A ad un altro = B. Fra due momenti s’interpone ognora un tempo; e,
punto il suo stato (di movimento): lo cangia bensì quando cresce o scema il suo moto.
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fra due stati, è pur sempre nel detto tempo una differenza, avente una grandezza (quantità; risolvendosi ognora in quantità o grandezze quante sono parti nelle apparizioni). Dunque ogni passaggio da uno stato in un altro ha sempre luogo in un tempo, contenuto fra due momenti; il primo dei quali determina lo stato dal quale sorte la cosa, il secondo quello a cui essa perviene. Quindi è che ammendue quei momenti costituiscono confini al tempo di un cambiamento, e con esso allo stato intermedio fra i due stati in discorso, ed appartengono, come confini, all’intiero cambiamento. Ora compete a qualunque mutazione una causa, la quale dichiara la propria efficienza in tutto quel tempo, in cui ha luogo il cambiamento. Questa causa dunque non produce la sua mutazione istantaneamente (ad un sol
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tratto, vale a dire in un momento unico), ma in un tempo; talché, mentre cresce il tempo dal momento incipiente A sino al suo compimento in B, si genera eziandio la grandezza della realtà (B - A) attraverso tutti i gradi minori, contenuti fra il primo e l’ultimo. Per conseguenza ogni cambiamento è possibile soltanto la mercé di un’azione continuante della causalità in la qual azione, in quanto e finché uniforme, dicesi momento. Non è che da questi momenti consti la mutazione; ma ella viene per essi generata, qual effetto dei medesimi.
Or ecco la legge della continuità d’ogni mutazione: la qual legge ha in ciò fondamento, che né il tempo, né la stessa apparizione del tempo, consistono di parti minime, e che lo stato della cosa, nel suo cambiamento, attraversa tutte queste parti; comeché sieno elementi
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al suo secondo stato. Non avvi alcuna differenza di reale nelle apparizioni, e non è differenza il minimo nella grandezza (quantità) dei tempi. Così emerge il nuovo stato della realtà dal primo stato, in cui questa non era, e tutti percorre gl’infiniti gradi della medesima; le differenze vicendevoli di tutti i quali gradi sono minori della differenza tra zero ed A.
Non quivi spetta rilevare qual fosse per ridondare vantaggio alle investigazioni della Fisica da questo principio fondamentale. Ma è per noi della massima importanza il convincere, come sia desso assolutamente possibile a priori un principio, che sembra tanto estendere il nostro sapere intorno alla natura; non ostante, ch’ei si annunzi a primo aspetto qual vero e giusto, e sembri quindi esimere dalla di manda, se possibile sia. Perciocché
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tanta è la copia delle presunzioni mal fondate ad ampliamento del nostro sapere mercé la ragione pura, che deve ora mai consacrarsi, qual massima fondamentale, il diffidare in proposito di tutto, ed il nulla credere né ammettere, non ostanti le prove dogmatiche le più manifeste sinché mancano documenti, atti a somministrare una deduzione fondamentale.
Altro non costituisce l’aumento qualunque del sapere empirico, o qualsivoglia passo progressivo del concepimento, se non dilatazione dei modi del senso interno, vale a dire avanzamento nel tempo; sieno poi quali si vogliono gli oggetti, apparizioni cioè, od intuizioni pure. Tale avanzamento nel tempo determina tutto, mentre non v’ha nulla che per sé ulteriormente lo determini: voglio dire, solo nel tempo, e mediante la di lui sintesi, non
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però data prima del medesimo, avere luogo le parti del detto avanzamento. Per la qual cosa ogni passaggio (nella percezione) a qualche cosa, che accada nel tempo, è determinazione dello stesso tempo, mediante il producimento di tal percezione; ed essendo sempre, ed in tutte le sue parti, grandezza il tempo, detto passaggio consiste inoltre nella produzione di un concepimento, come grandezza, passando per gradi (niuno de’ quali è minimo) da zero sino al grado suo determinato. Or ecco manifesta la possibilità di conoscere per anticipazione una legge dei cambiamenti giusta la forma loro. Non facciamo che anticipare il proprio nostro concepimento, la condizione formale del quale deve potersi assolutamente conoscere a priori; essendo indigena di noi stessi, prima di quanti sono i fenomeni dati, l’apprensione.
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Nella stessa maniera che il tempo contiene la condizione sensitiva anticipata, per la possibilità di una progressione continuata di quanto esiste a ciò che segue, così mediante l’unità di appercezione, anche l’intelletto è la condizione a priori della possibilità di una determinazione continuata di tutti i posti per le apparizioni in questo tempo, giusta la serie delle cause e degli effetti. Nella qual serie le prime traggono seco inevitabilmente esistenza degli ultimi, e danno quindi valore alla cognizione empirica delle relazioni del tempo (cronache) in ogni tempo (universalmente), e perciò valore obbiettivo.