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CRITICA ELEMENTARE TRASCENDENTALE
PARTE PRIMA
ESTETICA TRASCENDENTALE
SEZIONE PRIMA - DELLO SPAZIO
I. Della differenza tra la ragione pura e l'empirica
II. Del possedersi per noi certe cognizioni anteriori ad ogni senso ed esperienza e del non andar mai digiuno di queste neppure il volgare intendimento
III. Del bisogno che ha la filosofia di una scienza che stabilisca la possibilità, i principi ed il complesso di tutte le nozioni preconcepute
IV. Della differenza tra i giudizi analitici ed i sintetici
V. Dei giudizi sintetici a priori, come inerenti a tutte le scienze teoretiche della ragione
VI. Problema universale della ragione pura
VII. Idea e divisione di una scienza particolare, sotto nome di Critica della ragione pura
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Per isposizione trascendentale intendo la dichiarazione di un concetto, come di un principio, dal quale sia quindi per comprendersi la possibilità di altre cognizioni a priori. Al qual divisamento si richiede 1. che tali nozioni derivino veramente da quel dato concetto; 2. che le nozioni medesime non sieno possibili altrimenti, che premessa una data maniera di spiegare il concetto.
La Geometria è una scienza che definisce le proprietà dello spazio colla sintesi e, non ostante, a priori. Ora, perché possa venirne siffatta cognizione dello spazio, in cosa dovrà consistere la di lui rappresentazione? Dev’essere in origine
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una visione; giacché da una mera idea non sarà mai verso di cavare assiomi; come quelli che già deggiono trascendere l’idea: ed è ciò che succede non pertanto in Geometria (Introd., V). Ma questa visione deve in noi stessi riscontrarsi a priori, voglio dire avanti qualsivoglia percezione di oggetti, e deve per conseguenza essere visione pura e non empirica. Gli assiomi geometrici di fatto (come quello p. e.: avere lo spazio tre sole dimensioni) sono apodittici, vale a dire intrinsecamente combinati colla coscienza di loro necessità; ed assiomi di questa fatta non saranno mai giudizi empirici o sperimentali, né mai potranno quindi argomentarsi (Introd., II).
Ma come può trovarsi (allignare già prima) nell’animo una esterna visione, la quale preceda il di lei oggetto medesimo, e nella quale
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debba essere a priori determinata di questo l’idea? Certo in verun’altra maniera, eccetto solo che tale visione abbia già stanza, dirò così, o sia inerente nel soggetto, come disposizione formale del medesimo ad essere affetto dagli oggetti, ed a quindi riceverne l’immediata rappresentazione, cioè la visione; per conseguenza come forma del senso esterno.
Dunque è questa la sola spiegazione, per la quale comprendere la possibilità della geometria qual cognizione sintetica per anticipazione. Ove la qual cosa non venga egualmente somministrata (dimostrata) per qualunque altra maniera di spiegazione, ciò servirà di criterio per cui distinguerla con sicurezza dalla nostra, quand’anche le fosse quell’altra somigliantissima in apparenza.
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a) Lo spazio non rappresenta la minima delle proprietà di qualunque sieno le cose, né per sé stesse, né rispetto ai rapporti loro colle altre: non rappresenta cioè veruna modificazione loro che fosse per sé stessa inerente agli oggetti, e che vi rimanesse, anche facendo astrazione da tutte condizioni subbiettive della visione. Conciossiaché, prima dell’esistenza delle cose, alle quali competono le modificazioni, siano esse assolute o relative, non sarà mai possibile che tu ravvisi alcuna di queste o di quelle a priori.
b) Lo spazio non è altro che la forma di tutte le apparizioni dei sensi esteriori, ossia la condizione subbiettiva della sensibilità, per la quale sola può darsi esterna visione. E, siccome la suscettività del
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soggetto, ad essere affetto dalle cose presentate, deve necessariamente precedere quante sono le visioni di tali cose, così riesce agevole a convincersi che devi ammettere anteriore a tutte percezioni effettive, perciò a priori e come preesistente nell’animo, la forma delle apparizioni quante sono; e riesce ugualmente manifesto come possa tal forma, qual visione pura, nella quale devono essere definiti tutti gli oggetti, comprenderne in sé stessa i principi e le relazioni, anteriormente ad ogni sperienza.
Per le quali cose non ci sarà lecito ragionare dello spazio, né di esseri estesi e simili, tranne data la condizione umana (come uomini). Che se ci allontaniamo dalla condizione subbiettiva, senza la quale non può darsi esterna visione, alla maniera in che ne affettano gli oggetti ed in quanto possono
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affettarci, la rappresentazione dello spazio non significa più nulla. Perciocché tal predicato viene solo attribuito ed applicato alle cose, in ragione che le ci appariscono, in quanto cioè sono presentate alla sensibilità. Ora la forma costante di quella suscettività, cui diciamo sensibilità, è condizione indispensabile di tutti i rapporti, nei quali ravvisiamo gli oggetti, come fuori di noi; e, se facciamo astrazione da tali oggetti, essa è una visione pura, quella cioè cui dicono spazio. Non potendo noi delle condizioni particolari della sensibilità farne delle condizioni della possibilità delle cose, ben ci sarà lecito asserire, lo spazio comprendere tutte quelle, che mai potessero estrinsecamente apparirci, non però tutte le cose considerate in sé medesime, sia poi che le si veggano o no, e da qual che si voglia soggetto. Ché
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sulle apparizioni di altri soggetti pensanti non ci è punto concesso il giudicare, se quelle soggiacciano alle stesse condizioni, che circoscrivono e costituiscono la nostra visione, e che hanno, risguardo a noi, un valore universale. Se poi all’idea del soggetto applichiamo la restrizione di un giudizio, allora il giudizio acquista un valore assoluto. Pronunziando, tutte le cose nello spazio essere l’una presso dell’altra, la proposizione regge, od ha valore, sotto la restrizione: se le cose vengono considerate quali oggetti della nostra visione sensitiva. Se poi quivi aggiungo la condizione all’idea, e dico: tutte le cose, come apparizioni esteriori, essere nello spazio una presso l’altra, in tal caso la regola (o massima) regge od ha valore universale senza restrizione. Per siffatta maniera le nostre sposizioni persuadono
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la realtà, voglio dire il valore obbiettivo dello spazio, rispetto a tutto quanto potesse occorrerne dal di fuori, come oggetto; e persuadono inoltre nello stesso tempo la idealità dello spazio, rispetto alle cose considerate per ciò che sono in sé stesse, dalla ragione, senza risguardi cioè alla circostanza e condizione della nostra sensibilità. Io sostengo adunque la realtà empirica dello spazio (risguardo ad ogni possibile sperienza esteriore); quantunque ammetta la trascendentale idealità del medesimo; voglio dire non essere lo spazio più nulla, tostoché ommetti la condizione della possibilità d’ogni sperienza: e quantunque lo ammetta qualche cosa, che serve per sé stessa di fondamento a tutte le altre.
Tranne quella dello spazio però, altra non abbiamo rappresentazione subbiettiva, risguardante ad anche
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un nonnulla di esteriore, la qual possa chiamarsi obbiettiva. Perciocché da nessuna, fra le altre, ponno derivarsi proposizioni sintetiche a priori, come se ne derivano dalla visione nello spazio (§ 3). Quindi è che loro non compete, in istretto senso, alcuna idealità; quantunque vadano in ciò d’accordo colla idea dello spazio, ch’esse appartengono meramente alla condizione subbiettiva della forma del senso, come della vista, dell’udito, del tatto mediante le sensazioni dei colori, dei suoni e del calore; le quali però, essendo mere sensazioni e non visioni, non danno a riconoscere in sé stesse alcun oggetto, o non lo danno certamente a priori.
Lo scopo di questa osservazione tende solamente ad impedire, che alcuno si lasciasse cadere in pensiero potersi, come non può, la qui asserita idealità dello spazio
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illustrare per via d’esempi, che ben lungi sarebbero dal corrispondere all’uopo; giacché i colori, il gusto e simili, non già come qualità delle cose, ma vengono giustamente considerati come semplici mutazioni del nostro soggetto; le quali mutazioni possono essere perfino diverse ne’ diversi individui. Perciocché, in questo caso, ciò che originariamente non è che apparizione, come sarebbe una rosa, in senso empirico ha valore intrinseco (per sé stesso) di cosa, che può tuttavia sembrare differente a qualunque occhio la miri. Dove per lo contrario l’idea trascendentale delle apparizioni nello spazio è un quasi come ricordo critico, nulla in generale di quanto si osserva nello spazio essere una cosa per sé; come né tal forma essere delle cose lo spazio, che fosse intrinsecameate propria delle medesime:
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ma che gli oggetti non ci sono assolutamente noti per sé stessi; ciò cui diamo nome di oggetti esteriori altro non essere che semplici rappresentazioni della nostra sensibilità; delle quali è bensì forma lo spazio, ma che il vero correlativo delle medesime, vale a dire la cosa per sé stessa, non è perciò riconosciuta, né anzi è mai caso che la si riconosca: ed è quanto per verità neppur mai si ricerca nella sperienza.