I. Della differenza tra la ragione pura e l'empirica
II. Del possedersi per noi certe cognizioni anteriori ad ogni senso ed esperienza e del non andar mai digiuno di queste neppure il volgare intendimento
III. Del bisogno che ha la filosofia di una scienza che stabilisca la possibilità, i principi ed il complesso di tutte le nozioni preconcepute
IV. Della differenza tra i giudizi analitici ed i sintetici
V. Dei giudizi sintetici a priori, come inerenti a tutte le scienze teoretiche della ragione
VI. Problema universale della ragione pura
VII. Idea e divisione di una scienza particolare, sotto nome di Critica della ragione pura
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Ben sarà molto il guadagno che avremo fatto, potendo ridurre copia di ricerche sotto la formola di
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una quistione unica. Conciossiaché in tal modo non solo si rende più agevole a se stesso il proprio lavoro, nel determinarselo con tutta precisione, ma si facilita nello stesso tempo a ciascun altro, cui prendesse vaghezza di esaminarlo, il giudicare se avremo a dovere o no soddisfatto al nostro divisamento. Ora il vero problema della ragione pura consiste nella dimanda: Come possano i principi sintetici presumersi o preconcepirsi?
Il non essere prima d’ora mai ricorso al pensiero di nessuno tal quisito, come né tampoco il divario che passa tra i giudizi analitici e i sintetici, è l’unico motivo, perché anche fino a ora la metafisica rimanesse in uno stato sì equivoco d’incertezza e di contraddizioni. Ora il decidere, se debba questa scienza esistere o cadere,
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dipende dallo scioglimento della detta quistione, o da una prova soddisfacente del non avere assolutamente luogo la possibilità, cui la stessa quistione dimanda perché venga dimostrata. David Hume fu quello che le si avvicinò davvantaggio, fra quanti furono i filosofi, quantunque ben lungi ch’ei la considerasse in tutta la sua universalità e determinazione precisa. Perciocché, standosi egli unicamente contento alla massima sintetica della combinazione dell’effetto colla sua causa (principio di causalità), avvisò di quindi ricavare, che una tal proposizione fosse assolutamente impossibile a priori. Talché dalle sue conclusioni risulterebbe, tutto ciò che noi chiamiamo metafisica risolversi o perdersi in un puro capriccio di pretesa cognizione razionale di ciò, che, preso effettivamente in prestito dalla sperienza, avrebbe
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vestito sembianza di necessità, stante la forza dell’abitudine(1). Nella
(1) Nel dimostrare poc’anzi (IV., ultimo paragrafo), essere principio a priori quello; che tutto quanto accade aver deve una causa e produrre un effetto, si è dimostrato qualmente la legge di causalità, che noi trasportiamo a tutta la natura, e posiamo qual base a tutte le nostre osservazioni, è già per se stessa una rappresentazione a priori, che noi attribuiamo per sintesi agli oggetti. Ed è qui dove il filosofo scozzese aprì forse a Kant la strada ch’egli seguì poscia nelle sue speculazioni. Perciocché Hume poneva in dubbio la verità obbiettiva e la necessità del principio di causalità, in quanto non vedeva il principio, sul quale doveva poggiare la sintesi tra la causa e l’effetto, volendo ammettere tal sintesi come necessaria e obbiettivamente vera. Aveva egli bensì veduto e dimostrato non potere appartenere alle cose, in se stesso, il rapporto tra causa ed effetto; ma, non ammettendo niente a priori nell’intelletto, aveva conchiuso questa causalità essere
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qual sentenza, distruggitrice d’ogni pura filosofia, non sarebbe mai venuto
mera nostra fantasia, in grazia dell’abitudine a così vedere le cose. Perciocché gli era fitta in capo la teorica di Locke, la quale deriva dalla sperienza il sapere non solo, ma quegli stessi principi del sapere che la coscienza trova necessari. Il perché dimostrò, come principio necessario del sapere, quello della causalità non poteva dalla sperienza inferirsi, in quanto la sperienza rappresenta bensì una successione di fenomeni, non però quella necessità di concatenazione dei medesimi, cui esprime il principio di causalità. Giacché disse la coscienza della necessità di tale principio doversi ripetere dall’assuefazione acquistata dall’uso di risguardare i fenomeni come sempre associati, perché in effetto s’incontrano quasi costantemente concatenati fra loro, come causa ed effetto, e che, vedendo in tutti un effetto, si suppone ognora un alttro effetto che ne sia cagione. E ben fu trista maniera di risolvere una difficoltà rilevata colla più fina penetrazione; giacché
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quel filosofo, se avesse avuto sott’occhio nella sua universalità
non è chi non senta le conseguenze che risultano per la metafisica, e per tutto l’umano sapere, da un sistema che niega la verità obbiettiva e il principio di causalità. Se non esiste questa nelle cose, come potressimo contrarre l’abitudine di vedervela? Kant adottò le premesse dello scozzese, ma conchiuse altrimenti, vedendo che per salvare l’autorità di quel principio, e non esso esistendo negli oggetti osservati, era indispensabile cercarlo nell’osservatore, cercando il principio a priori, dal quale dipende la necessità della sintesi nell’idea della causalità. Se non obbiettiva in fatti, essa dev’essere subbiettiva, e non v’è strada di mezzo.
Kant però si avvide che il setticismo di Hume poteva estendere ai suoi dubbi sull’idea della causalità sino alla necessità e al valore obbiettivo di tutti i giudizi sintetici a priori; e si propose quindi la dimanda sulla possibilità dei medesimi. Che dal risolvimento di tal quistione dipenda la validità
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la suddetta quistione; poiché avrebbe allora compreso che, stando ai
d’ogni filosofia e d’ogni umano sapere, da ciò solo rilevasi, che la metafisica e le matematiche non costituiscono scienze obbiettvamente positive o non lo divengono, come dimostra in seguito Kant, che in quanto si può trovare la causa che necessari rende i giudizi sintetici a priori. Né qui trattasi già di stabilire quanto abbiano valore siffatti giudizi, ma solo di rilevare che se ne fanno; e, quand’anche se ne trovasse uno solo, sarebbe fenomeno a bastanza interessante per ispirarne il desiderio di farci alle tracce di sua sorgente. Ma li troviamo frammessi a tutte le nostre cognizioni, ed era prezzo dell’opera il giustificarli, come fece Kant mediante la detta quistione, la quale sebbene già prodotta sotto altre forme, fu però da esso esposta in un modo più preciso e scientifico, e pretendesi la di lui critica risolverla molto meglio che non fu fatto finora.
Trattandosi delle cause prime d’ogni pensiero e sapere dell’uomo, già non le
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suoi argomenti, non sarebbe né tampoco possibile una matematica
avrebbe Kant ricercate altrove che nella ragione pura. Giacché il principio della ripugnanza è bensì a non dubitarne il solo ragionevole, rispetto a quanto concerne il pensiero logico, ma non è nello stesso tempo principio del sapere, come quello che già è supposto nel pensiero medesimo. Così, rispetto al sapere, il principio del sapere determina la condizione analitica, non però la sintetica. Dunque la dimanda in discorso non trova risposta nella logica, né questa può essere in conseguenza la base vera della metafisica e delle matematiche. Se gli antichi sistemi di metafisica risguardarono sotto questo aspetto la logica, ciò è per non aver posto mente alla differenza che passa tra’ giudizi analitici e sintetici, e perché nell’ontologia p. e., dopo aver proceduto a dovere nell’analisi dell’idea logica degli oggetti, si cadeva nella sintesi senza avvedersene, o piuttosto credendo procedere colla stessa esattezza che dianzi, e si veniva quindi poco a poco ad avvilupparsi in
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pura, come quella che certamente contiene principi sintetici a priori; e da tal sentenza ben lo avrebbe allora guarentito il suo buon senso.
La soluzione del mentovato quisito comprende inoltre la possibilità dell’uso puro della ragione, onde fondare non che ridurre a perfezione tutte le scienze consistenti nella cognizione teoretica degli oggetti
contraddizioni inestricabili. Che anzi alla stess’analisi è d’uopo che preceda la sintesi, onde quella abbia luogo; e, per quanto sembri agevole a primo aspetto il dichiarare la possibiltà de’ giudizi analitici, tale agevolezza non tarda scomparire, appena si riflette che bisogna sempre muovere dallo spiegare la possibilità de’ giudizi sintetici. Dunque le ricerche non ponno limitarsi al principio del pensiero nella ragione, ma deggiono tendere specialmente alla scoperta del principio del sapere, e della sua connessione (sintesi) col pensiero.
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a priori, essa comprende cioè le dimande:
Com’è possibile la matematica pura?
Com’è possibile la fisica pura?
Delle quali scienze, poiché di fatto esistono, sarà certamente lecito il chiedere come sieno possibili; giacché l’esistere loro in effetto è prova che debbono essere possibili(*).
(*) Chi dubitasse darsi effettivamente una fisica pura, ponga mente alle diverse proposizioni, che occorrono sul principio di ogni fisica sperimentale, come sarebbero quelle del perseverare la stessa quantità nella materia; dell’inerzia dei corpi; della eguaglianza nell’azione e reazione e così via discorrendo. E sarà tosto convinto simili proposizioni costituire una fisica pura (o razionale); che ben sarebbe degna di essere trattata separatamente, come scienza particolare in tutto il suo complesso, sia che poi questo angusto riescisse o esteso.
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Ma risguardo alla metafisica, i tristi progressi ch’ella fece sino a ora, e il non potersi, da nessuna delle metafisiche sino a ora comparse, inferire, per ciò che ne risguarda lo scopo essenziale, ch’ella esiste di fatto, sono tali circostanze da indurre chiunque a dubitare con fondamento sulla di lei possibilità.
Tuttavia la maniera metafisica di sapere può in certo senso ritenersi eziandio come data ed esistente: e, se non come scienza, la metafisica esiste in effetto come disposizione della natura (metafisica naturale). Perciocché, spinta l’umana ragione dal proprio bisogno, anziché da mera vaghezza o ambizione di sapere gran cose, avanza incessantemente, sino a che giunge a tali quistioni, che non possono essere soddisfatte da verun uso empirico della ragione, o da principi quindi
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ricavati. Dal che ne viene che una qualche metafisica esiste realmente in ciascun uomo, tosto che la di lui ragione si estenda e innalzi alla speculazione; e tal metafisica vi è stata in tutti i tempi, ed esisterà sempre in avvenire nell’uomo. E qui sorge a proposito la domanda: com’è possibile la metafisica, come disposizione naturale? vale a dire, come nascono dalla natura dell’universale intendimento degli uomini le quistioni, che la ragione pura propone a se medesima e alle quali vien’essa per proprio bisogno eccitata rispondere il meglio per lei possibile?
Siccome però, a malgrado di quanti mai si fecero tentativi, pei quali rispondere a queste dimande, come sarebbero se il mondo ebbe principio o esiste ab eterno e simili, s’incontrarono sempre inevitabili
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contraddizioni, così non c’è verso che possiamo starci contenti alla sola disposizione naturale per la metafisica, voglio dire alla pura facoltà della stessa ragione, onde sorge sempre, lo ripeto, una qualche metafisica; sia poi qual si vuole cotesta. Ma deve pur essere possibile il giungere con esso lei alla certezza di conoscere o non conoscere le cose; a cioè decidere o sugli oggetti di sue dimande, o sulla capacità o incapacità della ragione, rispetto al portare alcun giudizio sui medesimi; e a, per conseguenza, estendere con sicurezza la nostra ragione pura o confinarla entro cancelli certi e determinati. La qual questione, che pure finisce dal problema universale summentovato, ridurrebbesi a con ogni buon diritto dimandare: Com’è possibile la metafisica, come scienza?
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Dunque la critica della ragione pura guida finalmente guida alla scienza per necessità. Per lo contrario l’uso dogmatico della ragione, senza critica, scorge a sentenze prive di fondamento; alle quali essendo sempre sì lecito, che agevole, il contrapporne di altrettanto appariscenti, ne viene di conseguenza ch’esso conduce al scetticismo.
Né può tale scienza essere di sì enorme ampiezza da sgomentarsene; giacché non ha essa che fare con oggetti razionali, dei quali è infinita la suppellettile, ma solamente con se stessa, e con questioni che nascono unicamente dal di lei grembo. Queste quistioni poi non le vengono già presentate per la natura di cose da essa diverse, bensì per la sua propria; così che ove abbia essa imparato a ben conoscere la propria capacità,
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rispetto agli oggetti che potessero nella sperienza occorrerle, sarà facil cosa il determinare con sicurezza e pienamente i limiti e la circonferenza dell’uso ch’ella sarà per tentare di se stessa, oltre ogni confine di sperienza.
Possono dunque, anzi deggiono, risguardarsi come non accaduti quanti si fecero tentativi, onde ridurre dogmaticamente a effetto una qualche metafisica. Quanto infatti nelle diverse metafisiche incontriamo di analitico, voglio dire la semplice notomia dei concetti, anticipatamente intrinseci alla nostra ragione, ben lungi dal costituire lo scopo della vera metafisica, quello cioè di sinteticamente ampliare il proprio sapere a priori, non è che preparatorio alla medesima. Ma è non di meno inetto al detto scopo, attesoché non indica se non quanto
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è contenuto in quei concetti, non però com’ei s’acquistino a priori, per quindi potere inoltre determinare il loro legittimo impiego universale, risguardo agli oggetti d’ogni sapere. Per poi rinunziare a tutte queste pretese non è mestieri che di rinegare alquanto se stesso; dacché le già innegabili, e anche nella maniera dogmatica inevitabili, contraddizioni della ragione con se medesima resero da lungo tempo assai meno autorevoli, e screditarono anzi, quante furono finora metafisiche. Ben sarà invece mestieri di maggiore fermezza per non lasciare invilire o trattenere né dalle intrinseche difficoltà, né dall’esterne opposizioni, e per potere finalmente una volta, mediante coltivamento affatto contrario al praticato finora, promuovere non solo, ma ottenere che alligni, cresca e fruttifera divenga una scienza, indispensabile
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all’umana ragione; onde ben si potranno recidere i rami già pullulati, non però le radici estirpare.