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Il mare Atlantico, ovvero l’Oceano occidentale, è quell’immenso bacile di mare fra l’Europa, e l’Africa da un lato, e l’America dall’altro. Nel Nord, e nel Sud ha per confini i due mari Glaciali. Questo mare
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è il più cognito ai navigatori, e la strada maestra del traffico comune fra il mondo antico e ’l moderno, fra le Indie orientali e le occidentali, in somma il legame che unisce tra loro l’Europa, l’Asia, e l’America. A cagione della sua vasta estensione si suole dividerlo anche in due mari, e limitare particolarmente il nome di mare Atlantico alla metà settentrionale, che si estende dal mare del Nord, nel 50° di latitudine fino all’equatore, chiamando la parte meridionale, cioè dall’equatore fino al mare Glaciale meridionale, mare Etiopico.
Il nome di mare Atlantico è stato preso dal monte Atlante, il quale si vede dalla punta occidentale dell’Africa, o da quella grande isola Atlantide, la quale, secondo ciò che ci narra Platone ne’ passi qui sopra accennati(1), deve essere stata in mezzo a questo gran mare, in faccia alle colonne di Ercole, o secondo il linguaggio odierno, incontro allo stretto di Gibilterra. Dicesi che dal suo seno sia venuta una nazione
(1) Plato Timaeus edit . Bipont, vol. IX. p. 298. Critias tom. X. pag. 39.
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guerriera, le quale abbia sottomesso l’Europa e l’Africa fino in Egitto, e che conquistando la Grecia in questa solamente abbia trovato degli ostacoli; che un tremuoto l’abbia poi in appresso distrutta e precipitata in que’ flutti sopra i quali per lungo tempo aveva esteso il suo potere. La speranza di trovare gli avanzi di quest’isola, e le sue ricchezze lodate da Platone, fu una delle cagioni che si intraprendessero tanti arditi viaggi per mare, i quali produssero la scoperta delle isole Canarie, e dell’America. Ambedue con più o meno buoni fondamenti furono riconosciute per l’Atlantide di un tempo. Nell’America si trovarono la fertilità e la ricchezza dell’Atlantide, e que’ regni potenti de’ quali Platone aveva parlato; per le isole Canarie parlò la situazione, cioè in faccia all’Africa, poco distante dallo stretto di Gibilterra; ed in fatti non sembrano altro che le cime ed i gioghi di montagne di una terra sprofondata, le di cui valli e pianure sono altamente coperte dal mare. A ciò si unisce ancora, che su Teneriffa, presso il popolo de’ Quanschi, si trovano alcune usanze che si credette di doverle considerare
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come i primi rozzi tentativi dell’arte egiziana.
Questi Quanschi, o Quanchi, o Guanchi, abitanti i più antichi delle isole, e generalmente uno de’ popoli più rimarcabili ed enigmatici della terra, oggidì sono quasi estinti. Il colore della loro pelle, come assicura Glass(1) è più bianco che quello degli Spagnuoli dell’Andalusia. Quell’uomo che servì di guida per condurre sul Pico il seguito di Macartney era di statura alta, di una forte ossatura, di lineamenti marcati nel viso, di ciglia alte, di prominenti ossa delle guancie, ed il naso e le labbra erano un poco piatti, quasi come quelli de’ Negri. Secondo Bory de S. Vincent, dopo che il Papa Clemente XI regalò le Canarie all’Infante di Spagna, e dopo che Luigi de la Cerda, e molti altri avventurieri, conquistarono le isole suddette per la Corte di Madrid, i Quanschi sono stati interamente estinti, alla qual opera l’inquisizione mise ancora l’ultima mano, di modo che da 150 anni a questa parte non n’esiste più alcuno;
(1) History of the Canary Islands , Lond . 1764.
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e quelli che si fanno credere per tali presso i viaggiatori, il medesimo Bory de S. Vincent li dichiara ingannatori, e mendicanti furbi. In generale nega Bory l’esistenza de’ Quanschi, la quale è stata confermata da Glass, e particolarmente da Macartney. Quest’ultimo sostiene che la Corte di Spagna faccia tributare una somma tenue ai pochi discendenti de’ neri Quanschi in contrassegno della loro indipendenza. Anche Goldberry è persuaso della loro attuale esistenza. Le loro mumie si trovano particolarmente nelle catacombe di Teneriffa. Queste catacombe erano chiuse, e l’entrata era guardata da un ordine di vecchi, onde il popolo non ne prendesse nozione. Le Mumie non sono preparate con resina come quelle degli antichi Egiziani, o involte in fascie, ma sono imbalsamate sì artificiosamente con ispezierie vegetabili, che conservano benissimo la pelle, ed i capelli, e sono cucite ingegnosamente nelle pelli di capre di concia molto delicata. Essi per mancanza della cognizione de’ segni geroglifici posero sopra queste mumie alcuna iscrizione, come hanno fatto gli Egiziani, i di cui geroglifici sulle mumie contengono probabilmente qualche notizia
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riguardante il morto, o la di lui famiglia. Il ragguaglio più esatto sopra di esso ce lo dà Don Giuseppe de Viera y Clavigo nelle sue classiche Noticias de la Islas de Canaria, tom. I. pag. 175. – Queste mumie sono ancora sì rare in Europa, che ne’ Gabinetti si possono contare dieci mumie d’Egitto contro una de’ Quanschi. Il cavaliere de Borda portò seco due mumie, maschio e femina, che si conservano ambedue intatte sino ad ora nel grande gabinetto di storia naturale a Parigi. Cosa v’ha dunque di più sicuro che que’ grandi conquistatori del mondo antico, passando di qua, e conquistando l’Africa settentrionale e l’Europa, abbiano potuto introdurre le loro scienze ed arti, per esempio l’imbalsamare, nell’Egitto, la qual arte però in appresso fu portata ad una maggiore perfezione? Secondo quello che ci assicura Golberry(1), le isole Canarie, le Azore, e quelle del capo Verde, portano segni visibili della loro antica coerenza coll’Africa, e della distruzione accaduta in appresso. Se osserviamo, dic’egli pag. 34, che il capo
(1) Ved. il suo viaggio tom. I. p. 33.
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Malpayseco, sulla costa dell’sola delle Canarie Fuerte Ventura è distante solamente 24 miglia dalla punta occidentale della parte d’Africa che sta incontro ad essa, saremo inclinati ad accettare che queste due terre ferme, forse per mezzo di un istmo, siano state concatenate. Quindi possiamo figurarci due stati di questa terra antica; l’uno in cui l’Atlantide continuò senza interruzione fino a questa terra sprofondata, formando in tal caso una parte di terra appartenente all’Africa; l’altro in cui come isola fu divisa dal continente dell’Africa, cioè l’Atlantide di Platone. Questo secondo stato finì colla sua intera esistenza(1).
Da tutto ciò si deduce con molta probabilità che tutto il fondo del mare sia stato per lo passato esposto ai raggi del sole e che abbia contenuto terre, campagne, alberi, animali e uomini, come al contrario, che tutta la terra ferma sia stata mare.
(1) Per istruirsi maggiormente sull’Atlantide veggansi l’opera di Delisle intorno alla Storia del Mondo, e degli uomini, tomo I; la Storia dell’Astronomia dell’antichità di Bailly tomo I; e le lettere sull’Atlantide di Platone, sull’antica storia dell’Asia di Bailly.
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Il primo gran seno che forma il mare Atlantico sulla costa orientale è il mare di Biscaglia, di una larghezza considerabile. Esso principia da Brest solto quel largo stretto di mare il quale si estende sopra di esso fra la punta della Brettagna ed il promontorio Lezard, e finisce presso il promontorio Ortegal. La punta più interna trovasi fra Bavonne e S. Sebastiano. Di qua fino in su a Rochefort e Rochelle la costa va in dentro e dal Sud al Nord monta quasi in linea retta.
Propriamente incontro al seno di Biscaglia giace la costa avanzata di Labrador, e l’isola di Terranova. Questi due pezzi di saranno propriamente sufficienti per riempire il detto seno di Biscaglia.
Del resto è questo mare di Biscaglia uno de’ più profondi, e le onde vi vanno nella circonferenza più vasta. I navigatori lo passano con piacere, e non mai vi accadono delle disgrazie. Esso non gela mai, e non mai vi si sono veduti de’ campi di ghiaccio provenienti dal mare del Nord, e molto meno essersi questi fermati degli anni come sulla costa opposta di Terranova, e su’ banchi di sabbia che quivi si trovano.
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Dal Promontorio Ortegal la costa va con alcune curvature verso il Sud ovest, poi a dirittura verso il Sud (dirigendosi però un poco verso l’ovest presso l’imboccatura del Tago) fino al Promontorio di S. Vincenzo. Di qua salta interamente verso l’est per formare fra il Portogallo, la Spagna e l’Africa un grande seno, la di cui cala settentrionale più profonda è chiamata la Baja di S. Lorenzo.
Propriamente nella parte orientale di questo seno si apre, fra le rocce immense di Gibilterra da un lato, e Tanger e Centa dall’altro, lo stretto grande chiamato lo Stretto di Gibilterra, o detto semplicemente lo Stretto. Esso ha 6 miglia geografiche di lunghezza, e 3 di larghezza, e non si restringe maggiormente che alla distanza di un miglio geografico. Con grande impeto si precipita ivi l’Oceano nell’interno della terra ferma, ove occupa una estensione di più che 80000 miglia quadrate, in quasi 900 miglia di lunghezza, e bagna le coste dell’Africa, dell’Asia e dell’Europa, per la qual cosa ha ricevuto questo gran seno il nome di mare Mediterraneo. Questo mare è sì grande, che
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le sue parti isolate hanno ricevuto de’ nomi particolari.
Questo mare fino alla costa di Orano, Cartagena non ha una larghezza rilevante, ma dippoi mentre la costa meridionale corre a dirittura verso l’Est fino a Tunisi, la settentrionale scappa verso il Nord, e forma nella Spagna, primieramente fra Valencia e Barcellona, una baia profonda, la quale è coperta dalle isole Pitiuse, o Baleari, che vi giacciono avanti.
Più verso il settentrione giace il seno di Lione, e più avanti quello di Genova, il quale potrebbe rinchiudere dentro di sé la Corsica e la Sardegna; e probabilmente si formò questo seno da una gran forza che strappò queste isole dalla terra ferma, e le lanciò nell’alto mare.
Fra queste isole v’ha un passaggio stretto chiamato dagli antichi ταρρον (fosso). Essi lo stimarono solamente di 8000 passi, ed osservarono che le isole Caniculari ancora lo restringevano(1). Oggi lo chiamiamo lo
(1) Rivens histor. nat. 3 6. Pelagus Africum attinagens Sardini minus octo millibus passuum a Corsicae extremis etiamnum angustias eas arctantibus insulis parvis quae Caniculariae appelantur, itemque Phintonis et fossae, a quibus fertum ipsum Taphros nominatur; questo, preso in senso contrario, è molto più probabile.
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stretto di S. Bonifacio. Esso non è pericoloso, ma malgrado ciò non vi si naviga, poiché i bastimenti, non avendovi alcun traffico, passano o sopra la Corsica, o sotto la Sardegna.
Questa due isole, compresa l’Italia, e la Sicilia, formano un bacile nel mare Mediterraneo chiamato per lo passato mare Tyrrhenum, ed ora mare Italico. Il capo, e le isole Capraia ed Elba, ne formano l’entrata; e lo stretto, o il Faro di Messina la sortita.
Sotto la Sicilia, anzi propriamente più sotto le isole Egee, cominciando dal capo Bon, cede la costa africana verso il Sud Est fino a Tine. Quivi si alza a dirittura verso il Nord fino a Barca. Il pezzo tagliato dall’Africa è precisamente così grande come l’Italia e la Sicilia, comprese le piccole isole che le circondano. La Sicilia empie il seno di Sydra ossia la gran Sirta, il seno di Cabes, ossia la piccola Sirta, e coperta da una parte
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della Sardegna, mentre l’altra unita alla Corsica colma il seno di Genova. Osservato ciò, non abbiamo che ad indovinare, come e dove queste terre erano collocate.
Nello stretto presso Messina vi ha il vortice tanto temuto dagli Antichi (Scilla e Cariddi) che non sapevano schivarlo, e del quale si formarono le idee più spaventose, immaginandosi de’ mostri, i quali ad altro non pensavano che alla rovina de’ navigatori(1). Lo scilla era formato dagli scogli, e la Cariddi era un vortice presso le coste della Sicilia(2). Chi voleva fuggire dall’uno cadeva nell’altro(3). Lo Scilla trasformarono in un mostro marino simile ad un cane che latra, e che tutto inghiottisce(4); e del vortice
(1) Hygin fol. 125. Scilla è un nome fenicio dedotto da Scol, che nella favella fenicia significa morte, ruina, ed esterminio. Tzetzes ad Lycophron v. 45.
(2) Pomp. Mela lib. 2. c. 7. Scylla Saxumest; Charybdis Aare utrumque noxiam ad pulsis.
(3) Secondo il verso conosciuto, il quale era diventato proverbio: Incidit in Scyllam qui vult vitare Charybdin.
(4) Virg. Aen. 3. v. 420 Dextrum Scylla latus, laevum implacata Charybdis, Obsidet, atque imo barathri ter gurgite vastos.
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se ne fece un gorgo pel quale si gettava l’acqua furibonda nelle volte sotterranee, d’onde poi partiva nuovamente in una grande distanza(1). Presentemente questo stretto non è più pericoloso, e ci costa fatica l’immaginare
Sorbet in abruptum fluctus, rursusque sub auras Erigit alternos, et sidera verberat unda. Ovid. Met. 8. Quid quod nescio qui mediis concurrere in undis Dicuntur montes ratibusque inimica Charybdis Nunc sorbere fretum, nunc reddere, cinctaque saevis Scylla rapax canthus siculo latrare profundo. Lucret. lib. V. v. 890. Aut rapidis canibus succinctas semimarinis Corporibus Scyllas. Ovid. Amor. 2. 16 . Nec quae Virgineo portenta sub inguine latrant, Nec timeam vestras, curva Malea, Sinus.
(1) Seneca epist. 79 in Expecto epistolas tuas, quibus mihi indices, circuitus Siciliae totius quid tibi novi ostenderit, et omnia de ipsa Charybdi certiora: nam Scyllam saxum esse et quidem non terribile navigantibus, optime scio: Charybdis an respondeat fabulis, perscribi mihi desidero. Et si sorte observaveris (dignum est autem ut observes) fac nos certiores, utrum uno tantum vento agatur in vortices, an omnis tempestas, aeque mare illud contorqueat: et an verum sit, quid quid illo freti turbine abruptum est, per multa millia trahi conditum, et circa Tauromenitarum littus emergere. E nel frammento Sallust. I. V. si legge: Charybdis quae forte illata naufragia sorbens gurgitibas occultis millia LX Tauromenitana ad littora trahit.
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la cagione che ha fatto nascere simili voci, e chimere.
Se ora tali pericoli più non conosciamo, in parte n’è cagione la nostra marina molto meglio organizzata dell’antica, ed in parte poi la diminuzione del mare mediterraneo, il quale, come tutt’i mari rinchiusi, pare essersi in fatti abbassato, siccome fu già osservato dagli antichi. E si spiegarono tal fenomeno nella seguente maniera allegorica; la Cariddi, dissero, bevve un sorso dal mediterraneo, per cui furono visibili le cime delle montagne; indi un secondo sorso che mostrò la terra ora asciutta; e se ne prendesse finalmente un terzo inghiottirebbe tutta acqua. Ora il mare essendosi veramente abbassato, non può più aver luogo una corrente tanto violenta, e questa non può più opporsi con tanta veemenza come fece per lo passato, alloraquando fu abbondante. Oltre di ciò, pare anche che questo stretto sia diventato più vasto pel continuo flusso e riflusso del mare, di quello che fu per lo passato. Strabone in fatti calcola la larghezza di questo stretto, in quel luogo ove ha la minima estensione, cioè fra Aley e Posidonium
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a 6 stadi(1), i quali stadi si debbono intendere per italiani, come i più lunghi(2), e secondo i quali calcola Plinio; onde ne nascerebbero 750 passi, ovvero 3750 piedi. Ora questo stretto ai tempi di Plinio era largo 1500 passi, cioè 12 stadi(3) (quale allargamento considerabile!) ed ora è più largo del doppio. Hudson calcolò la larghezza dello stretto a cinque miglia, e la celerità della corrente a due miglia inglesi in un secondo; ma egli non potè ivi trovare alcun fondo.
Una tradizione assai antica e comune dice, che la Sicilia sia stata divisa dall’Italia da un tremuoto. Plinio lo sostenne con sicurezza(4), come egualmente Ovidio(5).
(1) Lib. V. edit. Casaub. exc. ab. Eust. Vignon. an. 1587 p. 177. lin. 43. seq .
(2) Gli stadi italiani secondo Plinio H. N. II. 23 e Colum. V. 1. 6 avevano 125 passi ovvero 625 piedi. Lo stadio Olimpico aveva solamente 600 passi, ed il Pitio 500.
(3) Plin. hist. nat. 3 cap. 5 fin. ex Italia Coenis ex Sicilia Pelorum 12 stadiorum intervallo.
(4) Lib. 3. cap. 8 Sicilia quondam Bruttio agro cohaerens mox intertuso mari avulsa.
(5) Metam. XV. 290.
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… Zancle (l’antico nome di Messina) quoque juncta fiuisse Dicitur Italiae: donec confinia pontus Abstulit et media tellurem reppulit unda.
E Silvio Italico si spiega non meno preciso a questo riguardo(1). Ausonia pars magna jacet Trinacria tellus: Ut semel expugnante Noto, et vastantibus undis, Accepit freta ceruleo propulsa tridente, Namque per occultum caeca vi turbinis olim Impaetum pelagus laceratae viscera terrae Discidit, et medio perrumpens arua profundo Cum populis pariter convulsas transtulit urbes.
E secondo accenna Eustachio(2), si potrebbe indicare il tempo in cui è ciò accaduto. Egli dice, che all’epoca di questa rottura violenta abbia regnato in Sicilia Acasto figlio di Eolo; la qual epoca cadrebbe in circa quel tempo cui gl’Israeliti sortirorono dall’Egitto. Oltre Tenaquit Faber, ha cercato particolarmente Facelli fra i moderni di fissare il tempo di questo staccamento dall’
(1) Lib. XIV. v. 10.
(2) Comment. ad Dionys. Perieget. V. 498. vedi Tanag. Fabri epist. lib. I. ep. 14 .
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Italia(1): basterebbe solamente indicare l’epoca di questo avvenimento, poiché il modo nel quale è accaduto ci presenta molto meno difficoltà per ispiegarlo. In fatto non solo la figura dell’insieme, ma benanche la situazione delle sponde, e gli strati di terra confermano quest’opinione, che nulla può renderla insussistente, o solamente inverosimile. Ma con qual forza deve essere passato il mare alloraquando si aprì questo stretto? Quanti scogli vi saranno restati sott’acqua i quali in appresso tolse via la durata del tempo! Passato questo stretto, la di cui lunghezza è stimata dagli antichi e da’ moderni 15000 passi, cioè poco meno di un miglio, vediamo formarsi subito sulla parte orientale dell’Italia un seno di mare assai lungo, il quale dal Sud est si estende al Nord ovest, ed è stato dagli antichi chiamato mare Adriatico, e da’ moderni Golfo di Venezia. Esso è perfettamente da cosiderarsi come un mare interno, e presso Otranto, e la Valona è quasi chiuso. Esso è poco salato, poiché riceve
(1) De rebus Siculis Panormi 1558, e nel Thes. Sicil. Tom. IV.
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molti fiumi; la sua posizione lo rende bastantemente sensibile al flusso e riflusso, del quale se ne trovano ivi de’ segni maggiori che sul resto del Mediterraneo. Nel 860 questo Golfo gelò in modo che si entrò in Venezia con carrozza e cavalli(1). Lo stesso accadde pure nel 1234, in guisa che i mercanti veneziani spedirono le loro mercanzie per vetture ove loro pareva(2). Sopra una carta dell’Italia esattamente disegnata si osserverà chiaramente che a ciascuna sponda dell’Italia che salta in fuori corrisponde un’altra nella Dalmazia, che rientra, e ciò in modo come se queste due sponde formassero le rive di un fiume.
La sponda orientale di questo Golfo si estende dicontro all’Italia, e forma incontro alla Sicilia, sotto il 38° di latitudine, il piccolo seno di Lepanto, chiamato dagli antichi Criseo, in fondo al quale una piccola lingua di terra nominata Istmo di Corinto (presso gli antichi Peloponesus) unisce colla terra ferma la penisola Morea.
(1) Herrmann contractus ap. Pistor. Script. tom. II. p. 236.
(2) Matth. Paris p. 78.
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Al di là di questa penisola vi è l’Arcipelago, o il grande gruppo delle isole greche, le quali è molto probabile che altro non sieno che gli avanzi di una terra distrutta da’ flutti del mar Nero. Basta che contempliamo la posizione di esse per restarne persuasi. Tutto quello, che si possa dire intorno al Mediterranco sarà qui appresso accennato, allorché saranno rappresentate più chiaramente all’occhio, e rese anche più visibili le diverse forze che a ciò operarono, e le diverse circostanze che vi concorsero.
Il considerare il mare Mediterraneo come un seno dell’Atlantico, non è tanto fuori di proposito; poiché il mare Atlantico si precipita palesemente in quello. Tuttavia è questo l’unico esempio che l’Oceano, contro il suo proprio movimento, formi un seno verso l’Oriente. Tutt’ i seni che l’Oceano si forma trovansi sulla parte orientale del continente, e corrono verso l’Ovest nel modo col quale l’Oceano corre dall’Est all’Ovest; e se esso ha formati de’ seni nell’Ovest, come il Baltico, è certo che questi sono seni apparenti, e veri assoluti mari antichi, i quali si scaricano in esso, come il suddetto Baltico, ed il mare interno sulla parte meridionale
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dell’America, ambidue i quali scorrono nell’Oceano senza ricevere dell’acqua da questo.
Niente dunque è più probabile, di quel che l’Arcipelago sia presso alla sorgente, ed all’origine del mare Mediterraneo, e che questo mare non sia un seno antico ed originario, ma che si sia formato più tardi per mezzo di una violenta rottura.
Ciò è tanto chiaro, che in ogni tempo molti sono stati di questa opinione. Plinio la rapporta solamente come ipotesi che però tiene per assai credibile(1), e di cui non si dovrebbe giudicare con tanta leggerezza. Solino è dubbioso se debba far venire questo mare dello stretto Gaditano (presso Cadice, cioè stretto di Gibilterra), o dal Bosforo Tracio: ma anch’egli è molto persuaso che il Mediterraneo è un mare nuovo e non primitivo(2).
(1) Histor. Nat. lib. IV. cap. 13. Non est omittenda multorum opinio priusquam digrediamur a Ponto, qui maria omnia interiora (inferiora) illo capite nasci non Gaditane fretu existimavere, haud improbabili argumento, quoniam aestus semper, Ponte profluens, numquam reciprocetur.
(2) Salm. Polyhist. c. 22. Quoniam in Ponticis [218] rebus sumus non erit omittendum unde mediterranea maria caput tullant. Existimant enim quidam sinus istos a Gaditano freto nasci , nec altam esse originem, quam inundationem interrumpentis Oceani : cujus spiritu pervagante apud aliquot mediterranea littora sicut in Italiae parte, fieri accessus vel recessus . Qui contrarium sentiunt, omnem illum fluorem ajont a ponticis faucibus inundare: idque falciunt argumento non inani, quod aestus e Ponto profluus nunquam reciprocetur.
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Più circostanziato di tutti però si è spiegato fra gli antichi Strabone sopra l’origine del Mediterraneo(1), e quello che dice merita di essere qui accennato «Eratostene stima degno di esaminare come in mezzo al suolo dell’Africa, nella distanza di due in tre mila stadi dalle sponde (del mare Mediterraneo) si trovi una quantità di conchiglie marine, di ostriche, di pietre rotolate dal mare con impronte di prodotti marittimi(2), e stagni di acqua salata. Così intorno al tempio di Giove Ammone, e lungo la strada di
(1) Strab. Geogr. lib. I. ed Ss. Casaub. ab an 1587 p. 33. seq.
(2) Κηραμιδν τλῆιος. Sotto questo nome non possiamo forse intendere altro che pietre scavate, lavate dalle onde per mezzo del rotolare, oppure pietre fornite d’impronti di creature marittime.
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3000 stadi che vi conduce, trovasi una quantità di conchiglie, di sal marino, e d’altre deposizioni del mare. Quivi si mostrano ancora pezzi grandi di navi marittime naufragate, delle quali gli abitanti narrano, che sieno state gettate fuori della terra. Oltre di ciò si trovano colonne, ove sono scolpiti Delfini con iscrizione che mostra che gli abitanti di Cirene le avevano inviate ai giuochi pubblici. Dopo aver Eratostene ciò raccontalo cita l’opinione di due celebri fisici su questo soggetto, cioè Strabone e Xanto di Lidia, dicendo che l’ultimo avesse di spiegare questo fenomeno con una siccità straordinaria accaduta ne’ tempi di Artaserse, e per la quale i laghi, ed i fiumi e fonti si sono disseccati; aggiungendo in oltre di aver veduto egli stesso, lontano dal mare, conchiglie o pietre conformate dal movimento delle onde, e coperte d’impronte di creature marittime, ed oltre di ciò stagni salati nell’Armenia, in Matiene, e nella Frigia inferiore, che lo hanno persuaso che que’ campi in principio sieno stati fondo di mare. Strabone al contrario, il quale è disceso ad un esame più profondo, sostiene che il mare Eusino per lo passato non abbia avuto uno sbocco
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presso Bizanzio (Costantinopoli), ma che la quantità de’ fiumi, che in questo mare si scaricano l’abbiano aperto per forza, e che l’aqua sia entrata nella Propontide, e nell’Ellesponto; e che la medesima cosa sia accaduta pure col mare Mediterraneo, volendo che presso le colonne di Ercole si sia formato uno stretto di mare, poiché abbondasse della quantità di acqua introdottavi da’ fiumi per mezzo di questo sgorgamento sieno venute fuori dell’acqua molte regioni, le quali per l’addietro n’erano coperte. Per sostenere questa sua opinione osserva egli prima, che il suolo del mare esterno (mare Atlantico) è di qualità tutta differente da quella del suolo dell’interno (del Mediterraneo); poi, che ancora al presente una cresta di colline come una fascia attraversa lo stretto nella direzione dall’Africa all’Europa, poiché il mare esterno, ed il mare interno assolutamente non sono stati uniti. Osserva indi che il Ponto (mar Nero) ha la minima profondità, la maggiore avendola al contrario quello di Creta, della Sicilia, della Sardegna; perché siccome molti fiumi, ed i maggiori vengono dal Nord e dall’Est, il Ponto facilmente si empie di fango, mentre
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che gli altri mari rimangono profondi; onde avviene che l’acqua del Ponto è dolce, e che la medesima scende dove il fondo è più basso. Egli è di parere che se questi fiumi continuino ad introdurvi tanta sabbia e fango, l’intero Ponto abbia da rassomigliare ad una diga innalzata; e già in fatto la sinistra del Ponto forma una semplice palude poco profonda, particolarmente sulla costa di Salmidesso, e laddove fra il Danubio ed il deserto della Scizia si trovano quelle da’ viaggiatori così chiamate Staethae(1), cioè banchi di sabbia, colline soprastanti, fondi bassi visibili. Strabone stesso anche è di parere che il tempio di Ammone sia stato per l’addietro vicino alle sponde del mare, e che ora, essendo calata l’acqua, questo tempio si trovi lontano dalle sponde. Egli s’immagina che quell’oracolo sia divenuto tanto famoso per essere stato situato vicino
(1) OTÁIN – στήθος propriamente detto quella parte del corpo umano, la quale sopravanza particolarmente nell’acqua quando si nuota sul dorso. Virgilio chiama tali luoghi dorsum aras.
Saxa vocant Itali, mediis quae in fluctibus Aras,
Dorsum immane mari summo.
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al mare; poiché non è punto credibile che abbia potuto acquistarsi tanta fama se ne giaceva distante. Anche crede che l’Egitto, ne’ tempi più remoti, sia stato bagnato dal mare fino alle paludi presso Pelusio, fino al monte Casio, e fino al Lago Moeris (Serbonides); ed infatti ancora al presente si può cavare del sale nell’Egitto, ed in tale operazione si trovano degli strati di sabbia e di conchiglie in segno che vi sia stato il mare, e che abbia questo avuto comunicazione col mare rosso ec.
Diodoro di Sicilia nel quinto libro dice che per lo passato il Ponto sia stato solamente un lago formato dalla concorrenza di alcuni fiumi, ma che coll’andare del tempo, a cagione della quantità e grandezza de’ fiumi stessi che in esso sboccano, siasi accresciuto si considerabilmente, che prima si fece un’apertura dalla parte delle Isole Cianee, e poi dalla parte dell’Ellesponto.
Questo sgorgamento dev’essere stato tanto più violento, ed ha dovuto cagionare la nascita del Mediterraneo tanto più presto, quanto per lo passato, prima di aver sfogo presso Bizanzio, si estese molto più sul lato opposto, comunicando col mare Caspio,
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anzi col lago di Aral. Tournefort ha osservato quest’antica comunicazione del mar Caspio col mar Nero, come parimente Buffon(1), e vari viaggiatori moderni, e particolarmente P. S. Pallas ne parla nelle sue osservazioni sopra un viaggio fatto nelle sue osservazioni sopra in viaggio fatto nelle provincie meridionali dell’Impero russo nel 1794, I vol. Lips. 1799. Passando da Astracan verso la linea del Caucaso s’incontra una quantità di ramificazioni d’acque, nelle di cui vicinanze giacciono in qua ed in là molti laghi salati, i quali nell’estate depongono del sale più o meno in quantità. Secondo la loro posizione nella vicinanza del mar Caspio, e secondo la loro qualità, non possono essere altro che seni prodotti da questo mare, i quali col ritirarsi a poco a poco dal mare stesso hanno perduto la loro antica comunicazione con esso, e quindi per mezzo dell’evaporazione si è in loro aumentata la quantità del sale in proporzione della quantità dell’acqua che contengono. Il numero maggiore di tali laghi ritrovasi nell’interno
(1) Storia natur. gener. vol. I. divis. 2 Storia e teoria della terra. Storia natur. gener. vol. I. divis. 2 Storia e teoria della terra.
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del vasto deserto, nel quale poté deporsi una quantità di acqua. Partendo inoltre da Shedel si passa sopra colline considerabili di sabbia, le quali dimostrano apertamente di essere state formate a strati dal vento. Esse per lo più si estendono verso il Nord ovest, occupano una striscia sufficientemente larga del deserto, ed interrompono la pianura che senza di loro si estenderebbe dal mar Caspio fino al lago Salato, dal quale nasce il fiume Manytsch, che poi si scarica nel Don. La corrente di acqua situata un poco più verso il settentrione sullo stesso lato, incontro all’imboccatura del Donec, la quale poi sbocca nel Don, e lega una catena di laghi salati, è ugualmente un avanzo profondo del mare antico, ed indica ancora la sua antica comunicazione colla Sarpa, ora divisa da colline di sabbia. Se questa sabbia, la quale ha otturato pure lo sbocco del Kumal, non vi esistesse, il mare Caspio innalzandosi un poco sboccherebbe nel Manytsch. Lungo la strada, che da Alaguba va verso Kislar trovò Pallas le traccie chiarissime dell’antica comunicazione fra il mare Caspio, ed il Seno Meotide. Nella distanza di 26 Werste e mezzo da Alaguba, verso il Sud ovest,
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sorte dal mare Caspio un braccio d’acqua con molti seni verso l’ovest, e per molte werste continua il suo corso nel deserto basso, formandovi il gran lago Bianco. (I Tartari lo chiamano Ak-Kus, i Kalmuchi Zagann-Noor, ed i Russi Bielo Josero). La sua comunicazione col mare dai Kalmuchi è chiamata Erken-Aman. Fra la situazione bassa di Alabuga, e la corrente d’acqua Bianco è rimarcabile ancora un altro seno interno, formato dall’abbassamento del mare, il quale è pieno di laghi, e di stagni giuncosi, chiamato Bugatta. Distante 23 werste dal lago Bianco si arriva ad uno degli antichi sbocchi del fiume Kuma, il quale viene da una grande distanza, e passa in mezzo al deserto meridionale. Questo forma de’ seni di comunicazione; nell’estate in parte si dissecca, e senza arrivare al mar Caspio si perde fra le colline di sabbia ne’ piccoli laghi. Questa corrente di acqua si chiama in que’ contorni Kudük. Ancora due altre correnti d’acqua, cioè Malaja-Kuma, e Seredin Kuma, egualmente non giungono al mare, di modo che l’intero fiume di Kuma (il di cui letto principale corre ancora al di là di quel terzo sbocco secondario) in mezzo a laghi concatenati,
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e seni di acqua, e dopo aver formato vari piccoli stagni in poca distanza dal seno, si perde nelle sabbie portate dal vento, senza sboccare realmente nel mare. Quando però i venti del sud innalzano il mare da questo lato, cacciando l’acqua contro il seno di mare Kumskoi Kulkuk, ossia Kosukai, che giace alla diritta degli sbocchi ciechi del Kuma, allora l’acqua passa dentro i laghi del Kuma, e la corrente di esso pare avere uno sbocco regolare.
I vitelli marini, e molti pesci e conchiglie, comuni ad ambidue i mari, sembrano confermare che dall’imboccatura del Danubio fino al lago di Aral vi abbia esistito una comunicazione per mezzo di piccole paludi, e fiumi, o che tutto quel terreno sia stato sott’acqua, e probabilmente era un tal lago vicino al Zarizyn, ove il Don e la Wolga si avvicinano di più. La natura dell’intera linea di Zarizyn, la quale è coperta da quattro luoghi fortificati, lo prova ramente; come anche vediamo dai ruscelli i quali sboccano quivi nella Wolga e nel Don, cioè il Kamyschenka e la Zariza nella Wolga, e la Lawla nel Don. Anche è quivi ristabilita la comunicazione fra il Don e la Wolga,
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per mezzo di canali che passano dal Kamischenka verso la Lawla. Zarizyn stesso giace sotto il 48° 20' di latitudine settentrionale in una regione assai fruttifera. Pallas nel 3 tomo de’ suoi viaggi ha cercato di fissare l’antico circuito di questo mare secondo i confini verosimili, particolarmente al di là de’ deserti di Astracan e del Yaick, e crede che questi confini vengano formati dalle alle pianure della Russia, le quali circondano il deserto. L’intera superficie di questo deserto ha indubitatamente tutt’ i segni di un antico fondo di mare; i fossili, e la terra argillosa salata, mista di conchiglie marittime calcinate che coprono tutti que’ contorni, sono prove sufficienti per riconoscere l’origine di essa. Le pianure intorno al Dnieper hanno il medesimo aspetto(1). Rich. Candler crede(2), che un tempo si estendesse il mare fino alle sorgenti del Meandro, e che fra le montagne Messeghis e Tauris vi formasse un seno. Altri hanno trovato de’
(1) Ved. Description de l’Ucranie du Sr. Guil. le Vasseur Sr. de Beauplan, à Rouen 1660. 4. pag. 9.
(2) Travels. in Asia minor.
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segni più recenti dell’estensione del mare nelle pianure dell’Asia minore, della Persia e del Danubio, molto distante da’ confini odierni del mar Nero, e del mar Caspio. Lo sgorgamento subitaneo di questo alto mare, mentre forse per un tremuoto si ruppe la sua diga presso Costantinopoli, doveva inondare non solamente le basse regioni, ma produrre anche lo scoprimento di molte terre asciutte, che per l’addietro stavano sott’acqua. Il mar Caspio ed il mar Nero, dovevano formare de’ bassi fondi, e diventare più piane le coste (come in fatti lo sono): molte colline e banchi di sabbia dovevano naturalmente innalzarsi sulla superficie dell’acqua, e questi due mari come i luoghi più profondi, essere interamente divisi l’uno dall’altro dalla terra posta fra loro. La poca profondità del mar Nero era già conosciuta dagli antichi; e Polibio, il quale lo descrive con somma accuratezza(1), la rappresenta come assai poco considerabile, credendo però che la cagione di tal fenomeno unicamente
(1) Histor. lib. IV. c. 40-42. edit. Jac. Cronor, tom. I. pag. 428-433.
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si possa attribuire al fango ed alla sabbia introdottavi dalla quantità de’ fiumi. In oltre teme egli che il Ponto si empia interamente di limo, il quale possa otturare lo sfogo. Secondo il suo calcolo questo caso dovrebbe essere già accaduto, di che Tournefort molto ne ride. Ma considerando il mar Nero, ed il mar Caspio come i siti più profondi dell’alto mare Mediterraneo, i quali nello sfogo unicamente vi restarono; ed il Don e la Wolga come i canali più profondi di esso, che ambidue si conservano per mezzo delle sorgenti poste in quelle montagne che per l’addietro formavano le sponde del mare; allora potremo spiegare tanto la poca profondità del mare, quanto il decremento dell’altezza dell’acqua, proporzionatamente più sensibile ne’ tempi degli antichi, e non troveremo più ridicolo il timore di Polibio, benché questo avvenimento non sia ancora accaduto a tutto rigore. Oltre di ciò, essendo certo che il mar Nero è posto più alto del Mediterraneo, non vi resta alcuna impossibilità che questo mare non possa scaricarsi interamente in quello: ma finora tale accidente non ha potuto aver luogo, poiché quaranta fiumi considerabili (cioè
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il Danubio, il Don, il Dnieper, il Dniester ec. ) impediscono questo scolo totale.
Fra i fiumi che sboccano nel mar Nero sette sono stati calcolati da Tournefort(1) tanto importanti, e ricchi di acqua, quanto possa contenere il Bosforo Tracio in modo, che ciascuno dovrebbe rimpiazzare la sua perdita.
Malgrado tutto questo nessuno può dire che il mar Nero sia diventato più profondo(2); anzi sulle sponde si è abbassato, d’intorno s’è accresciuto il terreno. Gli antichi rare volle osarono di navigare in mezzo a questo mare, ed in que’ siti ove passarono le loro navi forse in oggidì è terra ferma. Finalmente, Polibio non ha determinato l’epoca nella quale dovesse aver luogo il cangiamento del mar Nero in un deserto di sabbia, poiché ne parla piuttosto come di un fenomeno da effettuarsi molto insensibilmente, ed in tempi assai remoti; e ciò è pur troppo probabile, poiché tutt’i navigatori
(1) Voyage du Levant. tom. II. p. 123.
(2) Buffon hist. Nat. tom. 2. art. XI, crede che le quantità di melma e di sabbia, che i fiumi vi introducono, ne sia la cagione.
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si lagnano de’ bassi fondi, e degl’incomodi che ne nascono, come le onde corte ed alte in tempo di burrasca ec.
La maggior estensione del mar Nero, come l’ha stimato Bonne, non importa già 300 miglia marittime, ovvero 225 geografiche, ma (nella direzione da Warna fino a Fats) 214 miglia marittime, ossia 160 e mezzo geografiche, come nel 1791 la trovò Beauchamp in gran parte per mezzo di osservazioni astronomiche, nel suo viaggio da Costantinopoli a Trapezunt, o Trabisonda.
Non solamente è possibile, ma egli è probabile, che questo antico mare, ora sgorgato, abbia avuto per confine meridionale la catena del monte Caucaso ove forınava seni, e ricevea fiumi, e che sulla parte settentrionale di questa catena, ove giacevano Ason ed Astracan, fosse congiunto, estendendosi lungo il Don e la Wolga, e concatenato col lago Ladoga e col mar Caspio. Plinio, Strabone, Solino, e gli altri antichi dicono che dal mar Nero si poteva andare in tre giorni alla grand’isola di Scandinavia(1). Plinio
(1) Solin. cap. 12. Autor est Xenophon Lampsacenus [232] a littore scytharum in insulam Balthiam triduo navigari, ejus magnitu linem immensam et pene similem continenti. Osservando in questo momento di trascurato uno de’ passi principali degli antichi riguardo alla cognizione che avevano del mare Glaciale settentrionale , mi sarà permesso di riportarlo qui sotto. Oceanum septentrionalem ex ea parte, qua a Parapamiso amne scythiae alluitur, Hecathaeus Amalchium appellat, quod gentis illius lingua significat congelatum mare. Phisemon Cimbris ad promontorium Rubeas Morimarusam dicit vocari: hoc est mortuum mare. Ultra Rubeas quisquid est, Cronium nominant.
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fa pure menzione di alcuni Indiani portati da tempeste nella Germania, verso il Re di Svezia, per provare che il mar Caspio nel Settentrione si estende più verso l’occidente, e gira intorno alla Germania. Egli dice, «Nepos de Septentrionali circuitu tradit. Q. Metello Celeri, Galliae Procons. Indos a rege Suevorum dono datos, qui ex India commercii causa navigantes, tempestatibus essent in Germaniam abrupti». Ancora più chiaro ne parla Mela nel 3 lib. alla fine del 5 Capit. «Ultra Caspium Sinum quidnam esset; ambiguum aliquandiu fuit. Idemne Oceanus an tellus infesta frigoribus, sine ambitu ac sine fine projecta. Sed praeter physicos, Homerumque, qui universum orbem mari circumfusum
a littore scytharum in insulam Balthiam triduo navigari, ejus magnitu linem immensam et pene similem continenti. Osservando in questo momento di trascurato uno de’ passi principali degli antichi riguardo alla cognizione che avevano del mare Glaciale settentrionale , mi sarà permesso di riportarlo qui sotto. Oceanum septentrionalem ex ea parte, qua a Parapamiso amne scythiae alluitur, Hecathaeus Amalchium appellat, quod gentis illius lingua significat congelatum mare. Phisemon Cimbris ad promontorium Rubeas Morimarusam dicit vocari: hoc est mortuum mare. Ultra Rubeas quisquid est, Cronium nominant.
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esse dixerunt,cornelius Nepos, ut recentior autor, ita certior, testem autem rei. Q. Metellum Celerem adjicit, cumque ita retulisse commemorat: Cum Gallis Proconsule praeesset, Indos quosdam a rege Suevorum (Vossius ex Conj. Bactorum), dono sibi datos; unde in eas terras de venissent requirendo, cognosse vi tempestatum ex Indicis aequoribus abrepto, emensasque quae intererant, tandem in Germaniae littora exiisse. Cact.»
Egli è più che possibile che ne’ tempi più remoti il mare di Asow sia stato la punta meridionale, ed occidentale di questo gran mare mediterraneo; che la penisola di Crimea sia stata concatenata col Kuban, ed abbia formato il confine meridionale di esso; e che il mar Nero abbia preso origine per mezzo di una rivoluzione o di una rottura, nella qual circostanza dello sgorgamento dell’acqua in questa valle, si disseccarono molte regioni nell’alto Nord, ed il mar Caspio poté separarsi dall’antico Mediterraneo. Ma comunque la cosa sia, certamente non si estese il mare antico più lungi di Costantinopoli, ed il Mediterraneo è d’origine molto più recente del mar Nero.
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Il mar Nero spesse volte gela, ma non tutti gli anni, come dice Buffon nelle sue dimostrazioni della teoria della terra art. 6 della storia naturale generale, vol. I pag. 296 Il Bosforo Tracio, o lo stretto di Costantinopoli, gela, secondo Pallas(1), negl’inverni rigorosi in modo, che vi passano i carri di trasporto. Il medesimo accade col mare di Asow, e col suo stretto, il Bosforo Cimmerio, nel quale, come narra Strabone(2), Neoptolemo, generale del re Mitridate Eupatoro guadagnò nell’inverno una battaglia colla cavalleria nel luogo stesso, ove nell’estate antecedente vinse un combattimento navale. Marcellinus Comes Illyricus nel suo Chronicon(3), nella 14 Indizione, sotto il Consolato di Vincenzio, e Fravita, cioè nel 400 anno della nostra Cronologia, dice intorno al gelare del mar Nero, che nella primavera di quest’anno passarono per 30 giorni continui pel mare di Marmora grandi masse di ghiaccio. Jonaras accenna che ne’ tempi di Costantino
(1) Viaggio nella parte meridionale della Russia.
(2) Lib. VII. p. 307 ed. Casaub. 2. Par. 1620.
(3) Scalinger in Thesauro tempor. p. 37.
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Copronimo lo stretto di Costantinopoli sia stato gelato in modo, che da questo luogo si poteva passare a Crisopoli (Scutari) con carri da trasporto(1) Nicephoro Patr. p. 43. 44. Teofane pag. 365-66 narrano, che nell’inverno del 762 763, incominciando da Zichien (ne’ contorni di Kuban) fino a Chazaria (la Crimea), ed alla Bulgaria il mar Nero sia stato coperto, quasi cinque mesi di continuo, di un ghiaccio dell’altezza di 30 braccia. Demetrio Cantemiro asserisce, che nel 1620-21 si abbia potuto passare sul ghiaccio da Costantinopoli a Iscodar.
La Grecia concatenava una volta con Candia, e Rodi, e l’Asia Minore, come l’antica Tracia, ossia Romelia, coll’antica Troia. L’intero piano del Mediterraneo è stato atto ad essere abitato, quando anche non sia stato conosciuto, e veramente abitato. Kircher(2) e Valisneri(3) vogliono aver veduto presso Livorno sulla spiaggia della Toscana una città
(1) Ved. Ann. XV. 7. ed. fres. du Gange. Paris 1687 tom. II. p. 109.
(2) Athanas Kircher. Mund. subterr lib. 2 c. 12 p. 85.
(3) Valisneri, de’ corpi marittimi seconda lettera S. 774.
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intera sott’acqua, ed assicurano che incontro a Puteoli ossia Pozzuolo, ove si va a Baia si vedano chiaramente alcune strade ed alcune case sul fondo del mare. In faccia a Rimino si osservano egualmente le torri di una città sprofondata, che Bianchi(1) crede essere la città di Conca subbissata incirca 2000 anni indietro; essa era situata 10 miglia da Rimino. Ai tempi di Ovidio si vedevano ancora nel seno Corintio gli avanzi delle famose città Helice, e Buris(2), le quali Erodoto ha conosciuto in tempo del loro splendore come rifugio de’ Joni(3). Anche in appresso furono esse città degli Archei ove questi tennero la loro dieta. Ambedue sprofondarono in una sol volta a cagione di un’inondazione cagionata da un tremuoto nel 4 anno della 101 Olimpiade, circa il 376 anno di Roma(4). Lo sprofondamento
(1) Specim, aestus marini prop. ult. Schot. pag. 74.
(2) Ovid. Met. XV. 293-95.
Si quaeras Heliceu et Burin, achaidas urbes
Invenies sub aquis: et adhuc ostendere nautae
Inclinata solent cum moenibus oppida mersis.
(3) Herod. I. 145.
(4) Polyb. II. 41. Diod. XV. 58. Strab. lib. V. p. 40 lin. 97. lib. VIII. p. 264 fin 265. Aelian. de anima lib. XI. c. 19. narra circostanziatamente lo sprofondamento di queste città.
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di queste due città, siccome è accaduto 2000 anni indietro, non può assolutamente essere stato cagionato dal primo sgorgamento, allora quando il Mediterraneo prese origine; ma la medesima cagione che più tardi produsse la loro rovina, ha pure prodotto una volta la nascita del Mediterraneo, e con esso l’esterminio di migliaia di città. Se anche non ne troviamo più le traccie, nulla di meno dobbiamo dubitare che una volta questo mare sia stato abitato, poiché conosciamo il sito di alcune città più recenti, le quali vennero sepolte sotto i flutti del mare, e delle quali egualmente non ne esiste più alcuna traccia.
Ai tempi di Plinio esisteva ancora la città di Luna, vantata da lui, come da Strabone, e da Livio a cagione del bello e spazioso suo porto(1), cantata da Silvio Italico(2)
(1) Plin. III. 5 edit. p. 81 tom. 52 Strab. lib. V. p. 153.
(2) Sil. Ital. VIII. os. 481. Tunc quos a niveis exegit Luna metallis Insignis portu quo non spatiosior alter Innumeras cepisse rates et claudere pontum Livio sovente l’accenna. Lib. 34 8. lib. 39. 91 lib. 41. 19. lib. 43. 9.
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e lodata da Marziale(1) a motivo del suo formaggio, e da Plinio pel suo marmo, e pe’ suoi vini(2). Questa città egualmente si è sprofondata nel mare senza lasciarvi la minima traccia(3).
Nel tremuoto il quale innalza una parte del suolo, ed abbassa un’altra, dobbiamo cercare indubitatamente la causa principale, di questi sgorgamenti del mare; e tanto di più nel Mediterraneo, poiché vi troviamo da per tutto le tracce più evidenti di questa potente forza attiva.
Se Tournefort nelle descrizioni del suo viaggio nel Levante suppone che l’acqua del mar Nero, il quale riceve grandi fiumi dell’Europa, e dell’Asia, di una estensione considerabile,
(1) Casens Etrusca signatus imagine Lunae Praestabit pueris prandia melli tuis.
(2) Plinius XIV. c. 6. pag. 284. lin. 44. Hetruriae palmam. Luna habet ( quod vinum) lib. 36. 5. p. 707 lin. 25. 1. c. 6 p. 711 lin. 32. c. 18 in p. 719 f.
(3) Valisneri, de’ corpi marittimi litt. 2 §. 77 Moro, nuove ricerche de’ cangiamenti del suolo tom. 2 cap. 25.
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dopo essere salita ad una grande altezza, siasi aperto una strada per lo stretto di Costantinopoli, ed abbia formato in tal guisa il Mediterraneo; e che nell’avvenire l’abbia ingrandito in modo, che di un lago ne abbia formato un gran mare, il quale finalmente si sia aperto uno sbocco per lo stretto di Gibilterra, forse intorno a quel tempo nel quale, secondo Platone, avvenne lo sprofondamento dell’Isola Atlantide; Buffon però gli si oppone con ragione(1), dicendo, che non solo l’Oceano Atlantico si getta nel Mediterraneo, e non questo nell’Oceano, ma che riceve ancora più acqua dall’Oceano che dal mar Nero. Il tremuoto, ed il fuoco sotterraneo del Mediterraneo ci danno un principio assai efficace, il quale unito alla forza dell’acqua è più che sufficiente per ispiegare tutti questi cangiamenti violenti.
I contorni di Costantinopoli sono coperti di pomice, e d’altri prodotti vulcanici, ed il mar di Marmora non rare volte soffre de’ tremuoti assai terribili; ed in esso spesse
(1) Buffon storia naturale gener. art. XI.
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volte si vedono innalzare de’ fili che consisstono in una grassa materia resinosa, la quale essendo giunta alla superficie del mare si rappiglia in piccole masse. Vi sono dunque sul fondo di questo mare sorgenti, le quali frequentemente gettano resina; e siccome tutte le sostanze resinose, allorché sono riscaldate divengono fluide; così possiamo conchiudere che nel fondo esista del fuoco, a che almeno il suolo dal quale s’innalzano debba essere molto più riscaldato che la superficie del mare(1). L’isola di Tenedo, che giace vicino allo stretto di Costantinopoli, ha ancora tutt’ i segni d’un fuoco sotterraneo, e del Vulcano' che in esso agisce; anzi l’intero fondo del Mediterraneo assomiglia ad una caldaia sotto la quale vi sia un fuoco eterno. La forza e la continuazione di queste scosse di terra, particolarmente nelle vicinanze dello stretto di Gibilterra, ci sono note per la disgrazia di Lisbona, e per le scosse continue alle quali
(1) Marsiglj hist. physique de la Mer p: 28. Moro, ricerche de’ cangiamenti del suolo tom. 2. cap. 28.
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è soggetto il Portogallo(1). Ad un tal tremuoto potè riuscire facilmente di aprire all’Oceano questo stretto, come forse accadde prima col mar Nero. Ciò è tanto sicuro, che in vicinanza di lingue di terra, di istmi, di gruppi d’Isole, e di arcipelaghi osserveremo sempre de’ vulcani accesi, o estinti, o almeno delle traccie evidentissime di materie vulcaniche. La California ha 5 vulcani, e lo stretto di Magellano ha sul suo fianco una terra interamente di fuoco. Presso Tlascala, ossia Puebla de Los Angelos, dell’Audienzia di Messico trovasi la montagna Popocatepu, dalla di cui cima si può vedere Messico, e ch’è famosa per la quantità di solfo che contiene. Questa montagna dal 1519 in poi getta ancora sempre fuoco(2).
Non abbiamo però bisogno di sortire dal Mediterraneo, ma basta di accennare lo stretto di Messina, il quale ha il suo Vulcano proprio, ed è circondato da gorghi di fuoco.
(1) Tutte le descrizioni moderne di viaggi rapportano continui e replicati tremuoti e le sensibili scosse di terra nel Portogallo.
(2) Allgemeine Historie der Reisenzu Wasser und zu Lande, vol. 12 p. 232. not. 5.
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L’intera lingua di terra d’Italia è una vera terra di fuoco. Eubea, l’odierno Negroponte, la quale, secondo le notizie degli antichi(1), è stata distaccata dalla Beozia, ed ora forma colla stessa uno stretto di mare, spesso è stata scossa da tremuoti, e qualche volta alcuni giorni di seguito, durante i quali svanirono le sorgenti e le acque, altre ne sorgevano gettando fuori in fine delle materie ignee, dopo di che il tremuoto cessava(2).
Alcune isole del Mediterraneo, a memoria d’uomini, ed in parte ne’ tempi moderni per mezzo del tremuoto sono sorte dal mare, si sono ingrandite, e poi divise, come sovente leggiamo negli scritti di Erodoto, Polibio, Strabone, Plinio e Giustino, de’ quali autori dovremo far uso ancora in altra occasione. Qui ne diremo solamen:e tanto, quanto è necessario per persuaderci che sotto il suolo del mare mare Mediterraneo avvi fuoco da tempi immemorabili; e che se dai Vulcani facciamo squarciare le terre, le catene di montagne, e le sponde de mari, e
(1) Strab. lib. 1. p. 4. lin. 38 seq.
(2) Strab. lib. 1. p. 40 lin. 7 seg.
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se crediamo che molte regioni si precipitano nell’abbisso, ed altre s'innalzino, devesi riflettere che queste opinioni non sono fondate sopra ipotesi, ma sopra fatti, ed esperienze.
Tutt’ ad un tratto, dice Plinio(1), sorgono
(1) Hist. nat. lib. 2. c. 86,88 Nascuntur et alio modo terrae, ac repente in aliquo mari emero gunt, velut paria secum faciente natura, quaeque hauserit histus alio loco reddente c. 87. Clarae jam pridem insulae Delos et Rhodos memoriae produntur enatae. Postea minores, ultra Melon Anaphe, inter Lemnum et Hellespontum Nea: inter Lebeum et Teon Alone: inter Cyclados Olympiadio CXXXV anno quarto Thers et Therasia. Inter easdem post annos CXXX Miera eademque Automate. Et ab duobus stadiis post annos CX. in nostro quaevo, M. Junio Syllano L. Balbo coss ad VIII, idus Tulius Thia c. 88, Ante nos et juxta Italiam inter Aeolias insulas item juxta Cretam emersit e mari M. M. D. passuum una cum calidis fontibus: altera Olympiadis CLX. anno tertio in Thusio Sinae; flagrans haec violento cum flatu. Proditurque memoriae; magna circa illam multitudine piscium fluttuante, confestim expirasse quibus ex his cibus fuisset, Sic et Pithecusas in Campana sinu ferunt ortas. Mox in his montem Epopon, cum repente flamma ex eo emicuisset, campestri acquatum planirie. In eadem et eppidum haustum profundo: alioque motu terrae stagnum emersisse: et alio, provolutis montibus insulam extitisse Prochytam. Namque et hoc modo insulas rerum natura fuit. Avellit Siciliam Italiae, Cyprum Syriae Euboeam, Boeotiae Eubacae Atalentem et Macrin, Besbyenm Bithyniae, Lenoo nam Luenum promontorio.
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delle terre sul mare, di modo che la natura compensa se stessa, rendendo in un luogo ciò che ha preso nell’altro. Così Delos, e Rodi, secondo la testimonianza degli antichi, sono state innalzate sul mare, (ed in fatti i commentatori citano a questo proposito molti passi di scrittori più antichi) come egualmente le isole minori, Nanfio al di là di Melo, Nea fra l’Ellesponto, e Lemno oggi Stalimene, ed Alone fra Lebedos e Teose (Thera e Therasia), le quali si contano fra le cicladi, nacquero poco distanti da Creta ovvero Candia nell’istesso modo (237 anni circa avanti Cristo), ed in mezzo a loro: 130 anni appresso (dunque 100 anni avanti Cristo) Hiera (chiamata anche Automate, ora conosciuta sotto il nome di Kammeni). In distanza di due stadi da essa, dopo 110 anni, sotto il Consolato di Giunio Sillano, di Lucio Balbo agli 8 degli Idi di luglio sorso Thia. Fra le isole Eoliche presso l’Italia si alzò sopra il mare un’isola, e presso Creta un’altra simile, l’ultima di 2500 passi con sorgenti calde. Parimente nel terzo anno della 100 Olimpiade ne nacque un’altra nel seno Tuscio, la quale bruciava e fumava considerabilmente. Da per tutto intorno ad essa si
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trovava una quantità di pesci, i quali mangiati cagionavano tutti la morte. Così nacquero egualmente l’isole Pithecusiche (Aenariac, nominate da Omero Inarime) nel seno della Campania. Sopra della maggiore si sprofondò il monte Epopos (Epomeus presso Strabone) fino ad un piano considerabile, dopo che da esso tutt’all’improvviso era sortita una fiamma. Sulla medesima isola si subbissò pure una città, e per un altro tremuoto comparve un lago. Per un fenomeno simile, alcuni monti di questa isola precipitarono nel mare, e ne nacque la nuova isola di Procita; poiché anche in questo modo la natura forma delle isole. Questa natura ha strappato la Sicilia dall’Italia, Cipro dalla Siria, Eubea dalla Beozia, da Eubea Atalante e Maeris, dalla Bitinia Besbycus, e Leucosia dal promontorio delle Sirene.
Strabone narra più circostanziata la formazione dell’isola Hiera, fra Thera e Therasia, aggiungendo ancora che Cirene non è che una Colonia, o figlia di Thera(1). Fra Thera e Therasia, dic’egli, salirono quattro
(1) Lib. I. p. 39 lin. 52 seq.
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giorni di continuo le fiamme dal mare, in guisa che questo interamente cuoceva e bruciava(1). Queste fiamme partorirono quasi a poco a poco un’isola di grandi masse di terra, della circonferenza di dodici stadi, che quasi parve essere innalzata per mezzo di macchine artificiose. Gli abitanti di Rodi osarono i primi d’avvicinarsi colle loro navi a questa nuova isola, e vi eressero un tempio in onore di Nettuno Asfatico (Nettuno, fondatore e consolidatore), Giustino vi aggiunge ancora, che unitamente all’isola siasi innalzata dell’acqua bollente(2). Nell’anno decimo nono dopo Cristo, sorse quivi egualmente l’isola Thia(3). Nel 726 dopo Cristo s’innalzò fra Thera e Therasia un fumo densissimo, che unito ad un gran fuoco proruppe, alcuni giorni ed alcune notti di seguito, gettando fuori tante pietre pomici e tanta cenere, che l’intero mare ne restò coperto, non che tutte le coste, tanto dell’Asia, quanto
(1) ώστ πάσαν ζεϊν και φλέγεσθαι την Θάλασσαν.
(2) Justin XXX. c. 4. in quo (terrae motu) cum admiratione navigantium repente ex profundo cum calidis aquis insula emersit.
(3) Pomp. Mela II. cap. ult.
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dell’Europa. Finalmente il mare partorì in questo sito un’isola, la quale si unì coll’isola Scara(1). La stessa cosa accadde nel 1457 con un’altr’isola, come la dimostra un’iscrizione in marmo che sta sulla porta del castello Scaro nell’isola Santorini (l'antica Thera). Nel 1570 nacque presso Santorini una nuova isola in modo che eccitava spavento. Il fuoco che dal mare s’innalzava avvampò un anno di continuo, e produsse in tal modo quest’isola, la quale altro non è che un gran vulcano, poiché troviamo ancora il Cratere, dal quale non rare volte vengono gettate pietre, ed altri prodotti vulcanici(2).
Molto più spaventoso fu l’incendio e ’l furore del fuoco sotterraneo presso questa isola nel 1650. Le fiamme di fuoco proruppero fra le onde, ed innalzarono il mare all’altezza di trenta braccia. A Smirne ed a Costantinopoli si trovarono le pietre pomici gettale dal mare con una furia straordinaria, in guisa che nella distanza di ottanta miglia,
(1) Baron. annal. ecclesiast. ad annum 726.
(2) Kircher. mund. subter. t. I. Lb. 4. Sect. 1. c. 5 p. 182. B.
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a Candia, ne furono fracassate le navi. L’incendio principale durò dal 24 di settembre fino al 9 di ottobre, e non prima di quattro mesi si poté scorgere, che il fuoco innalzava un nuovo scoglio, il quale a poco a poco elevatosi, formò finalmente un’isola considerabile. Ancora 5 anni dopo, cioè agli 11 di gennaio 1656, e ne’ giorni seguenti, il mare in questo luogo, distante quattro miglia da Santorini, vomitò del fumo; e dopo l’eruzione del 1650 non mai è stato interamente tranquillo(1).
Ai 23 di marzo 1707 allo spuntar del sole si vide nuotare qualche cosa nel seno di Santorini(2) simile agli avanzi di un vascello perito. Alcuni marinari che ivi si portarono trovarono con sorpresa uno scoglio, il quale era montato dal fondo del mare. Il giorno seguente vi andarono molti per vedere questo miracolo; alcuni vollero salirvi sopra, ma la roccia ancora si mosse, e s’innalzò
(1) Kircher Mund. subter. p. 182 B. 183.
(2) Ved. la geograf. element. dello stimabile Geografo Fabri tom. II. p. 410. Memoires des Sciences, Par. 1708. p. 28. Pliilos. Transact. abridged. vol. V. p. 196 seq.
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a vista, e produsse delle ostriche saporitissime, pietre pomici, e cose simili.
Due giorni avanti, prima che questo scoglio s’innalzasse, poco dopo mezzo giorno erasi provato un tremuoto sull’intera isola Santorini, il quale da altra cagione non poté nascere, che dal moto, e dal distaccarsi di questo grande scoglio. Ma tale avvenimento, a riserva dello spavento, non cagionò agli abitanti alcun altro danno, e la nuova isola crebbe senza produrre niuna scossa ripetuta nel circondario fino al 4 di giugno. In questo frattempo si era estesa un mezzo miglio incirca, ed innalzata 25 piedi sulla superficie del mare. Il mare d’intorno era da рег tutto torbido ed ispessito, e, per diverse terre che continuamente s’innalzavano, tinto di vari colori, ma per lo più di un giallo sulfureo. Il mare ebbe questo colore fino a 20 miglia d’intorno. Nella vicinanza di questa isola l’acqua, già torbida, in un momento lo divenne vieppiù, e nell’istesso tempo riscaldata al segno che molti pesci vi furono trovati morti . Ai 16 di luglio vennero fuori dal mare 19 scogli oscuri e neri, che s’innalzarono come un canneto. In principio furono divisi, poi parvero unirsi sul fondo e
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legarsi colla nuova isola, la quale era allora di colore bianco. Due giorni dopo alle ore 4 dopo mezzo giorno s’innalzò un fumo tanto denso, che sembrava come se sortisse da una fornace accesa. Si fece sentire un capo fragore, senza poter distinguere se venisse dalla detta terra nuova. Gli abitanti di Santorini spaventati fuggirono sulle isole più lontane. Ai 19 di luglio si concatenarono le montagne, e parvero rappresentare un’isola particolare la quale cominciò a gettare un fuoco chiaro, che continuò a coll’ingrandimento dell’isola. Il fuoco produsse un puzzo insoffribile che cagionò delle malattie sull’intera isola di Santorini, in guisa che anche agli uomini di polmoni sanissimi divenne penoso il respiro: le persone più deboli erano soggette a svenimenti, e tutti furono incomodati dal vomito. Nel mese di agosto poi si adunò un fumo denso con una specie di vapori nuvolosi sopra l’isola Santorini, ed in termine di tre ore guastò tutt’i grappoli d’uva attaccati alle viti.
L’isola bianca crebbe in altezza sensibilmente; l’isola nera, che parve essere bruciata, si estese in lungo, ed ambedue fra poco tempo si riunirono. Il fuoco si preparò
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delle aperture, per le quali lanciò a guisa del più violento scoppio di cannone una quantità di pietre bruciate cotanto in alto, che si perdettero di vista, e ricaddero indi nel mare nella distanza di 3 miglia circa. Nel mese di agosto queste esplosioni tonanti non accaddero però tanto frequentemente; nel settembre diventarono più frequenti, e nell’ottobre si sentirono quasi giornalmente. Quando nacquero queste eruzioni si vide un fuoco forte, al quale seguì un fumo terribile, misto qualche volta di cenere, ed in tal guisa rappresentò una nuvola assai pesante, di diversi colori, la quale a poco a poco si perdette in polvere finissima, che come pioggia cadeva nel mare, e sulla campagna vicina in modo, che tutta ne restò coperta. In un altro tempo slanciò delle masse di cenere rovente, in altro poi delle pietre mezzo lucide di mediocre grandezza, e ciò sì frequentemente, che la piccola isola vicina ne restò interamente coperta ed illuminata in modo, che recò il più grande divertimento agli isolani che vi abitavano d’intorno. Intanto la nuova isola guadagnò un terreno di tre miglia di circuito incirca, e s’innalzò quasi 40 piedi sopra l’acqua. Nel mese di maggio
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del 1708 il padre Goree la trovò dell’altezza di 201 piede, larga un miglio inglese, o di sei miglia incirca di circuito, ed essa si è poi ingrandita fino al 1711. Il padre Goree vi contò in una notte 60 aperture, fuori delle quali sortivano delle fiamme chiarissime, durante le quali l’isola maggiormente s’innalzò; e non rare volte da quelle aperture n’erano gettate delle pietre, le quali con pericolo de’ circostanti andavano molto lontano, ciocché avvenne particolarmente ai 15 di aprile 1708 in tempo di una grande scossa. Più di 200 pietre estremamente grandi caddero per fortuna 2 miglia distanti quasi tutte nel mare(1).
Simili incendi sotto il suolo del mare, accompagnati da eguali effetti ci vengono descritti da Strabone in vari luoghi. Intorno a Methone, dic’egli nel primo libro(2), nel seno di Ermione s’innalzò la terra sotto fiammeggianti vapori sulfurei per più di 7 stadi di circuito. Di giorno non si poteva andar vicino a quel luogo a motivo del calore, e
(1) Moro, nuovo esame sopra il cangiamento del suolo tom. 2 cap. 2.
(2) Pag. 40 lin. 58. seq. p. 41 init.
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dell’odore sulfureo, ma di notte però parve l’odore di que’ vapori più soffribile. Essi facean lume lontano, e riscaldavano il mare sì estremamente, che questo bollì nella circonferenza di 5 stadi, e fu torbido ed inquieto nella distanza di 20 stadi d’intorno. Un baluardo di rocce sterili s’innalzò sul nuovo suolo, il quale da lontano parve essere seminato di altissime torri. Dal lago Copaico, continua Strabone, sono state inghiottite Arne e Midea, conosciute ancora da Omero, e lodate dallo stesso come città abbondanti di vino. Sulle sponde del lago Bistorico sembra essersi sprofondate alcune città della Tracia, come pure vicino al lago di Aphnetis ec.
Una cosa simile racconta Pallas nel 2 tomo de’ suoi viaggi verso la parte meridionale dell’impero Russo, dello stretto del mare di Azow. Il tragitto verso l’isola Tamand, dic’egli, si fa in grandi battelli; e benché sia solamente di 18 werste, è ciò non ostante molto pericoloso a cagione degl’inaspettati colpi di vento, e della quantità de’ bassi fondi, come pure per un movimento di calda ebollizione del seno di mare, sensibile anche in tempo di calma. Il seno continuamente è
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agitato da corte onde. In tempo di perfetta calma si vede assai chiaro il vapore, che passa sopra quest’isole. Questo vapore somigliante ad una densa nebbia, unito alla quantità di melma e di sorgenti di petrolio che si trovano su quest’isola, sono una prova non equivoca, che sotto di essa, in una profondità consiberabile, sia acceso uno strato di materie infiammabili. Anche sulla costa di Jenikale si scorge un vapore simile. I luoghi salati della Crimea sono divisi semplicemente dal mar Nero per mezzo di una striscia di sabbia stretta e bassa. Questi laghi nell’estate per la maggior parte si disseccano, e forniscono un sale cristallizzato in piramidi cubiche. Uno de’ laghi maggiori giace immediatamente contro la lingua di terra, che contribuisce alla formazione del Bugas; la sua acqua sente fortemente dell’odore di viole mammole, ed il suo movimento è debole. Il di lui circuito è interrotto da diverse vie profondamente scavate. In una di esse, ove l’argilla è frammischiata di rottami di pietre volcaniche, si vede una sorgente di acqua salata, la di cui melma nera ha l’odore del fegato di solfo; avvi pure una piccola sorgente di melma, e sopra
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una collinetta, sorgono diverse fonti poco profonde, nelle quali si raccoglie un petrolio grasso simile al catrame. Immediatamente dietro l’antico Taman s’incontra una fila di colline concatenate ove, particolarmente sulla quarta di esse colline (Kirk-Kol), si trovano diverse sorgenti di melma. Da queste sorgenti, ogni dieci o venti secondi sorgono con un rumore sensibile delle vessiche, o bolle, quasi della grandezza della testa di un cappello. Nel 1782 una eruzione violenta di fuoco si produsse con grandissimo strepito. In faccia all’antica Temruck, ai 5 di settembre del 1799, nel mare di Azow, 150 braccia incirca dalla sponda, alla presenza di molti spettatori, che per un terribile tuono sotterraneo vi si erano radunati, sorse dal profondo un’isola come un gran tumulo, e s’innalzò fino a 6 tese sulla superficie del mare. Il sito più allo di essa si spacco in mezzo, mentre che si formava la volta, e gettò fuori della melma mista con pietre, e così continuò finché il fuoco ed il fumo coprirono tutta la regione d’intorno: tutto questo però non durò 2 ore. Durante ciò il mare fu tanto burrascoso, che non fu possibile avvicinarsi all’isola. Quest’isola si
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estese poi fino alla lunghezza di 72 braccia, ed alla larghezza di 48, e s’innalzò 7 piedi sulla superficie del mare. La melma la tinse di nero; ma nell’anno seguente essa si perdé in modo, che non si poté scorgere se il mare l’avesse tolta via, o se si fosse sprofondata di nuovo. Su quella larga punta di terra che giace incontro alla città di Taman avvi un Vulcano di melma chiamato da’ Tartari Kunk Obo (la collina turchina), e da Cosacchi Perkla (inferno); intorno a questo, ai 27 di gennaio 1794, alle ore 8 e mezza si fece sentire un sibilare o romoreggiare nell’aria, in modo che s’intese fino a Jenikale; ed un violento colpo di vento, che non durò più che un minuto, fu accompagnato da un tuono veemente. Unito al colpo nacque un fumo bianco, ed immediatamente dopo un fumo nero di fuligine, in mezzo al quale proruppe una colonna di fuoco rosso cangiante in un colore giallo pallido, la quale, malgrado il vento sensibile, si alzò in linea retta. Essa monto all’altezza di 50 tese incirca, ed avea 30 tese di circonferenza. In cima si estese come una corona, e durò 25 minuti. Il fumo nero durò 4 fino a 5 ore di continuo, e da ambidue i lati formò
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nuvole grosse e pesanti. Subito principiata la prima eruzione la montagna gettò in aria una quantità di melma, lanciandola da tutt’i lati alla distanza di una versta. Al principio questa massa corse sollecita su i lati della collina, indi più lenta, e secondo quello che dicono gente degna di fede, che alcune ore dopo la visitarono, questa massa non era sensibilmente calda; altre persone al contrario assicurano che la melma mentre sortì fuori sia stata caldissima. Il sibilare, il bollire, e lo strepito continuarono fino alla notte, e fino al terzo giorno la melma fu lanciata all’altezza di 50 piedi. Dopo questo la montagna fece sentire nuovamente un rumore, ed incominciò a gettare della melma in aria, ma il fuoco non vi si osservò che nella notte. Lungo tempo dopo questo avvenimento corse ancora la melma mista con vapore e bitume, e si fecero vedere altre parti di melma assai bituminosa. Il cratere che aveva gettato questa massa enorme in appresso fu coperto di una crosta interamente disseccata della medesima melma, sulla quale poi si poteva stare, e camminare. Intorno ad esso cratere si vedevano molte minori profondità. Avvicinando l’orecchio alla maggiore
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si poteva sentire chiaramente uno scoppiare, ed un certo stridore come in una caldaia rinchiusa. Secondo tuttociò, la cagione dell’eruzione della melma si potrebbe cercare in un filone di carbon fossile, o di lavagna bituminosa, acceso lentamente, e posto profondamente sotto l’isola Taman e sotto una parte della penisola Kertsch. Considerando la quantità delle eruzioni, ed i differenti luoghi ove accadono, dobbiamo confessare che la cooperazione del mare, ed il penetrare di esso nelle profondità sia più che problematico. Per mezzo di esso si producono continuamente quantità di vapori, come pure diverse specie di gas, i quali per la loro elasticità condotti per fessure sotterranee coperte di strali, o per aperture antiche, a per altri siti ove trovano meno resistenza, si aprono con istrepito una sortita verso la parte superiore, e producono in tal modo i diversi fenomeni. Tostoché la forza de’ vapori, la quale sosteneva il filone posto sopra lo strato incendiato, cessa di agire, poiché quelli si sono messi in libertà, gli strati rotti e conquassati dal filone devono cedere, e per mezzo della compressione cacciare dall’imboccatura della nuova apertura la melma
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nata dalla cenere, e dall’acqua marina che vi è entrata; e questo processo in principio accaderà con violenza, e poi succederà più lentamente. Con ciò possiamo spiegare la salsedine della melma, e le bolle di vapore, da ciò comprenderemo dove possono essere nate le radici di canne che unite alla melma vengono gettate fuori, dopo essere state introdotte dall’acqua marina, alloraquando questa si precipitava ne’ sotterranei. Da ciò finalmente nascono le diverse specie di pietre rotte, per gli strati delle quali i vapori prendono il loro sfogo.
Quello che qui sopra abbiamo accennato è sufficiente per ispiegare la nascita del mare Mediterraneo. Se in un tremuoto si sono spaccate le rocce dello strello di Gibilterra, e diviso l’antimuro, forse non tanto solido presso Costantinopoli, il quale rinchiudeva l’antico mar Nero, allora il Mediterraneo ha dovuto formarsi ben presto, ed immergere ne’ flutti terribili e regni e città. Per tal ragione nacquero tante tradizioni d’inondazioni ripetute presso tutt’i popoli. I Greci soli ne contano due, l’una nella quale s’annegò Ogige, forse ne’ tempi d’Abramo, l’altra dalla quale si salvò unicamenta Deucalione,
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forse nel tempo che gli Israeliti vagavano pel deserto. La prima sarà avvenuta quando si aprirono le rocce di Gibilterra, ed in allora si formò il Mediterraneo; la seconda quando si aprì il mar Nero, per il che doveva il medesimo Mediterraneo senza dubbio crescere considerabilmente.
È rimarcabile che il Mediterraneo sulla costa dell’Africa non ha quasi nessun altro fiume fuori del Nilo che lo possa fornire di acqua. Ciò prova evidentemente che l’odierna costa settentrionale dell’Africa ha il suo declivio nell’interno del paese, e che la medesima è la sponda più estrema del grande antico mare Mediterraneo, il quale ha preso un altro sfogo verso il Senegal, e verso il Nilo. Il grande deserto comunemente dello Sahra (deserto), pianura almeno di 60000 miglia quadrate, e lunga di 600 miglia dall’Est all’Ovest, la quale dall’Etiopia inferiore, e dall’Egitto quasi si estende fino al mare Atlantico, evidentemente altro non è che il fondo di un mare perduto. La quantità del sale fossile che quivi si trova fra la sabbia, unita ad altre produzioni del mare lo rendono manifesto.
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Plinio deduce anche il nome di Giova Ammone dal sale ammoniaco, o dal sale fossile, che si trova sotto la sabbia (ᾶμμος) (1).
È da desiderarsi, che si possano ritrovare gli avanzi di quell’antico tempio: forse vi si troverebbero ancora monumenti e notizie che ci manifesterebbero lo stato del mondo antico, e la serie successiva de’ suoi cangiamenti.
La questione, se il Mediterraneo si sia abbassato, e se continui ancora ad abbassarsi, è stata sciolta ora negativamente ed ora positivamente, e quasi sempre fondandosi sull’esperienza e sulle osservazioni, le quali apertamente si contraddiscono.
L’abbassamento del Mediterraneo pare essere confermato dalle seguenti esperienze.
(1) Plin. hist. nat. 31 c. edit. Dalle p. 6572 İnvenit et juxta Polasium Ptolomaeus rex cum castra faceret ( massas salis ) quo exemplo postea inter Aegyptum et Arabiam , etiam squalentibus locis coeptus est inveniti detractis arenis ; qualiter et per Africaé sitientia usque ad Ammomí orät culum. Nam Cyrenaici tractus nobilitantur Ama moniaco, et ipso qui sub arenis inveniatur appellato.
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Ne’ tempi di Omero l’isola Pharus(1) nell’alto mare era distante ancora una buona giornata dalla terra ferma d’Egitto, di modo che, come dice Omero, una gran nave a vele piene, e col vento favorevole aveva bisogno di navigare un giorno ed una notte, prima che dall’Egitto potesse giungere a quest’isola(2). Ai tempi di Augusto si univa quest’isola colla terra ferma presso Alessandria; e Strabone, Seneca e Plinio credono come noi, secondo il rapporto del buon Omero, essere stato il suddetto terreno per l’addietro un’isola(3), attribuendo questo cangiamento unicamente alla melma del Nilo. Anche allora Tiro era un’isola, come pure Clazomene, ed ambedue vennero in seguito unite alla terra ferma(4). Così Artemia
(1) Quello che gli antichi sapevano , o pensavano di strano intorno a questo luogo, lo narra in parte Curzio IV. 7. 5 ed ancora molto più lume ne dà Jo. Ofreinshemius, il quale nel suo commentario sopra questo passo ha raccolto tutto quello, che giammai n’è stato raccontato.
(2) Homer. Odyss. lib. 4 B. 354.
(3) Strab. lib. i p. 40 lin. 28. Plin. h. n. II. c. 85 e lib. XIII. c. il sen. nat. quest. lib. VI. cap. 26.
(4) Strab. p. 48 lin. 30.
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fu per lo passato una delle isole Enchinadie, ed ai tempi di Strabone faceva parte del continente. La medesima cosa era accaduta con varie isole intorno ad Achelots; e molti promontori della Natolia furono isole(1). Asteria, o, come la chiama Omero, Asteris, fu un’isola in mezzo al mare fra Itaca e Samos; essa ebbe un porto di una doppia entrata, nel quale le navi stavano sicure(2). Ai tempi di Strabone non si poteva gettarvi l’ancora, e non vi era più la minima traccia dell’esistenza di un porto. Antissa fu un isola che giacque incontro a Lesbo (anticamente chiamato Issa), dal che ha preso il suo nome, ed a’ tempi di Strabone si era riunita con Lesbo, e ne formava una citatà(3). Nell’istesso modo si sono riunite Zephyrus con Alicarnasso, Aethusa con Mindo, Dromisso e Perne con Mileto, e Narthecusa col promontorio di Partenope. Ilybanda, una volta isola della Jonia, ne’ tempi di Plinio giaceva 200 stadi distante dal mare. Syries in mezzo al distretto di Efeso, Deraside o
(1) Strab. p. 41 lin. seq.
(2) Odyss. 4 fin.
(3) Strab. p. 41. lin. 20 seq.
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Sofonia in Magnesia, come Epidauro ed Orico furono tutte isole; e Plinio osserva con sorpresa come queste potessero essersi cangiate in terra ferma(1). Psalmodi fu ancora isola nel 815 dopo Cristo, ed ora giace più di 2 miglia distante dal mare. La città di Damiata nell’Egitto, nel 1243, a’ tempi di S. Luigi era un porto di mare, ed ora giace alcune miglia distante dal lido. La città di Toah(2), la quale 300 anni indietro era all’imboccatura del braccio Conopo del Nilo, n’è ora distante più di 7 miglia; o da 40 anni in qua il mare ha ceduto presso Rosetta quasi nella distanza di un miglio(3). Ravenna fu una volta il porto principale de’ Romani, ove le loro flotte si radunavano nell’Adriatico, ed ora è molto distante dal mare. Il suo Monastero detto la Classe, distante 2 miglia dal mare, forse indicherebbe
(1) Plin. hist. nat. II. e. 89.
(2) V. Shaw Voyage vol. II. p. 188. La traduzione tedesca di quest’opera è inserita nelle annotazioni fisiche geogr. sopra la Siria o l’Egitto c. 9 p. 253 seq. come pure Geograf. fisica di Lulolf § 429, edizione di Kaestner p. 382.
(3) V Shaw Voyage vol. II. p. 173. 188.
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il sito ove i Classiani avevano il loro campo. Strabone(1) la descrive come una città interamente fabbricata sopra pali, la quale comunicava pel suo interno per mezzo di barche e di ponti. Dionisio Cassio dice che ivi ancoravano 250 navi. Ma tutto questo era già cambiato nel 6 secolo; almeno narra Jornande(2) che il porto sia stato cangiato in giardini, e che in luogo delle vele, pendapo su gli alberi i pomi di Ravenna. Nelle mura della città si vedono ancora diversi pesanti anelli di ferro, ai quali ai quali probabilmente venivano raccomandate le navi. Si trova ancora in questa città l’avanzo di un fanale di marina(3).
(1) V. lib. V. p. 203.
(2) V. De rebus geticis edit. Friedr. Lindenberg. Amb. 1640. p. 109.
(3) Ved. Fr. Giovanni. Storia civile e naturale delle Pinete Ravennati, nella quale si tratta della loro origine e situazione, delle fabbriche antiche e moderne, terre moltiplicate, acqua, aria, fossili, vegetabili, animali terrestri, volatili, acquatici, anfibi, insetti, vermi ec. Roma 1774 4. 1. cap. Ved. anche Zirardini, degli antichi edifici profani di Ravenna libri due. Faenza 1762. 4. egualmente. Tegenwoordige Toestand van her panselyke. Hof. tom. 3. p. 25.
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La Villa Laurentina di Plinio fu bagnata dal mare, e gli avanzi di essa si sono trovati più di 1000 passi distanti dal lido. Pio V sulla sponda di Ostia fece fabbricare una torre consacrata a S. Michele, la quale dopo 145 anni giace presentemente più di 1000 passi distante dal mare (1).
La città d’Aigues Mortes, ch’è un miglio e mezzo distante dal mare, fu ai tempi di S. Luigi un porto di mare. Dal territorio Crau nella Provenza, che una volta era coperto dall’acqua, egualmente il mare si è ritirato, e lo ha lasciato a secco. Presso l’imboccatura del Rodano dal 1665 in poi l’acqua si è ritirata considerabilmente, ed anche nell’Italia, presso l’imboccatura dell’Arno, il mare ha abbandonato un pezzo di terra considerabile. Venezia si accorge sensibilmente dell’abbassamento dell’acqua, ed ha da fare assai per mantenere navigabili i suoi canali.
I Porti di Laodicea, Jebilea, Tortosa, Cowadse, Tripoli, Tyro, Acra, e Jaffa sono,
(1) Ved. Buffon hist. nat. tom. I. p. 597 e 603.
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secondo Shaw(1), riempiti tutti di sabbia, cosa che facilmente si spiega pel rifluire del mare, il quale depone la sua sabbia e la sua melma.
A tutto questo si oppone a dirittura Gio. Bianchi nel suo saggio sopra il flusso e riflusso del mare Adriatico(2), sostenendo che questo mare di giorno in giorno s’innalzi; e nell’istesso tempo si rapporta ad Eustachio Manfredi, il quale dopo le osservazioni fatte ha trovato, che nelle vicinanze di Ravenna il mare dal 1300 si sia alzato 6 piedi circa, e che a Venezia da 230 anni in qua sia cresciuto un piede incirca; come si osserva in un banco di marmo situato in quella città presso il Palazzo Ducale, e che ora è bagnato da’ flutti. Bianchi ne trae la conseguenza che a Ravenna ed a Venezia il mare s’innalzi di un piede ogni 330 anni in eguale proporzione, e ne attribuisce la cagione alla sabbia, alla ghiaia ed alla melma che i fiumi strascinano nel mare(3). Questa però
(1) V. Voyage vol. 2.
(2) Pag. 69.
(3) Moro, cangiamento del suolo tom, a c. 25.
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non sarà certamente la cagione dell’innalzamento del mare; poiché se per la melma, per la sabbia il Mediterraneo dovesse innalzarsi un piede nello spazio di 230 anni, la melma introdottavi da’ fiumi dovrebbe formare una massa di 4156 e quattro quinti di miglia cubiche geografiche, senza contare quello, che dal terreno svanisce per mezzo della evaporazione. Piuttosto dunque si dovrà considerare questa melma, e sabbia trasportate da’ fiumi come cagioni per le quali il mare in alcuni luoghi diventa più basso, giacché l’isole si sono unite al continente, ed il mare è rifluito dalle città.
Moro, il quale egualmente asserisce l’innalzamento del mare, ne dà la cagione dicendo, che per il fuoco centrale il fondo del mare sempre più s’innalzi. Intanto l’innalzamento dell’acqua è ipoteticamente più improbabile del suo abbassamento che a poco a poco si osserva; e quasi non avvi alcuna ragione che decida per l’innalzamento, poiché tutto quello che in favore di questa opinione si accenna, si spiega più facilmente col mezzo del calore di alcuni distretti; cosa che in diversi luoghi è incontrastabile. Opponendo a ciò che nel calore le fabbriche
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dovrebbero andar soggette a screpolature, non si riflette, che questo non può accadere, quando l’intera base sulla quale la fabbrica è posta si abbassa a misura eguale. Buffon stesso deduce l’origine di Rodi, di Delo, e di varie isole del mare Mediterraneo unicamente dal calarsi, e dal diminuirsi del mare, rapportandosi a tal riguardo all’opinione di Ammiano Marcellino, e di Filone, i quali tra loro in molto convengono. Delo essendo stato sì lungo tempo, sott’acqua ha per questa ragione ricevuto il nome di Pelagis(1). Il calore del Mediterraneo non decide però sull’intera diminuzione della massa di acqua, poiché è un mare rinchiuso; e quindi dobbiamo differire l’intero esame di questa questione finché avremo occasione di parlarne nel saggio di una storia della terra.
Un mare rinchiuso può per le evaporazioni, perdere facilmente più di quello che acquista per afflusso, poiché quivi non ha luogo la libera comunicazione coll’Oceano, come effettivamente accade col così detto
(1) Buffon histor. natur. vol. 3. art. 17. in prinzip.
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mare Mediterraneo. Questo mare giace vicino alla zona calda, offre al sole ed all’aria un piano molto considerabile, ed ha pochissimo afflusso: dalla costa dell’Africa non riceve quasi nessun fiume, dalla Spagna riceve solamente la quinta parte della sua massa, fra i grandi fiumi non ha che l’Ebro per nutrimento; l’acqua che riceve dalla Francia non importa la decima parte, e solamente vi sbocca il Rodano fra i suoi grandi fiumi, di modo che l’Italia, e la parte meridionale delle Alpi forniscono l’affluenza principale del Mediterraneo. Tutt’i fiumi uniti non forniscono giornalmente al Mediterraneo che al più 1287 milioni di barili di acqua(1), mentre per l’evaporazione ne perda 5280 milioni di barili, cioè precisamente cinque volte tanto quanto tutt’i fiumi forniscono. Quindi se nuovamente fossero Otturati gli aditi principali, cioè quelli del mar Nero, e dello stretto di Gibilterra, il Mediterraneo nello spazio di alcuni mesi di seccherebbe. Il contenuto de’ fiumi non è già calcolato troppo poco, come faremo vedere
(1) Ved. Halley Fisica curiosa.
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in un esempio, giacché sono state considerate la profondità, la larghezza e la celerità di ciascun fiume. Il Po, per esempio, che secondo le migliori carte geografiche bagna un’estensione di terreno di 230 miglia geografiche prima di dividersi nelle imboccature che lo conducono nel mare, ha una larghezza di 100 tese di Bologna, ossia 1000 piedi; la sua profondità è di 10 piedi, e riguardo alla celerità percorre 4 miglia in un’ora. Secondo queste osservazioni fornisce dunque al mare in ciascun’ora 200000 tese cubiche di acqua, ed in un giorno 4,800000 di tese cubiche. Siccome ora i fiumi ed i torrenti che da ambedue i lati si uniscono con esso, sono distanti 40 miglia geografiche incirca, dobbiamo calcolare, che il suo dominio abbraccia un’estensione di 80 miglia geografiche di larghezza. Il Po dunque conduce nel mare l’acqua di 18400 miglia quadrate geografiche, e questo dovrebbe essere di gran lunga più che la decima parte dell’intero dominio delle sorgenti del proprio mare Mediterraneo.
Parlandosi nelle nostre Scritture sacre del mare, deve sempre intendersi il Mediterraneo; esso è chiamato pure qualche volta
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il mare grande(1) in confronto a que’ piccoli laghi salati interni, perché il Mediterraneo era il mare maggiore che conoscevano gl’Israeliti. Il mare Atlantico e l’Oceano delle Indie erano affatto sconosciuti agli Ebrei. Il Mediterraneo porta anche spesso nella Bibbia il nome del mare più remoto(2), poiché riguardo agli Israeliti che venivano in quel paese dalla parte orientale, era quest’acqua l’ultima che rinchiudeva la terra; ed oltracciò la direzione del loro Santuario nazionale, essendo tale, che la facciata era posta verso l’oriente, e la parte opposta verso l’occidente, nominavano per tal ragione sovente l’intero occidente la parte deretana, ed il Mediterraneo che allora giaceva verso l’occidente, il mare più deretano(3). Almeno
(1) 4 Mosè 34. Jas. 1. 4. cap. 9. I c. 15 17. Ezech. 47: 20.
(2) 5 Mosè 11. 24. cap. 34. 2. Joes. 3. 20. Zaet. 14. 8.
(3) Quindi la Vulgata lo traduce in alcuni passi, per esempio 5 Mosè 11 24 mare occidentale, ove Lutero l’ha tradotto letteralmente: il mare più remoto. L'espressione del Salmo 139: prendessi le ali dell’aurora, e restassi al mare più rimoto
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si trovano passi ove l’espressione del mare più deretano è stata applicata, parlando delle regioni del mondo, in opposizione del mare nell’Oriente, quindi è chiaro che altro non significhi che mare occidentale(1) e il Mediterraneo rinchiudeva la terra Giudaica sulla parte occidentale, e fissava i suoi limiti verso questa regione, e come tale è nominato espressamente da Mosè(2). Esso è pure chiamato il mare grande verso il tramontare del sole(3).
Il confine orientale del Mediterraneo è per mezzo de’ sacri scrittori il più conosciuto, e non avvi la minima baia, (per esempio il seno di Joppe ) che da loro non sia
«la quale conserva il valore poetico, benché il poeta Ebreo non abbia avuto in mente alcun altro mare che il Mediterraneo, come l’ultimo a lui cognito.
(1) Joel. 2. 20. Zaccaria 14. 8.
(2) 4 Mosè 34 6.
(3) Jos. 1. 4. Anzi l’intera regione occidentale del cielo, per la ragione che questo mare giaceva nell’occidente, è stata spesso nell’Ebraico nominata Iam, mare come i Mosè 28. 14. 2. Mosè 26. 22 5. Mosè 33. 23 Isaia 49. 1, ed in altri luoghi Lutero ha tradotto per lo più la parola ebraica mare per sera, come prima di lui ha fatto la Vulgata.
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stata accennata, e per questo riguardo è stato esaminato ed osservato dipoi particolarmente. In generale suole tal parte chiamarsi la costa della Siria. Essa è piena di rocce e di scogli, particolarmente da Tiro fino a Tolemaide, e fa vedere con quale forza quivi si rompano le onde del mare, siccome l’attestano pure l’espressioni de’ poeti, i quali frequentemente parlano dell’imperversare delle onde, e del loro impeto, e che dal mare prendono tutti i loro quadri di una forza irresistibile(1). Tuttavia non vi è traccia che giammai queste coste fossero state inondate, né anche ne’ siti più bassi, come sovente è accaduto di quelle d’Olanda; anzi piuttosto ne parlano i poeti come di una cosa affatto impossibile, ed immemorabile, impedita maravigliosamente dal Creatore della natura(2). Questo dovrebbe sorprendere tanto di più, poiché il mare quivi né anche ha innalzato delle dighe, le quali possano proteggere le coste, ed assicurarle contro l’urto delle onde. La ragione però di tutto questo è, in
(1) Is. 48. 13. c. 57. 20. Jer. 5. 29.
(2) Sal. 104. 9. Giob. 38. 10. 11. Proverb. 8. 19. Jerem. 5. 22 ed in altri luoghi.
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in primo luogo, che il mare è esposto all’effetto dell’attrazione della luna, cioè del flusso e riflusso, ed in secondo luogo, che pel continuo calare e diminuire di esso non può sostenere la sua antica altezza, anzi fugge ed allarga, col ritirarsi, le coste, in vece di limitarle per via di urti, e di corroderle.
Lasciando questo gran seno del mare Atlantico, passando per lo stretto di Gibilterra, e navigando in giù lungo la costa dell’Africa, incontriamo nella vicinanza delle isole del Capo Verde, e della Guinea, in mezzo al mare, de’ grandi prati fluttuanti, consistenti in un’erba che da’ Portoghesi viene chiamata Sargasse, e dagli Spagnuoli Porre: essa è una specie di porro marino, al quale sono spesso attaccate delle bacche. Questo mare di erba è lungo 200 miglia, ed i navigatori hanno bisogno di un buon vento per passarvi in alcuni giorni. Essi sogliono attraversarla quando ritornano dalle Indie, perché quando fanno vela verso le medesime, devono dirigersi verso il Brasile per prendere il vento dell’Ovest. Nel mare de’ Caraibi, il quale giace affatto dirimpetto alle isole del Capo Verde, s’incontrano egualmente questi prati
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marini in grande quantità, e di un considerabile circuito. Presso Fernambue se ne trovano dei composti di foglie assai larghe, simili alle foglie di quercia. I vascelli non rare volte sono arrestati in questo folto e tessuto fogliame in modo che non possono avanzare senza grandissimo stento(1); ciò non ostante l’equipaggio de’ vascelli che fanno vela per la California, incontrando nella vicinanza del promontorio dello Spirito Santo queste piante nuotanti sul mare, canta il Te Deum, credendo di aver superato tutti gli ostacoli del viaggio, e sono contenti di potersi avvicinare solto la protezione dell’Alga alle coste della California, la quale ha molle isole e bassi fondi, e che richiede un' attenzione particolare da’ navigatori(2). Non dovremmo maravigliarci, se il vento dissipasse quest’alga, o se le correnti del mare la disperdessero; ma pare che vadi tutt’al contrario, poiché ne’ siti accennati trovandosi sempre tali prati marini di una grandezza ed estensione più o meno la stessa, dobbiamo
(1) Ved. Allgemeine Geschichte der Laender und Voelker von America tom. 2. p. 420 608.
(2) Ved. Anson viaggio intorno al mondo.
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attribuire questo fenomeno propriamente al vento, ed alle correnti che conducono ed affollano continuamente l’alga in que’ siti, ove questi venti, e queste correnti s’incrocicchiano e si rompono.
In modo simile, e particolarmente nella parte settentrionale del mare Atlantico fino verso l’Equatore, ed anche nel mare Meridionale, ossia Etiopico, si sono trovati spesso strati grandissimi di pietre pomici. Così un navigatore facendo vela verso la China ha trovato sulla direzione del Capo di Buona Speranza per tre giorni di continuo una buona parte del mare coperta la mattina di pomici, le quali a mezzo giorno si abbassavano; poiché sebbene erano specificamente più leggiere dell’acqua, pure tostoché questa era divenuta più calda; e che la coerenza delle sue parti erasi indebolita, le pomici andavano a fondo, e rinfrescandosi l’acqua di notte s’innalzavano. Cos’ nuota sull’acqua fredda un ago fino, liscio ed asciutto, o una sottile e pulita foglia di metallo, sebbene messe sull’acqua calda, subito vadano a fondo. Prima della scoperta della parte meridionale dell’Africa, ed in que’ tempi che nulla si sapeva della coerenza del mare delle Indie col
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nostro Atlantico, si cominciava a congetturare una qualche concatenazione fra questi mari a cagione di questi strati di pietre pomici, e per altri indizi; giacché donde potrebbero venire altrimenti queste pietre pomici , se non da’ Vulcani delle isole e del continente, condotte sull’alto mare col mezzo delle correnti ove nuovamente si perdono? Diffatti questo mare di pietre non è sì continuo come il mare d’erbe, a cagione che l’aumento non è tanto perenne. I selvaggi si servono di queste pietre pomici nuotanti in luogo di barche, poiché se ne fra queste di quelle lunghe a piedi e mezzo e larghe 18 pollici ed incirca di un piede di grossezza, le quali, non arrivando nulladimeno al peso di 5 libbre, possono essere caricate da 150 fino a 160 libbre. Uno schiavo negro navigò con una di queste pietre tallo all’intorno dell’isola di S. Domingo(1).
Ambedue le coste di questo gran mare Atlantico, cioè la costa orientale dell’America,
(1) Così narra l’autore dei viaggi più recenti verso le isole Americane, tom. 5 p. 360. E secondo lui Buffon, storia nat. gener. tom. 2 art. 12 del flusso e riflusso.
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e l’occidentale dell’Africa corrono tanto paralelle, quanto possono correr mai le sponde di un fiume. Precisamente in quel luogo ove l’Africa si avanża più verso l’occidente, presso cioè le isole del Capo Verde, la costa dell’America si ritira, e forma quel grande seno Messicano, il quale dalle penisole Florida e Jucatan, dalle isole Bahama ossia Lucaje, e più particolarmente dalle isole Cuba, Giamaica, e S. Domingo è quasi interamente rinchiuso. Questo seno, per mezzo di vari passaggi che stanno fra queste isole, ha delle comunicazioni non solamente col mare Atlantico, ma anche verso il sud con un altro gran seno chiamato il mare de’ Caraibi, il quale è rinchiuso da un semi-circolo di isole, nominate le grandi, e le piccole Antille, ovvero le Caraibe, che si estendono da S. Domingo alla Trinità, ed incontro a Cumana. Questo seno forma tre o quattro baie, che profondamente si estendono nell’interno del continente, come le baie di Honduras, e di Porto Bello; il seno di Darien e quello di terra ferma. La stretta catena d’isole forma quasi una diga contro l’urto del mare, e contro le solite burrasche. Nascendo però una burrasca su questo mare, il quale
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è maggiore di tutti gli altri mari rinchiusi dalla terra (poiché il seno Messicano solo supera il Mediterraneo in estensione superficiale una volta e mezzo, e, compreso il mare de’ Caraibi, più di quattro volte), allora è altrettanto più impetuoso. Niun bastimento può in quel tempo restare in mare, le isole e le coste vengono coperte di avanzi di bastimenti naufragati, e da conchiglie, ed i campi restano devastati dalla burrasca. Queste burrasche infernali, come in que’ paesi le chiamano, accadono sempre in principio di autunno; l’acqua sembra non potersi più quietare, a ciò molto contribuendo le violenti correnti frammezzo alle isole, ed il flusso e riflusso, che sono quivi molto sensibili.
Tutte le baie e cale abbondano tanto di pesci, quanto il mare del Nord; ed il mare de’ Caraibi è sì chiaro, che alla profondità di 60 braccia, in tempo di calma, si veggono nuotare nel mare le testugini ed i pesci.
Grijalva e Cortez furono i primi, che nel 1520 circa navigarono su questi mari, dopo che nel 1492 Cristoforo Colombo genovese ebbe visitato le isole Lucaje, e le Antille, come anche una parte del continente
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vicino (della Florida). Americo Vespucci fiorentino nel 1499 discese certamente sulla terra ferma. Solamente un anno prima, cioè nel 1498 era riuscito a Vasco de Gama di navigare per la prima volta fra i moderni intorno al capo di Buona Speranza, e di aprire in tal modo la strada per la grande navigazione; da quel tempo Oceano è stato interamente conosciuto, e la navigazione sopra di esso è divenuta per gli Europei una cosa comunissima. Prima di Vasco de Gama, e fino alla nascita di Cristo, anzi fino alla distruzione di Cartagine (150 anni avanti Cristo), forse niun vascello, meno ancora un vascello europeo, avrà navigato intorno all’Africa. Se gli antichi hanno visitato questo mare, possiamo congetturare che ciò sia stato eseguito da’ Fenici, e da’ Cartaginesi, i quali però si tenevano sempre assai vicini alle coste dell’Africa, e per la sola navigazione intorno a questa parte del mondo ordinariamente impiegarono 3 anni, ed oltre di ciò tenevano segreta la direzione che prendevano, in guisa che la navigazione intorno all’Africa fatta da’ Greci, e da’ Romani è stata messa sempre in dubbio, e per ciò è da considerarsi come una novella
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mal fondata. Secondo le notizie orientali, 1000 anni prima dell’Era nostra, per ordine e per conto di Salomone partirono da Tiro de’ bastimenti fenici per Ophir(1), donde portarono oro, argento, avorio, scimie e pappagalli, e ritornarono regolarmente dopo il terzo anno. Ora veramente non si sa questo Ophir sia situato; ma considerando prima il tempo di tre anni che impiegò il bastimento per fare il tragitto, e poi la mercanzia che seco condusse (senza dubbio prodotti africani), sembra che il bastimento abbia navigato almeno intorno all’Africa. Giuseppe dice espressamente che le navi siano andate nelle Indie, in quella regione, la quale per l’addietro era chiamata Ophir, e che presentemente si chiama il paese dell’oro. Ai tempi di Tolomeo la penisola situata al di là del Gange chiamavasi la penisola d’oro(2). Nell'ultimo capitolo
(1) Lib. dei Re X. 22.
(2) Joseph. 8. 1. γς την πάλαι με, Σοφιραν, νύν δε φρυσήν γήν καλυμενην» της Ινδικής εστιν άυτη, οve veramente dovrebbe leggersi xpnoñv y ñv. Ma così si chiamava de' suoi tempi l'odierna penisola al di là del Gange.
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del primo libro de’ Re raccontasi in fine da Josafat (il quale visse incirca 90 anni dopo Salomone), che egli abbia spedito delle navi da Eziongabar sul seno arabico, destinate a navigare verso Ophir, per portarsi in appresso nella Spagna, ma che queste navi sieno perite subito presso Eziongabar. Ciò potrebbe confermare l’opinione che Ophir sia situato sulla costa dell’Africa, fra la punta del seno arabico, e lo stretto di Gibilterra, forse l’odierno Sofala dirimpetto a Madagascar. Questo però fa vedere chiaramonte, che in que’ tempi non solamente si navigava intorno all’Africa, ma pare che il tragitto dal seno arabico verso la Spagna sia molto cognito e praticato. Il Re d’Egitto Necho ordinò, 300 anni dopo Josafat, di navigare intorno all’Africa, e, come narra Erodoto, destinò egli de’ marinari fenici a quest’intrapresa, i quali fecero vela dal mar Rosso, approvigionarono le loro navi in tempo di raccolta, ed arrivarono nel terzo anno presso le colonne di Ercole. Ad Erodoto pare poco verosimile ed assai dubbioso il racconto, che mentre navigarono verso l’occidente, per una gran parte del viaggio, avessero avuto il sole sul lato destro. Egli lascia
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agli altri il credere simile racconto, e ciò non ostante, questa notizia tanto incredibile per gli antichi, è per noi la prova più evidente, che questi marinai abbiano veramente passato la linea(1). Sotto il regno di Serse, e 150 anni circa dopo questo viaggio s’impose, secondo lo stesso Erodoto(2) una pena al figlio della sorella di Dario; chiamato Sataspe, cioè di navigare intorno all’Africa. Egli s’imbarcò in Egitto, passò lo stretto di Gibilterra; veleggiò davanti al Promontorio africano Soloeis, e s’inoltrò molto verso il sud sopra mari immensurabili(3). Dopo molti mesi, tempo però troppo
(1) Alla verità di questa navigazione intorno all’Africa sotto il regno di Necho, la quale è stata illustrata egregiamente ne’ tempi nostri dal diligentissimo sig. Heeren, si oppone Maunert nella sua geografia de’ Greci o Romani tom. 6 p. 19-30; ma i dubbi che questi porta facilmente svaniscono. Lo stesso fa Giov. Ang. Zeund. De historia geographiae. Wittemb. 1802. Pars. I. Vedi anche Erod. lib. 4. c. 42.
(2) Lib. 4. c. 43.
(3) Questo Soloeis è probabilmente il Capo Spartel, benché molti credono di dover intendere sotto questo nome il Capo Bojador che giace quasi 10 gradi più verso il sud. Chi, essendo gl’indizi degli antichi a questo riguardo troppo incerti,
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breve per navigare intorno all’Africa, ritornò Sataspe in Egitto, esponendo l’impossibilità di poter eseguire il prescritto viaggio, poiché sempre era stato respinto. La nostra cognizione odierna di questo mare, e delle correnti dell’Oceano, che sulla punta dell’Africa vanno dal sud verso l’equatore, ci mostra questa scusa come assai ragionevole; poiché è cosa miracolosa, come quelle navi, che non potevano osare di abbandonare le coste, abbiano potuto superare questa corrente. In questa scusa sola vediamo chiaramente che Sataspe sia stato propriamente al di là della linea, e che abbia passato il Promontorio Nero (poiché quivi potè egli
potrà decidere? Quanto a me sarei sempre di parere che Soloeis era il Capo Spartel; poiché riflettendo che gli antichi per le colonne di Ercole intendevano sempre la punta orientale dello stretto, cioè i monti Abila e Calpe; e che di qua fino alla punta più remota del Nord ovest della Libia, da noi chiamata Spartel, avvi una, distanza di 12 miglia marittime; allora comprenderemo che questo Capo è una buona stazione per la navigazione degli antichi. In oltre, non si poteva tralasciare di nominare questo promontorio, poiché per mezzo di questo s’indicava con maggiore facilità la direzione del viaggio dopo aver passato lo stretto di Gibilterra.
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sentire la forza della corrente meridionale). Anzi forse è stato fino al Capo di Buona Speranza, intorno al quale, cioè dall’ovest all’est, difficilmente gli antichi avranno navigato. I Fenici profittarono sempre della corrente orientale dell’Oceano, la quale, sortendo dal seno arabico, e navigando sempre al principio verso il sud ovest, poi verso il Nord ovest, conducevali fino all’isola di Fernando del Po. Sataspe intanto fu sì poco creduto, che fu al contrario giustiziato. Ai tempi di Filippo il grande re di Macedonia, 100 anni circa dopo questa spedizione, i Cartaginesi spedirono due de’ loro Capitani, Imileo ed Annone per fare delle scoperte. Imileo, avendo passato lo stretto di Gibilterra, si diresse verso il Nord, ed Annone verso il Sud.
Del giornale di Imileo ci ha conservato delle notizie il poeta Avien, che visse quasi 1000 anni dopo di lui, dicendo di averle tolte da fonti punici(1). Del viaggio di Annone esiste ancora la traduzione greca, la quale però è stata molto falsificata. Annone
(1) Ved. di lui Ora marittima nel 4 vol. di Hudson p. 4 e 11.
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venne fino a Kerne (κερνη) la di cui situazione non è precisamente conosciuta, benché Polibio lo ponga molto verso mezzogiorno, e Strabone(1) fra i luoghi favolosi, i quali ai tempi suoi si trovavano in nessuna parte; e Plinio(2) crede che questo Kerne sia stato situato di contro al seno della Persia, o dell’Etiopia, senza ardire di determinare di quanto fosse distante dalla terra ferma. Ciò nonostante non è affatto senza fondamento l’opinione di coloro che sostengono che questo Kerne sia l’isola di Madagascar. Il dire che gli antichi, Polibio, Tolomeo; e Diotimo, pongono quest’isola al di là delle colonne di Ercole, significa pochissimo; forse hanno essi con ciò voluto indicare
(1) Lib. 2 p. 33.
(2) Plinius hist. nat. VI. 3r Contra Sinum Persicum Cerne nominatur isola adversa Aethiopiae, cuius neque magnitudo, neque intervallum a continente costat, Aethiopos tantum populos habere proditur. Ephorus autor est a rubro mari navigantes in eam non posse propter ardores ultra quasdam columnas ( ita appellantur parvae insulae) provehi. Polybius in extrema Mauritania contra montem Atlantem a terra stadia octo abesse prodidit Cernen: Nepos Cornelius ex adverso maxime Carthaginis a continente passus mille, non ampliorem circuitu duobus millibus.
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che per arrivarvi sia necessario di prendere quella direzione. Plinio vi aggiunge, che, secondo il parere di Polibio, era quest’isola situata al fine più remoto della Mauritania (colla quale dovrebbe contarsi ancora la Sahra), d’incontro al monte Atlante, e che sia stata solamente 8 stadi distante dal continente. Secondo Cornelio Nipote, era di contro al regno de’ Cartaginesi, alla distanza di 1000 passi dal continente, ed avea incirca 2000 passi di circuito. Sopra questo, e sopra l’ordine tenuto da Tolomeo, Isacco Vossio(1) fonda l’opinione che questo Kerne sia forse l’isola Arguin sotto il 20° di latitudine settentrionale, lo che Collario e Bougainville approvano, come assai verosimile. Dopo Kerne, Tolomeo fra le altre cose fa dividere la costa dal fiume Daradus, il quale nasce sulla montagna di Caphas; e siccome il Kaphas è l’odierno Kaffaba, sul quale nasce il Senegal, cos’ si suppone, che il Daradas sia il Senegal. Dopo diversi altri fiumi, e paesi nomina egli pure Hesperion
(1) Is. Voss. ad Pomp. Melam. p. 309. Cellar. Ge. Aut. tom. II. p. 940.
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Keras che vuol dire, secondo Plinio, il corno meridionale(1), secondo Pomponio Mela(2) un Promontorio, e secondo il giornale di viaggio di Annone, un grande seno di mare, nel quale egli gettò l’ancora avanti una grand’isola. Il gran seno con una grand’isola ci fa credere che sia il seno di Guinea, il quale comincia presso il Promontorio di Palmas, che sarebbe l’Hesperion Keras. Anche Salmasio era di questa opinione, e quindi Vossio lo biasima, e dichiara essere l’odierno Promontorio Verde, il corno occidentale degli antichi(3). Quest’opinione di Vossio hanno pure adottato ultimamente Mannert e Zeune. Il corno del sud è da questi letterati creduto essere il medesimo dell’odierno Capo Cachao. Annone, partendo da quest’isola, giunse dopo un viaggio di 4 giorni a quella grande montagna Τἐονοκημα, chiamata il carro degli Dei, la quale Tolomeo pone ancora al di qua dell’equatore.
(1) Hist. nat. VI. 31 promontorium quod vocavimus Hesperion Ceras et max hespera Ceras.
(2) Pomp. Mela lib. 3. cap. 9.
(3) Vossius ad Melam p. 308 est vero besperu Keras promontoriam illud famosum quod viride appellatur. Valde hallucinatar Salmasius , cum hoc Degat ac caput Palmirum interpretatur.
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Passato di là, dopo un viaggio di 3 giorni, arrivò a Nota Keras (corno meridionale) nel di cui seno più interno giaceva un’isola abitata da una quantità di selvaggi, de’ quali la maggior parte erano femmine, di un corpo ruvido, chiamate dagli interpreti Gorillae. Annone portò seco due pelli di questi selvaggi (probabilmente era un’isola deserta abitata da scimie, e questa supposizione si rende ancora più probabile per la grande quantità delle femmine)(1). Quivi retrocedette Annone per mancanza di viveri(2), e
(1) Plin. I. c. Contra hoc promuntorium (Hesperion Keras ) Gorgades insulae narrantur. Gorgonum quondam domus, bidui navigatione distantes a continente ut tradit Xenophon Lampsacenus. Penetravit in eas Hanno Poenorum imperator, prodiditque hirta foeminarum corpora, viros pernicitate evasisse, duarum georgonum cutes argumenti et miraculi gratia in Junonis templa posuit, spectatus usque ad Carthaginem captam.
(2) Mela lib. 3. c. 10. Hanno Cartaginensis explorarum missus a suis , cum per Oceani ostia exisset, magnam partem ejus circumvestus, se mari sed comeatu defecisse memoratum retulerat. - Super eos grandis literis flexus grandem insidam includit: in qua tantum feminas esse narrant, toto corpore hirsutus et fine coitu marium sua sponte foecundas, adeo asperis efferisque moribus, ut quaedam contineri, ne relactentur viris, vix vinculis possint . Hea Hanno retulit, et quia detracta occisis curia pertulerat, fides habita est.
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noi non possiamo determinare fin dove sia giunto.
Alessandro dopo la sua spedizione nelle Indie volle spedire una flotta intorno all’Africa e l’Arabia, la quale sotto gli ordini di Nearco doveva far vela dall’Eufrate. Tutto era già preparato a Thapsalo quando le notizie delle fatiche e della fame, che avevano tanto diminuito l’esercito di Alessandro mentre si ritirava dalle Indie, tutte cambiarono le risoluzioni in modo, che il progetto di far ritornare la flotta per le colonne di Ercole non potè essere eseguito(1).
Ai tempi di Cornelio Nepote, ch’è quanto a dire intorno alla nascita di Cristo, Eudosso navigò intorno all’Africa, mentre egli fuggendo avanti il re Lathyro fece vela dal seno arabico, e giunse per le colonne di Ercole nel Mediterraneo(2). Strabone ci ha
(1) Plutar. in vita Alex. c. 68. edit. Xyl. t. 2. pag. 702.
(2) Plin. hist. nat. lib. 2. c. 67. Praeterea Nepos Cornelius autor est Eudoxum quendam sua aetate, cum Lathurum regem fugeret, Arabieo sinu egressum Gades usque pervectum: multoque ante eum Coelius Antipater, vidisse se, qui navigasset ex Hispania in Aethiopiam commercii gratia.
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conservato il racconto di questo viaggio, il quale in principio era stato composto da Eraclide di Ponto(1). Dopo questo tempo (dice Strabone) Eudosso da Cizio, al tempo di Evergete II, venne nell’Egitto, e si dice che abbia avuto frequenti conferenze col re, e coi suoi ministri, particolarmente sulla navigazione per potersi inoltrare maggiormente sul Nilo. Propriamente in quest’epoca fu condotto avanti al re un Indiano da guardiani del seno arabico, preso solo, e semiviva sopra una nave gettata sulle sponde. Da questo, non sapendosi il suo linguaggio, non si poté apprendere né chi fosse, né donde venisse. Si dice che il re l’avesse fatto istruire nel linguaggio greco, pel qual mezzo arrivo a sapere, che quell’uomo era nato nelle Indie, e che da una tempesta, cambiando la sua direzione, era stato gettato solo su quelle coste, e che tutt’ i suoi compagni erano periti dalla fame; che questo Indiano si fosse offerto nell’istesso tempo, che, se il re volesse inviare delle navi nelle Indie, egli insegnerebbe la via ai navigatori; che il re
(1) Strab. lib. 2. p. 67-69.
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avesse accettato le sue offerte, ed avesse fatto partire Eudosso, il quale desiderava di visitare quelle terre; e che Eudosso al suo ritorno avesse portato delle droghe, e pietre preziose, parte trovate ne’ fiumi, e parte nelle miniere; ma che Eudosso fosse stato molto male ricompensato, poiché il re prese tutto quello che la nave avea portato. Evergete morì poco dopo questa spedizione, e la sua sposa fece partire Eudosso nuovamente per le Indie, però molto meglio equipaggiato. I venti lo cacciarono al di là dell’Etiopia, ed ogni volta ch’egli si vide necessitato di sbarcare cercò di guadagnarsi gli abitanti per mezzo di regali di formento, vino ec. Da questi ricevette in contraccambio acqua e piloti. Egli notò alcune parole di queste nazioni, e prese seco l’ornamento superiore della prua di una nave, consistente in un cavallo artificiosamente lavorato. Gli abitanti sapevano, che questa nave era venuta dalla parte dell’occidente. Eudosso ritornò poi felicemente nell’Egitto, ove dal figlio di Cleopatra, il quale in quel tempo era montato sul trono, fu nuovamente spogliato di tutto, poiché fu accusato di aver tenuto nascoste molte cose. La parte della prua ch’egli aveva
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portato seco fu esposta sul foro, ed i capitani delle navi dichiararono appartenere questa ad una nave Gaditana; poiché i mercanti gaditani si servono ora di navi grandi, ora di piccole, le quali, secondo l’insegna della prua, chiamano cavalli, co’ quali cavalli andavano fino a Lixus per pescare (come ne fa pure menzione Annone nella descrizione del suo viaggio, e forse è questo Lixus l’odierno Larais, ordinariamente chiamato Larrache), e qualche volta oltrepassarono anche questo punto. Altri capitani di navi giudicando del legname, e della costruzione, riconobbero questa prua per parte di una nave destinata a passare al di là del Lixus, per ove questo bastimento avea fatto vela senza essere più tornato indietro. Da tutto questo concluse Eudosso che si poteva navigare intorno alla Libia, e quindi radunò in patria tutte le sue ricchezze, ed intraprese il tragitto; strada facendo visitò Marsiglia, ed altri paesi celebri per le arti. Per le sue grandi intraprese che egli pubblicò fu in tutt’i paesi di considerazione ben accollo e soccorso in modo, che poté comprare una nave grande, e due piccole simili ai battelli de’ pirati, sulle quali imbarcò cantori, musici,
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ed altri artisti. Con un vento favorevole fece egli vela verso le Indie lanciandosi sull’alto mare; ma questo viaggio produsse noia a’ suoi compagni, e perciò si vide necessitato contro la sua volontà di porre piede a terra. Nell’avvicinarsi al lido, il che da lui era stato preveduto, la gran nave tocco fondo, ma senza produrre alcun urto, di modo che non solamente le mercanzie, pure la maggior parte del legname poterono essere salvate. Di questo legname fece fabbricare una terza barca, simile ad una nave da 30 remi, e continuò il suo viaggio fino ad una nazione che parlava precisamente quello stesso linguaggio del quale avea notato alcune parole presso quel popolo, ove prese seco il suddetto pezzo di prua. Egli si persuase, che questa nazione fosse della stessa stirpe dell’altra che aveva già visitato, e che il loro linguaggio somigliava molto a quello che si parlava nel regno di Bocco. Quivi Eudosso ritornò indietro, ed arrivando a Lixus vendette le sue navi, ed andò per terra a trovar Bocco per persuaderlo di una navigazione intorno all’Africa. Ma i ministri non consentirono a quest’intrapresa, e dipinsero questo progetto come troppo pericoloso,
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anzi come un’occasione di essere inaspettatamente sorpreso da’ nemici, poiché s’insegnava loro con ciò la strada per entrare nel paese. Eudosso ben presto si accorse che gli si davano pastocchie, e che si preparava una spedizione, colla mira però di esporlo sopra un’isola deserta. Di la dunque fuggi egli nell’Impero Romano, e poi nella Spagna, ove fece costruire due navi, una rotonda maggiore per tenere l’alto mare, ed una minore più piatta, e da 50 remi, per costeggiare, sulle quali s’imbarcò portando seco semenze, utensili agrari, fabbri di grosso legname, e tutto il necessario, coll’intenzione di navigare intorno all’Africa, e di ben coltivata, e da lui scoperta nel primo suo viaggio. Questa intenzione eseguì egli ec.
Strabone fa molte opposizioni a questo racconto, espone de’ dubbi, i quali a’ tempi suoi erano importanti ed indissolubili, ma ora ci convincono che questo viaggio, e la navigazione intorno all’Africa ha più fondamento di quello che Strabone poté comprendere. La distruzione di Tiro fatta da Alessandro, e di Cartagine da’ Romani furono le cagioni principali perché questi viaggi
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intorno all’Africa a poco a poco sono stati dimenticati. L’Egitto allora diventava il centro del traffico indiano, e l’Oceano Atlantico, e quello dell’Etiopia restarono abbandonati dagli uomini, finché 1500 anni dopo Cristo il passaggio fu nuovamente tanto conosciuto, quanto poteva essere stato 1500 anni prima di Cristo. Fino a quest’epoca troviamo già nominato, visitato, e saccheggiato l’Ophir dell’Africa. Nel libro di Giobbe, probabilmente il più antico, e scritto più di 1500 anni avanti l’era nostra, Ophir rappresenta il nostro odierno Perù. Giobbe 22, 24 «Il ruscello della roccia si farà divenire un Ophir» vuol dire, ti porterà dell’oro; e 28. 16. «L’oro di Ophir non si contrappone alla sapienza sulla bilancia». Ed in caso che dalla parte d’Europa non si sia potuto scoprirlo, ciò non ostante si conosceva il passaggio onde da quella parte venire in Europa, e nel mare Mediterraneo.
Volendo in questo articolo accennare solamente il numero maggiore degli abitatori del mare Atlantico, e del suo gran seno il Mediterraneo, sarebbe necessario di portare qui una storia completa delle creature che in esso vivono, poiché gli abitatori appartenenti
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ai mari del Nord e del Sud, e quelli del mare delle Indie, e dell’oceano Pacifico si perdono nel mare Atlantico in maggiore o minor numero. Non sarà però dispiacevole il fare alcune osservazioni intorno ai più rimarchevoli, e più rari, come egualmente intorno ai più comuni. Fra i più rari e fra i più dubbiosi si contano gli uomini marini, Tritoni, e le donne marine Sirene i quali rappresentano una parte assai più interessante nella mitologia, che nella storia naturale.
Gli antichi si figuravano che fossero questi Tritoni, e queste Sirene di una perfetta figura, con un volto libero e nobile, con capelli, con braccia, con una voce umana e piacevole, dotati di un gran dono di predizione, e che da noi in altro non differissero che nella coda di pesce, colla quale finiva il loro corpo(1); ed i racconti de’ moderni fino alla fine del 17 secolo non sono punto migliori.
(1) Homer. Odyss M. vs 35-55 ctvs. 166. seq-184 seq. Apoll. Rhod. IV. v. 892. seq. Hygin. Fab. praefat. et Fab. 125 et 141. Virg. Aen. V. 864 et Servius ad. h. l. Aen. X. 29 seq. Ovid. .Rem. 789. Met. I. 323 et V. 552. Cic. fin. V. 18.
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In un’opera che porta per titolo Delices de la Hollande si racconta che nel 1430, dopo una burrasca spaventevole, la quale strappò le dighe della West Frisia siasi trovata su’ prati una sirena; questa fu portata a Harlem, ove fu vestita, e le s’insegnò a fare le calze. Sarebbe stato meglio, in vece di far menzione di questo suo lavoro, di descrivere fino le sue braccia, le sue mani ec. a qual segno somigliavano alle nostre umane. Essa, si dice altrove, si servì de’ nostri cibi (probabilmente per fame, poiché altro non le diedero), e visse alcuni anni (trovandosi in uno stato non suo naturale non poté vivere di più); essa conservò il suo istinto per l’acqua, e non imparò mai a parlare; il suo grido (poiché in ciò consisteva il suo linguaggio) era da paragonarsi ai suoni di un moribondo. Le tre ultime circostanze danno al racconto una certa verosimiglianza.
Smih, capitano inglese, assicura di aver veduto nel 1614, presso la nuova Inghilterra, bellissima sirena che non cedeva alla più bella donna. Essa aveva la chioma bella e turchina, che ondeggiavagli sulle spalle; ma siccome la bellezza era più negli occhi dell’amante che nell’oggetto da lui osservato,
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così nulla gli opporremo. La parte inferiore, cioè dall’umbilico in giù, dic’egli, era simile ad un pesce (ciò crediamo facilmente: egli avrebbe dovuto descriverci la parte superiore).
Monconys nel suo viaggio in Egitto egualmente fa menzione degli uomini marini, i quali nella parte inferiore del loro corpo somigliavano ai pesci; ed egli osserva in oltre, che le loro dita erano unite per mezzo di una membrana nuotatoria.
Tom. Bartholin sostiene, che nell’estate del 1699 comparve una sirena nella vicinanza di Copenhagen, la quale fu veduta da molte persone, le quali nel racconto di nulla differiscono, fuorché nel colore de’ capelli, in alcune essendo sembrati rossi, in altre neri, tutte però andarono d’accordo nel restante, cioè che avessero un volto umano, non barbuto, ed una coda divisa(1). Meglio sarebbe stato di osservare se quel volto non barbuto era anche senza peli, e se somigliava a quello dell’uomo.
(1) Historiar. Anatom. cent. II. no. IX. pag. 188.
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Desponde fa menzione di un uomo e di una donna marini presi assieme. La donna, dic’egli, è vissuta due anni, ed ha imparato a far calze. Fa pena che Desponde non abbia esaminato le circostanze particolari di questa creatura, e particolarmente che non abbia descritto le proporzioni delle membra, delle mani ec. Lo stesso vale dell’uomo marino, che nel 1660 comparve sulle coste della Bretagna vicino a Belle Isle.
Chretien scrisse dalla Martinica, che nel mese di maggio del 1672 due Francesi, e quattro Negri avendo navigato in un Canoe verso quella piccola isola deserta situata al sud della Martinica, la quale è divisa da quest’isola per mezzo di un piccolo stretto di mare largo un miglio, su quella sbarcarono sopra una punta di roccia che si estende 10 in 12 passi nel mare, e ch’è 8 in 10 pollici elevata sulla superficie dell’acqua, e che mentre ivi stavano videro comparire alla distanza di 8 passi un uomo marino, il quale colla metà del corpo si eresse sopra qua. La sorpresa, e la paura, come essi sicuramente confessano, non permisero loro in quel momento di osservarlo esattamente; ma essendo questo sortito più volte fuori dell’acqua
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senza dimostrare alcuna ferocità, presero coraggio, e l’osservarono con maggiore attenzione. Esso aveva la figura dell’uomo dalla testa sino all’umbilico, la statura di un fanciullo di 15 in 16 anni, una testa proporzionata al resto del corpo, occhi grandi, senza essere deformi, un viso largo, e pieno, un naso largo o rincagnato, capelli bigi, che pendevano diritti fino sulle spalle, una barba bigia, ed egualmente lunga di 7 in 8 pollici. Anche la regione dello stomaco era pure coperta di peli bigi, i quali impedirono di esaminare la costruzione delle pinze che comparirono come se fossero braccia. Il viso, ed il corpo erano mediocremente bianchi; la parte inferiore aveva una grandezza proporzionata col resto del corpo, era simile a quella di un pesce, e finiva con una coda larga e divisa. La prima volta compari alla distanza di 8 passi; la seconda volta si avvicinò di più, e finalmente venne vicinissimo alla punta della roccia ove sedevano i Francesi ed i Negri. Poi si ritirò verso l’est lungo un prato che giaceva al piede della roccia. Diverse volte si rivolse, e restò molto tempo sopra l’acqua senza esternare il minimo timore: però parve agli osservatori che
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manifestasse un aspetto feroce. Non fece colla bocca il minimo strepito, segno probabile che a questo uomo marino mancavano gli organi della favella; respirava dalle narici, e passò la sua mano sopra il suo viso, ed il naso.
Nel 1719 sopra Aalstahung in Nodland fu trovato morto un uomo marino assieme ad alcuni vitelli marini, ed a diversi pesci. Questo era, secondo Pontoppidan(1), più lungo di 3 braccia, aveva la pelle bigio scura, la parte inferiore simile ad un pesce, e la coda come quella del porco marino (delphinus phocaena). La testa era umana (ciò probabilmente altro non significa che una testa un poco rotonda, poiché il naso era schiacciato, compresso, ma le narici però erano marcate), il petto non molto differiva dalla testa; le braccia erano attaccate ai fianchi per mezzo di una membrana sottile (dunque chiaramente pinne), nella fine erano più larghe che in quel luogo ove erano attaccate, ed erano tagliate in tre divisioni,
(1) Pontoppidan descrizione della Norvegia tom. 2, p. 358.
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dalle quali nascevano 4 piccole punte; ciascuna delle quali finiva con una parte cornea. Qual è dunque la somiglianza colla figura umana? Questa al più si riduce al petto, ed alle qualità necessarie ai mammiferi le quali agli antichi, particolarmente in una creatura marina, parevano tanto ammirabili, e tanto strane.
Poco distante da Landskron(1) fu veduto nel 1723 un tal uomo marino, di cui la testa in proporzione del corpo era piccola, i capelli erano neri e ricciuti, senza però che passassero gli orecchi: gli occhi erano molto incassati nella testa; il viso era magro e ruvido, ed aveva una barba nera, egualmente lunga. La pelle era grossa, e coperta sufficientemente di peli.
Nel 1624 ne fu preso uno nel mare Adriatico della lunghezza di 36 piedi, il quale aveva una pelle sopra la testa da paragonarsi alla cappa di un frate(2). Cristoforo III. re di Danimarca e di Norvegia,
(1) Henr. Seebald. Breviar. Histor. p. 536.
(2) Arild. Fluitfeld in vita Christ. III. de an. 1550.
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fece seppellire solennemente a Copenhagen uno di questi animali preso nel 1550, perché pareva che avesse la testa simile a quella di un uomo con i capelli tagliati, ed un cappuccio da frate(1), (come una specie di foche, che per questa ragione è chiamata foca col cappuccio (phoca cristata), avendo sopra la testa una pelle molle che può tirare sopra gli occhi, e sopra la bocca).
Più frequentemente si trovano questi animali sulle coste del Congo, e d’Angola, ove spesso vanno ne’ fiumi e ne’ laghi. In que’ contorni però sono più piccoli, giacché non oltrepassano mai l’altezza di 8 piedi, hanno due braccia e due mani corte, le quali possono un poco piegare, ma non chiudere interamente come gli uomini; hanno la testa di forma ovale; gli occhi piccoli, il naso schiacciato, la bocca larga, un mento non marcato, e senza una coperta esteriore alle orecchie. Questi animali non offendono alcuno, e si trattengono volontieri sull’erba che cresce sulle sponde de’ fiumi;
(1) Pontoppidan histor, Norveg. tom. p. 237.
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non vanno a terra; mangiano di quest’erba; come pure dell’alga, ma pare però che il loro nutrimento principale consista in pesci, poiché si sono veduti tenerli nelle zampe. I pescatori selvaggi stanno attenti sul luogo ove mangiano, e gli pescano cogli ami, li traforano con fiocine, li tagliano in pezzi, e li portano al loro Re, al che sono obbligati sotto pena di vita. Rare volte però li prendono, eccettuato quando piove, perché allora questi animali non si accorgono dell’avvicinamento de’ pescatori. Questi remano pian piano quanto mai è possibile, finché sono giunti tanto vicini da poterli arrivare colla lancia, che gettano sopra essi nel corpo con tutta la forza.
Qualche volta nel mare del Nord si prende cogli ami una specie minore di questi animali, cioè della grandezza di un fanciullo di 6 in 9 mesi. I pescatori qualche volta li portano a casa, e lor danno a bere del latte, cosa che non rifiutano. Questa specie volge mirabilmente gli occhi nella testa, e perciò li credono uomini. I pescatori non osano di tenerli più di 24 ore presso di loro; li nascondono a tutti, poiché li portano a casa colla speranza di udire qualche
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profezia, e dopo li rimettono cautamente in quel medesimo luogo ove gli avevano pescati. Più spesso ancora li sciolgono subito, e da ciò ne avviene che non si può dire con sicurezza se questi animali sieno di una specie minore, o piuttosto i figliuolini di altri maggiori.
La superstizione che domina il volgo riguardo a questi animali, credendo che possano predire il futuro, e che lo abbiano veramente predetto in alcuni luoghi; come pure una specie di ribrezzo che ispirano, e che si aumenta ancora per il loro grido, i loro gemiti che qualche volta fanno sentire quando sono feriti, saranno per lungo tempo un impedimento per poterli esaminare colla dovuta esattezza.
Il qui accennato sopra questi animali, tratto dalle migliori notizie, ci persuaderà che la somiglianza coll’uomo esiste unicamente nell’immaginazione. Se la loro figura, cioè una testa rotonda senza orecchi, e senza mento, con una bocca simile a quella di un bue, e senza guance, e un naso piatto, occhi prominenti, con una coperta di pelle sulla testa, senza collo, con braccia appena conoscibili unite al corpo per mezzo
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di una membrana fornite di zampe, come quelle del vitello marino; se questa figura può essere considerata come simile all’uomo, allora nulla ci lascia più dubitare dell’esistenza degli uomini marini. I Negri che sembra che li riguardino con occhi più ragionevoli (forse perché più spesso da loro si veggono), li chiamano Ngullau Masa cioè troia acquatica, ed altri poi Ambize Angulo, cioè pesce del porco. Essi trovano la loro carne buona e saporita, ed il lardo è da essi considerato come una cosa squisitissima.
Facendo attenzione sopra i diversi nomi, che varie nazioni hanno dato a questi animali, scopriremo facilmente quello che a loro pareva il più sorprendente ed il più ammirabile, ed in ciò troveremo la cagione di tutti gli errori e di tutte le favole che riguardo a questi si sono spacciate. I Portoghesi li chiamano Peixe Mulher (pesce donna), e però infallibilmente nelle mammelle trovarono l’intera somiglianza coll’uomo. Gli Spagnuoli li dicono Manati (l’animale colle mani), forse vedendo, che portavano qualche cosa nelle pinne pendenti, per esempio un pesce, o un loro figliuolino, serrandolo al petto, talché tanto bastò per mettere
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fuori di dubbio che avessero mani e braccia, benché le loro pinne fossero unite al corpo per mezzo di una membrana, più larghe in mezzo che di sopra, e senza gomito; e benché le zampe fossero fornite di una membrana nuotatoria. I Francesi li chiamano Lamentins (animali che si lamentano). Questo lamentarsi e sospirare era l’ultimo segno che ci voleva per loro attribuire la favella, la ragione, e la previdenza. Sopra questo si fonda pure il nome antico di Sirena, il quale è propriamente di origine Fenicio; poiché nel Punico Sir vuol dire canto, e Siren canorum monstrum. Da queste qualità indicate nel loro nomi sono nate probabilmente tutte le favole antiche, e le moderne. Cristoforo Colombo nella descrizione del suo viaggio ha fatto già l’osservazione che questo animale, ch’è una specie delle foche, sia la Sirena degli antichi. Nell’Olandese, nell’Inglese, e nel Russo si chiama vacca marina (Trichechus manati), senza aver né anche la minima somiglianza con essa, fuorché nel muso, al quale, al primo vederlo (il momento dell’origine di tutt’i nomi) si è fatto attenzione; poiché questo animale non ha né corna, né orecchie
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sporgenti. Nuotando esso nel mare soprasta subitamente una parte del dorso sulla superficie dell’acqua, talché ha l’aspetto d’un battello rovesciato che galleggia. Si sono trovati alcuni di questi manati della lunghezza di 20 piedi, e larghi 10 da una spalla all’altra; ma essi si restringono molto verso la parte inferiore. Vediamo da ciò che esistono varie specie di questi animali, senza considerare la grandezza di essi, la quale è tanto diversa che, per esempio, nel Congo ed in Angola se ne trovano solamente del peso di 500 libbre, mentre in altri luoghi, come nel mare Atlantico, ed anche nel mare del Nord, per esempio presso Kamtschatka, arrivano al peso di 8000 libbre(1), e forniscono all’equipaggio de’ vascelli una provigione di carne per 14 giorni. Ciò non ostante si sostiene da alcuni, come da quelli di Angola, e della Siberia, che si nutrono particolarmente dell’erba, e che abbiano un sapore tanto gustoso come la migliore carne di manzo. Di altri manati si sa con certezza,
(1) Ved. Steller Beschreibung von Kamtschatka, ove il Manato è ben descritto.
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che si nutriscono di pesci. Narra difatti Luca Debes nella sua descrizione di Faeroe p. 173, che nel 1670 ivi si vide vicino a terra una Sirena, la quale per due ore e mezza stette diritta sopra l’acqua, fino alla regione dell’umbilico, tenendo nella mano destra un pesce colla testa voltata in giù. Queste manate combattono colle foche, e più volte se ne sono vedute sulle rocce vicine a delle foche uccise, e che avevano perduto tutto il sangue; dal che possiamo conchiudere, che ambedue le specie si attaccano fra loro, o che sono animali di rapina. Alcuni sono sembrati più lisci, altri più ruvidi, altri più bianchi, ed altri più neri.
Una specie particolare de’ manati si trattiene nel fiume Amazzone, della quale ha dato notizia De la Condamine nella descrizione del suo viaggio.
Nella Russia settentrionale, e nel Kamtaschatka si distingue ancora, dice Muller(1); dalla vacca marina un animale marittimo che l’assomiglia, chiamato Beluga, a cagione
(1) Muller Sammlung russischer Geschichten tom. 3. p. 253 ec.
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della sua pelle bianca, il qual animale, secondo Gmelin, ne’ piedi e nella coda somiglia al vitello marino, ed è maggiore di esso, poiché arriva alla lunghezza di 15 in 20 piedi, ed alla grossezza di 3 in 4 piedi. La pelle è molto bianca, e da alcuni è descritta come squamosa, e da altri come liscia. Secondo il racconto di alcuni è affatto senza peli; secondo altri, che meritano maggior fede, sono i peli tanto sottili, che la pelle bianca vi trasparisce a traverso: la pelle è così grossa come quella del bove più forte; sotto di essa si trova il lardo della grossezza di due in tre pollici, poi avvi una carne tenace, che, riguardo al colore, ed all’odore, è simile a quella del vitello marino, e non si mangia che in caso di estremo bisogno. Il nutrimento di questo animale consiste in tutte le specie di pesci. Esso marcia a sciami, e conduce i figliuolin seco lui sulle spalle. Non mai si vede in terra o vicino alle sponde; evita i siti poco profondi, e non penetra molto dentro l’imboccatura de’ fiumi. Sulla schiena ha due fistole, per mezzo delle quali schizza l’acqua alcune braccia in alto. Se questa sola circostanza si verificasse sarebbe chiaro, che la
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Beluga sia una specie di Balena, e propriamente quella che i Groenlandesi chiamavano pesce bianco (Delphinus leucas). Quindi non dovrebbe punto essere accennato sotto questo articolo. Malgrado ciò ne facciamo qui menzione per far vedere quanto equivoche sieno ancora le descrizioni di questi animali marini, qual campo vasto abbia la fantasia considerando queste somiglianze ambigue, e quanto poco ragione abbiano quelli che vogliono trovare l’immagine dell’uomo fino nell’acqua. Egli è sicuro che la figura umana sarebbe assai impropria per abitare nel mare. Essa sarebbe esposta a mille pericoli, e non potrebbe servirsi, per esempio, delle mani, e degli organi del parlare; questo solo basterebbe per opporsi alle opinioni di quelli che sostengono esistere veramente animali marini somiglianti all’uomo.
I manati, e vacche marine, sono costruiti propriamente in modo come è necessario per gli abitatori dell’acqua. Per mezzo di essi è facile lo spiegare le favolette che si raccontano, la di cui origine possiamo forse attribuire allo spavento di alcuni inesperti marinari, i quali non mai si aspettavano d’incontrare pel mare un mammifero, e si
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spaventarono della figura diritta di essi animali, del petto, e dell’umbilico, in guisa che credettero di vedere spiriti e mostri.
Per quanto io sia inclinato a credere, che nell’Atlantico vivano ancora molte creature a noi sconosciute, ciò non ostante confesso che la seguente descrizione di un mostro marino(1) si scosta troppo dalle forme solite per non rendersi molto dubbiosa. Cotesto mostro, che alla fine di aprile 1788 fu trovato fra gli scogli del seno di mare di Pouliguen, presso la punta di Chef Monton all’imboccatura della Loire, dicesi che avesse 9 piedi di lunghezza, e 3 di grossezza, una testa che, riguardo alla figura ed alle orecchie, somigliasse alla testa di un bove, ma un poco più grande; che su questa portasse due corna, delle quali l’uno era diritto, l’altro ritorto come quelle dell’ariete. In mezzo a queste due corna si trovava un’escrescenza troncata di carne, come una corona, la quale però aveva molta somiglianza
(1) Ved. Courier maritime, e di questo in estratto nel Magazin fuer das Neueste aus der Physik. pubblicato da Lichtenberg e Voigt. vol. 6 quint. I p. 107. Gotha 1789.
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con una cresta di gallo. Sotto di esso era situato un occhio solo di una smisurata grandezza. La bocca era straordinariamente spaccata, e fornita di una triplice fila di denti, fra i quali se ne vedevano due come quelli del cinghiale. Sul collo aveva una lunga e folta criniera di lione. L’intero capo era coperto di una pelle dura e ruvida come quella di un vitello marino, la parte davanti era fornita di due zampe con artigli, e l’inferiore finiva in una coda di pesce con due pinne fornite di una membrana nuotatoria come quelle delle oche.
Se questa descrizione fosse stata inserita nelle gazzette d’Inghilterra niuno vi avrebbe fatto attenzione; ma siccome un giornale di tanto grido e fiducia come il Magazin fuer das Neueste aus der Physik (magazzino delle cose più recenti nella fisica) lo ripeté (e forse non solamente per semplice horror vacui), così la cosa merita un esame più esatto. Quello che rende sospetto il fatto è che il mostro non esiste più, e che il navigatore il quale lo ha trovato lo vendette ad un capitano di un vascello straniero (quanti indefiniti!). E questi non ha venduto il mostro ad un qualche Gabinetto di storia naturale,
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e né anche l’ha descritto? Si asserisce che gente le quali stavano per pescare l’abbiano trovato mentre stava morendo. Questi osservando che il suo corpo in diversi siti era lacerato, conchiusero che dalle onde del mare fosse stato gettato contro gli scogli, o che combattendo con un altro animale si fosse arenato; si pretendeva ancora di essersi inteso un grido terribile nella notte precedente.
Nel mare Atlantico, ed in particolare nel Mediterraneo, trovasi frequentemente quella specie di Delfini, la quale avendo sulla testa una fistola per ove schizza l’acqua in alto, è contata fra le balene. Tutte le specie conosciute di essi sono molto più piccole delle balene propriamente dette, e dei macrocefali, da’ quali si distinguono anche pe’ denti che hanno in ambedue le mascelle.
In tale specie i più rimarchevoli sono: il Delfino (Delphinus delphis), il porco marino (Delphinus phocaena), l’orca (Delphinus orca) la spada di mare (Delphinus pinna).
Il Delphino (Delphinus delphis), chiamato anche il voltatore, il saltatore, poiché ha l’abitudine di rotolarsi nel mare, e di
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saltare in aria; e che qualche volta è ancora chiamato porco marino, a cagione del muso lungo e schiacciato; questo, dico, il vero Delfino degli antichi, del quale, dopo che Erodoto ha raccontato la favola di Arione(1); non credevano di poter inventar delle cose che fossero bastantemente maravigliose(2).
Il Delfino rare volte oltrepassa 9, o 10 piedi di lunghezza, è grosso due piedi, ed ha la coda larga due piedi. Le due mascelle sono fornite di piccoli denti acuti: nella pelle esteriore si vede una sola fistola per la quale schizza l’acqua, ma che nell’interno si divide in due fistole, ed il suo corpo è quasi di figura conica. In mezzo alla sua larga schiena trovasi una pinna lunga un piede e mezzo, e larga più di un piede, la quale dalla parte della coda finisce come in una mezza luna; e sotto il ventre sono attaccate due pinne carnose, coperte di pelle
(1) Herodot. l. 23. 24. Gellius Noct. Att. VII. 8.
(2) Queste favole furono raccolte da Plinio. Hist. nat. lib. IX, c. 8. , le quali sono state poi ancora aumentate da Plin. jun. epist. lib. 33.
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nera. La coda è larga; e formata come quella delle balene; la pelle sulla schiena è di un colore nero lucido, e sotto il ventre è bianca. I Delfini ordinariamente vanno in compagnia, e comunemente si vedono inseguire i piccoli pesci. Essi si avvicinano molto ai bastimenti, e qualche volta li sieguono, dal che si tirò la falsa conseguenza, che amassero la compagnia degli uomini, e la musica. Del lardo che se ne trae si fa uso in ogni paese, e la loro carne presso gli abitanti settentrionali è tenuta per uno de’ migliori bocconi.
Il porco marino (Delphinus Phocaena) rassomiglia moltissimo al precedente nell’insieme; ma il suo muso è corto e troncato, ed è fornito di 46 denti acuti. È molto minore nel volume, poiché appena ha 5 sino a 8 piedi di lunghezza. Si dice di questi animali, che facilmente nell’estate si accechino, e che quando sono feriti gemano come gli animali terrestri. La stessa cosa raccontasi degli altri delfini. Frequentemente si fa uso di questi animali, e la loro carne saporita, o s’insala, o si affumica.
L’Orca (Delphinus orca) è rotonda, e deformemente grossa, avendo qualche volta
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più di 20, o 25 piedi di lunghezza. La pinna dorsale, che verso la coda è in forma di mezza luna, suol essere lunga 3 piedi: il dorso è bruno, il ventre bianco, e la mascella inferiore molto maggiore della superiore. Quando l’orca salta spesso in alto i marinai credono che sia un segno di vicina burrasca, la quale i Delfini present[a]no egualmente che le balene.
La spada di mare (Delphinus pinna) ha preso il nome dalla figura della pinna dorsale, lunga tre piedi, ch’è acuta e curva come una spada. La testa è rintuzzata: rare volte arriva alla lunghezza di 12 piedi. Più frequentemente si trova nel mare del Nord, e non teme punto di attaccare la balena stessa, alla quale, coi suoi denti acuti, strappa de’ pezzi interi dal corpo.
Secondo i rapporti di molti viaggiatori si trovano de’ Delfini, sulle coste dell’America, i quali senza differire dalle specie qui accennate, li superano di gran lunga in grandezza. Alcuni pretendono aver trovato nelle acque americane de’ Delfini, che passavano 30 piedi di lunghezza.
Alle creature più saporite del mare Atlantico, e del Mediterraneo appartengono
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le Lamprede (Petromyzon). Esse rassomigliano moltissimo ad una specie minore del medesimo genere chiamata Petromyzon fluviatilis. Hanno pure qualche somiglianza remota colle anguille, mentre la loro testa è ovale e della medesima grossezza del corpo; inoltre lor mancano tutte le pinne pettorali ed addominali, ma ne hanno però due sul dorso, delle quali l’inferiore circonda la coda. Su i fianchi del collo trovansi 7 fistole in linea, le quali servono al respiro, e sul vertice avvi un’altra piccola fistola per schizzare l’acqua in alto. Il corpo delle lamprede è scoperto, giacché esse mancano di squame, e di branchie, ma in vece di queste ultime posseggono organi interni che servono alla respirazione, cioè veri polmoni, consistenti in sacchetti rossi e membranosi, ne’ quali s’introduce l’aria per mezzo delle fistole situate sui fianchi. Egualmente non hanno spine, ma in luogo di esse, delle ossa cartilaginose in parte ripiene di midolla. Per ciò si distinguono assai da’ veri pesci, e per questo Linneo le ha contate fra gli anfibi, fra i quali pone tutte le creature che hanno un solo ventricolo, una sola auricola del cuore, il sangue freddo e rosso;
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polmoni per respirare ad arbitrio, ed una verga doppia. Siccome però si trattengono unicamente nell’acqua, senza venir mai in terra, così Klein le conta fra i pesci. La cosa è veramente una contesa di parole, assai indifferente al geografo fisico, il quale accenna gli oggetti ove gl’incontra, facendo solamente menzione del sistema per rendersi intelligibile.
La bocca della lampreda ha una forma circolare, ed è porosa di dentro: le labbra sono formate come valvole, per cui è assai facile a questo pesce, succhiando, di attaccarsi fortemente alle rocce, ed agli scogli, cosa che fanno anche volontieri, e per questo portano il nome di Lamprede, che significa succhiator di rocce e pietre. Ordinariamente sono lunghe un piede e mezzo o due, e grosse un pollice, e qualche volta se ne trovano della grossezza di un pollice e mezzo, vale a dire, della grossezza di un braccio mediocre; allora pesano 4 libbre, ed anche di più, mentre ordinariamente pesano una libbra. Le lamprede sono nericcie, coperte di alcune macchie pallide; hanno una spina dorsale cartilaginosa ripiena di midolla, forse sono per questa ragione indigeste, benché
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sieno, riputate cibo delicato. Si mangiano non solamente fresche, ma ben anche affumicate, disseccate, insalate, e marinate; e preparate in tal modo sono esportate in tutte le parti della terra. Siccome si propagano per mezzo di uova, come gli altri succhiatori di pietre di questa specie, vengono in tempo della fregola ne’ fiumi, ed anche fino all’imboccatura dell’Elba, e dell’Oder.
Si dice esservi nelle acque Americane delle lamprede, che hanno la proprietà della torpedine (raja torpedo) di modo che prendendole nelle mani, cagionano una scossa violenta, ed un torpore convulsivo al braccio. Questa specie particolarmente si trova in quantità nel fiume Amazzone.
Fra le Razze (rajis), il corpo delle quali scostasi ancora più di quello delle lamprede dall’ordinaria forma de’ pesci, si contano alcune specie particolarmente rimarchevoli. Esse sono larghe e piatte, e per lo più coperte di una pelle spinosa; hanno la bocca sulla parte inferiore della testa, le pinne sono cartilaginose, e respirano per 5 fistole, che si trovano su i fianchi. Quindi questa specie, come la specie antecedente, e
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la seguente, è stata messa da Linneo nella classe degli anfibi. Accenneremo prima
La Torpiglia, o torpedine (raja Torpedo) che trae il suo nome dalla proprietà rimarchevole di comunicare un colpo elettrico a tutti quelli che la toccano, o di produrre in essi una scossa convulsiva. Essa ha una forma rotonda, quasi come un piatto; la testa è interamente situata dentro la periferia circolare del corpo; la pinna caudale finisce ottusa, e la pelle è liscia, e senza pungoli, de’ quali le altre specie di razze ne hanno moltissimi, anzi alcune sono per ciò chiamate raje spinose (ruja pastinaca). La pelle è bruna e bianca di sopra, marcata di 5 macchie nere rotonde, e di sotto interamente bianca. Le torpiglie sogliono avere tre palmi di lunghezza, e due di larghezza, e pesano da tre sino a 20 libbre.
La rimarchevole sua forza di dare, come l’anguilla elettrica del Surinam, un colpo elettrico a chi la tocca, si procurò di spiegarla come un effetto meccanico de’ suoi muscoli che mette in movimento, col mezzo dello scoppiare della coda; ma l’inglese Valsh, con una serie di esperienze ha reso verosimile che questa forza abbia dell’analogia
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con l’elettricità. Anche prima di toccare la torpiglia, cioè avvicinando solamente la mano ad essa, si sente una scossa, che per mezzo di conduttori metallici, o d’una catena di persone, si estende in distanza considerabile. Que’ corpi, che non sono conduttori, rendono egualmente isolata la forza del pesce, talché con essi si evita la scossa. Questo pesce può dare più colpi di seguito, ma alla fine diventano più deboli, ed allora esso ha quasi bisogno di guadagnar tempo per isviluppare ancora della materia elettrica. Benché sia stanco, pure nulla perde della sua forza, la quale cessa solamente, quando cessa di battere il cuore. La torpiglia è dunque una viva macchina elettrica. Ciò non ostante Valsh non poté mai osservarvi una scintilla, come gli è riuscito nell’anguilla elettrica del Surinam; ma basta l’averla veduta in una specie.
Hauter ha cercato di scoprire l’organo elettrico della torpiglia, anatomizzando l’anguilla elettrica, e probabilmente l’ha trovato ne’ vasi membranosi incrociati con molti nervi, che sono propri a questo pesce. Essi sembrano essere formati da una quantità di colonnette di 5 a 6 lati, di una membrana
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assai sottile, e quasi trasparente, legate fra loro, con una specie di rete. Ciascuna colonna, secondo la lunghezza, è divisa a traverso con piccoli diaframmi; i quali lasciano fra loro certi spazi, che quasi potremmo chiamare divisioni. Hunter ha contato 150 divisioni in una colonna dell’altezza di un pollice in circa. Un gran numero di vasi corre, come ramificazione de’ vasi sanguigni, nelle branchie verso le divisioni delle colonne. Il tutto rappresenta al di fuori l’aspetto di un favo nell’arnia. Di tali organi se ne trovano due, l’uno sulla parte del dorso, l’altro sulla parte del ventre, e cominciando dalla testa vanno fino alla pinna caudale, giacendo immediatamente sotto la pelle. Ambidue questi organi sembrano fatti per ricevere e riunire tal quantità di nervi, che in niun animale, eccettuati gli organi de’ sensi, si trova una parte che in proporzione della grandezza ne abbia un sì gran numero come questi organi elettrici della torpiglia. Hunter conchiude con ragione, che questi nervi tanto numerosi e considerevoli, sieno la cagione fondamentale della forza elettrica di questo pesce. Questa osservazione
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conduce assai lontano, e per ciò l’accenneremo ancora in un altro luogo.
Aristotile, Plinio, e Galeno hanno conosciuto la forza convulsiva di questo pesce, e l’hanno descritta. È dilettevole il leggere il loro dire (indovinare) intorno a questa proprietà affatto per essi maravigliosa ed inesplicabile. I selvaggi, per esempio i Negri, attribuiscono questa proprietà alle esalazioni velenose del pesce, e non lo toccano: trovandolo nelle reti unito ad altri pesci gettano piuttosto via tutta la preda anzicché levarlo fuori.
La Razza liscia (Raja Batis) ha una fila di pungoli sulla coda, e pesa da una libbra fino a 200. Appartiene piuttosto al mare del Nord, ma si trova ancora, benché rare volte, nel mare Atlantico.
La Razza muccosa (Raja Oxyrhychus) si trova nel mare Atlantico più sovente che la precedente. Essa porta sul dorso 10 tubercoli spinosi. Quella che si trova nel Mediterraneo rare volte pesa più di 10 libbre.
L’Occhiata (Raja miratetus) è assai comune nel Mediterraneo; ha al di sopra de’ fianchi due grandi macchie di colore violetto ed orlate di nero, le quali ci rammentano
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l’idea di uno specchio. Essa ha de’ tubercoli intorno agli occhi, e tre file di tubercoli sulla coda. Tutte queste Razze hanno i denti ottusi, e le seguenti specie li hanno acuti.
Il pesce aquila (Raja aquila) ha preso il nome da’ suoi fianchi distesi come ale. Esso è pure chiamato pesce rospo (a Genova), poiché la sua testa rassomiglia un poco al rospo, ovvero pesce ratto (a Genova) a cagione della sua coda lunga, rotonda e cornea, la quale è simile a quella di un topo. È fornito di una tuberosità dentata e velenosa, colla quale uccide la sua preda. Questa tuberosità dentata è anche pericolosa per gli uomini quando li ferisce. Fuori di questa nulla contiene di velenoso; ed essendogli questa levata, può essere mangiato senza il minimo danno. Ordinariamente lo mangia la gente povera, poiché la sua carne ha un gusto ributtante. Nel Mediterraneo non arriva ad una grandezza considerabile; ma nel mare delle Indie occidentali, e sulle coste del Brasile se ne trovano sino del peso di due cento in tre cento libbre.
La Pastinaca (Raja pastinaca), chiamata anche in preferenza raja velenosa, anche
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essa è qualche volta chiamata pesce ratto. Ha un corpo grosso in mezzo, e che verso i fianchi diventa assai sottile. La coda rassomiglia quasi ad una carota: il tubercolo è in forma di uncino e dentato. Gl’Indiani occidentali, particolarmente nel Brasile, si servono di essi uncini in vece delle frecce velenose; ma una tal freccia lunga di 4 in 5 pollici, più volte viene armata in ambedue i lati con più di 80 dentini curvi. La ferita cagionata dalla puntura di queste frecce produce una infiammazione che difficilmente può essere guarita. Fuori di queste parti, il pesce nulla ha di velenoso, e la sua carne è migliore di quella della specie antecedente.
La Razza chiodata (Raja clavata), nominata così a cagione de’ suoi tubercoli lunghi in forma di chiodi, appartiene alle specie più comuni, e si trova non solamente nel mare Atlantico, e nel Mediterraneo, ma pur anche nell’Oceano delle Indie orientali e del Nord. La schiena, incominciando dalla nuca fino alla coda, è fornita di tubercoli, come pure se ne trovano su i fianchi, presso la bocca, gli occhi e la coda. Le mascelle hanno de’ dentini, e somigliano ad una lima.
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Il suo corpo è formato quasi come quello del Pleuronectus hyppoglossus, ed è interamente piatto. Le pinne circondano il corpo da ambedue i lati, e sono quasi più grandi di due ale. La coda è stretta e rotonda, non ha la forma della coda di topo come ne’ precedenti, ma è coperta di tubercoli acuti. Le razze dell’Europa, ordinariamente sono turchine ornate di puntini bianchi, e di piccoli cerchi bianchi o bigi. Quelle delle Indie orientali sono ancora più belle, e perciò gl’Indiani si fanno de’ grembiali colle pelli di questi pesci. Se ne trovano di diversa grandezza; le più grandi esistono nell’Oceano delle Indie occidentali, ove se ne incontrano della lunghezza di 13 piedi, e della larghezza di 10 piedi. La carne delle maggiori è però assai dura, e poco atta a servir di cibo, sono perciò preferite le minori. Ne’ paesi abbondano di pesce sono poco stimate, ed ordinariamente si pescano pel fegato ch’è grande, e grosso, e che dà un buon olio di pesce. Le pinne cartilaginose, ovvero le ale, sono considerate la parte migliore: queste si seccano, e si esportano in vari paesi.
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De Marchais, che fu uno de’ viaggiatori più intelligenti, e più istruiti, viaggiando nel 1725 sulla costa della Guinea scoprì ancora un’altra specie di Razze, ch’è stata descritta da lui sotto il nome di diavolo marino. Essa è di 20 in 25 piedi di lunghezza, di 15 in 18 piedi di larghezza, e tre piedi di grossezza. Particolarmente ne sono rimarchevoli gli angoli ottusi ne’ quali finiscono i suoi fianchi, che somigliano ad un tronco di un braccio rotto, sul quale in qua ed in là si trovano de’ grandi uncini acuti, o pungoli, o chiodi. La coda è lunga, ed in forma di frusta, e finisce con un chiodo acuto. Il dorso è guarnito di tubercoli rotondi, che s’innalzano due pollici sopra la pelle. Questi sono egualmente armati di chiodi, De Marchais le attribuisce 4 occhi, due vicini alla bocca, grandi e rotondi, e due minori che stanno più indietro. Due aperture probabilmente sono destinate ad altro fine, e sono tenute ingiustamente per occhi. Su ciascun lato della bocca sporgono in fuori tre punte in forma di denti, o di pungoli di disuguale lunghezza, e larghezza. In quel diavolo marino, che De Marchais fece disegnare, la punta di mezzo sulla parte
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destra era lunga tre piedi, e nella radice era grossa un pollice e mezzo; quella sulla parte sinistra non aveva che due piedi e mezzo ed era proporzionatamente larga; e quelle punte che stavano su ambedue i lati di questa erano più lunghe, che quelle sulla parte destra. La carne del pesce era formata di grossi fili, dura, e di un cattivo gusto; il fegato dava un buon grasso, e la pelle era ruvida e secca.
Nelle stesse acque della Guinea, ed anche nel Mediterraneo, particolarmente presso Genova e Napoli, si trova ancora una specie media, la quale è da considerarsi come il passaggio dalle Razze agli Squali, quindi è chiamata Raja Rhinobatos. Esse sono lunghette, la bocca è triangolare; la schiena è fornita di una sola fila di tubercoli, la pelle è ruvida, bruna al di sopra, e bianca al di sotto; le pinne addominali sono lunghe, e la coda è larga, e senza tubercoli. Esse sogliono arrivare alla lunghezza di 4 piedi, e pesano 12 libbre all’incirca.
I cani marini (Squali) hanno il loro domicilio nel mare Atlantico, e nel Mediterraneo, ove particolarmente sono frequenti. A cagione dalla voracità si è loro dato il
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nome di cani marini, e sono chiamati Squali (da squalor) a motivo della loro pelle di un bigio nero e sporco. Essi hanno un corpo lunghetto, ed in qualche modo rotondo, e 5 spiragli su i lati del collo. Alcune specie hanno la schiena liscia, ed alcune altre l’hanno coperta di tubercoli. Essi tutti sono vivipari, e si nutriscono di pesci e di altri animali, e di uomini vivi o morti, poiché non vi fanno alcuna attenzione. Quindi mordendo sopra tutto, facilmente se ne prendono per mezzo di un rampino, o di una catena alla quale sia attaccato un pezzo di carne o di lardo. I pescatori qualche volta ne prendono 3, o 4 fra lo spazio di una mezz’ora, ed anche di più. I cani marini non lasciano mai il rampino se non quando sono morti. Nel di loro ventricolo sicuramente si ritrovano tutte le cose che durante la giornata sono cadute o gettate da’ bastimenti nel mare, come ossa di manzo, stuoie, panni, capi, acette, e scuri. Questi pesci rare volte lasciano andare sino al fondo, ed anche solo per poco ad una qualche profondità, i cadaveri de’ marinai, che involti in stuoie, ed aggravati di molta zavorra si gettano nel mare; poiché gl’inghiottiscono
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con tutto l’apparato. Ciascun morso che danno leva d’un colpo o un braccio, o una gamba, o la testa, ed in meno di un mezzo minuto tutto è divorato. Siccome ordinariamente in tre o in quattro si lanciano sopra un cadavere, così nasce una lite fra loro attaccandosi furiosamente: durante l’azione s’elevano sopra l’acqua, e combattono con tanta veemenza l’uno contro l’altro, che si può sentire lo strepito alla distanza di alcune miglia, e vedere la striscia nel mare prodotta dagli urti che si danno.
Che vada avanti al cane marino, come asseriscono i marinai, un altro pesce piccolo della specie de’ gadi, che per così dire, segui la di lui direzione, per cui sia chiamato pilota, è stato nuovamente confermato dal sig. Geoffroy naturalista francese, raccontandone il seguente fatto osservato da lui medesimo. «Ai 26 di maggio del 1801 mi trovai a bordo della fregata l’Alceste fra il capo Buono e l’isola di Malta, e il mare era tranquillo. Si videro due piloti, e dietro ad essi il cane marino, che si diresse propriamente verso il vascello. I piloti nuotarono verso la poppa, parvero di osservarla con attenzione, ed accorgendosi di una totale mancanza
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di preda, ripresero la loro prima direzione, sempre avanti al cane marino, che non li perdé di vista, anzi parve di seguitarli come se da essi fosse stato tirato innanzi. Appena i marinai si erano accorti del pesce cane, corse uno di essi a prendere un amo forte, al quale attaccò un pezzo di lardo, e lo gettò nel mare; e benché durante questo preparativo il cane marino co’ suoi conduttori si fosse allontanato più di 30 metri dalla nave, ciò non ostante, sentendo lo strepito cagionato dalla caduta del lardo nell’acqua, ritornarono i piloti verso la poppa, quasi volessero vedere che cosa vi accadesse di nuovo. Durante l’assenza de’ piloti il cane marino fece mille movimenti sulla superficie dell’acqua, si mise sulla schiena, e poi sul ventre, s’immerse nell’acqua, e ritornò sempre a galla nel medesimo luogo. Tosto che i piloti s’accorsero del pezzo di lardo verso la poppa del vascello, si affrettarono vieppiù per raggiungerlo, ed il cane marino, essendo questi giunti presso di lui, cercò di prevenirli, ma ambedue i piloti fecero ogni sforzo perché ciò non gli riuscisse. Questi non parve sentire il bottino per l’odore, benché altre volte si suppose, che
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avesse un buon adorato; anzi i suoi compagni gli dovevano far fare attenzione. Appena lo vide, fece un salto verso di esso, e restò attaccato all’amo con cui fu tirato a bordo. I piloti restarono intorno alla fregata, dice Geoffroy; ed io ebbi tempo d’osservare che appartenevano alla specie del Gasterosteus ductor».
Si trovano 4 specie di cani marini nel mare Atlantico, e nel Mediterraneo, col dorso spinoso, e senza pinne posteriori.
Lo Spinello (squalus acanthias), lungo tre piedi e di 20 libbre di peso.
Il pesce porco (squalus Centrina) ha un corpo grosso triangolato; la schiera è bruna, ed il ventre di colore argenteo. Nella mascella superiore porta tre file di denti, e nell’inferiore non ne ha che una sola. Le due pinne dorsali hanno un tubercolo acuto. Se ne trovano della lunghezza di 20 piedi e più. Se ne incontrano spesso particolarmente nel Mediterraneo.
Lo Squalus spinax (cane marino collo sprone) chiamato così per i pungoli che stangli avanti le pinne dorsali, ha 4 piedi di lunghezza, e due di grossezza, e di larghezza. Si trova quasi in tutt’ i mari.
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Lo Squadro (squalus squatina), chiamato a Genova pesce angelo ha le sue pinne laterali che pendono in giù quasi come ale, e sì queste, come le mammelle attirano l’attenzione dell’uomo. Ha egualmente nella mascella superiore tre file di denti, de’ quali alcuni sono triangolari, altri piatti, ed altri poi acuti. La femmina partorisce sino 13 figliuolini alla volta. I piccoli che si trovano nel ventre di un cane marino, lasciandoli uno o due giorni nell’acqua, e cocendoli poi bene, forniscono, conditi coll’olio e l’aceto, un buon cibo. A riserva di questi figliuolini, e solo in caso estremo si mangia il ventre de’ vecchi. La carne de’ cani marini è dura, magra, puzzolente, e difficilmente potrebbe mangiarsi. Gli Europei non se ne cibano mai: i Negri la fanno imputridire per 7, o 8 giorni, e poi la mangiano avidamente, come uno squisito boccone, talché se ne fa un considerabile commercio verso l’interno della terra ferma.
De’ cani marini col dorso liscio, co’ denti acuti, e colle pinne vicino all’ano se ne trovano 8 specie, delle quali accenneremo qui solamente le più comuni del mare Atlantico, cioè :
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Il pesce martello (squalus xygaena), chiamato così a cagione della forma singolare della sua testa ch’è situata a traverso, o che secondo il consentimento di molti, assomiglia ad un martello da ferraio. All’estremità della testa si trovano que’ grandi occhi che dangli l’aspetto terribile. Esso è lungo di corpo, di colore bigio, ed ha le pinne grandi e forti. Si trova nel Mediterraneo, e sulle coste della Guinea, ma particolarmente sulle coste d’America. Siccome alcuni altri paragonano più volontieri la sua testa ad una bilancia, così è pure chiamato pesce della bilancia. Per una cagione simile lo chiamano i Francesi Pantoulier, ed i Portoghesi Zigene.
Il Fiburo, che prese il suo nome dall’antica città italiana Fibur, ha la sua testa egualmente singolare, assomigliando quasi ad una paletta, per cui è anche chiamato pesce paletta.
La specie più comune fra i cani marini è
Il cane (squalus galeus). Il suo nome latino deriva dalla parola greca δαλη, cioè donnola, poiché la testa è somigliante a quella della donnola. Presso gli antichi si
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chiama pure mustellus. Esso ha tre file di denti acuti, e ne ha ancora due altre presso gli occhi, che da alcuni sono stati creduti aperture d’occhi, ed ha le narici vicino alla bocca. Questo cane diventa grande, e pesa sovente 100 libbre. Esso è annoverato fra i cani marini più pericolosi, ed insegue molto i navigatori, accompagnando sempre i loro bastimenti. Alkins, nel suo viaggio verso la China, il Brasile ec. racconta, che mentre la barca Weymouth remò nel 1721 rimontando il Gambia, si avvicinò un tal cane, e non ostante lo strepito della quantità de’ remi, acceffò un marinaio, ed a morsi lo pose in pezzi. A Wydah, costa di mare assai pericolosa per questi animali, essendosi rovesciato un battello, che trasportava le mercanzie dal vascello in terra, uno squalus galeus che ivi era presente afferrò un marinaio nell’acqua; ma dal flusso essendo stato gettato in terra, tuttavia il cane non abbandonò il suo bottino, e tosto che l’acqua s’innalzò di nuovo, trasse l’uomo seco nel mare. Nel 1731 una ragazza schiava nel forte di S. James sulle sponde del Gambia, lavandosi i piedi fu tratta via da uno di
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questi squali, e da lui mangiata(1). Anche nel Mediterraneo fanno del danno, perché vi sono tanto frequenti come nell’Oceano.
Il gran cane marino (squalus maximus) è l’animale più grande di questa specie, il quale spesso arriva alla larghezza di 12 braccia, ed alla lunghezza di 50 fino a 60, e perciò da’ marinai è contato fra le balene. Esso è più frequente nelle regioni settentrionali, e se ne fa la pesca coi ramponi, come si fa delle balene. Esso dà una quantità di buon olio di pesce.
Più rimarchevole ancora è il cane carcaria (squalus carcharias), chiamato anche lupo marino, testa di cane, squalo di Jona, e pesce di Jona. La parola carcharias viene dal greco Καρκαρός (agguzzato, appuntato). Esso è de’ più terribili animali di rapina del mare Atlantico, e del Mediterraneo, ha 6 file di denti a forma di sega, una dietro l’altra, delle quali ne può innalzare tante, quante ne ha di bisogno, mentre le altre restano giacenti, e colla punta verso le fauci.
(1) Moores. Reisen in die inlaendischen Theile von Africa p. 75.
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Questi denti frequentemente si trovano ne’ gabinetti di storia naturale sotto il nome di Glossopetrae, (lingua di pietra, o lingue di serpenti), poiché per lo passato furono creduti essere lingue di serpenti petrificate. Siccome il cane Carcaria è frequentissimo nel mare Atlantico e nel Mediterraneo, così questi denti si trovano frequentemente sopra Malta, nell’Italia, nella Svizzera, nella Francia, ed anche in Inghilterra, in Prussia, nel Wirtemberghese, presso Alzey nel Palatinato, nella Contea di Mansfeld, nell’Assia e nella Sassonia. Le pinne dorsali di questo cane sono in forma di lance, e le anali mancano. La sua lunghezza giunge a 20 piedi, ed il peso ordinariamente a quattro, in otto mila libbre. Le fauci hanno 18 fino a 20 pollici e più di diametro. Quello che si prese presso l’isola di S. Margarita, aveva un cavallo intero nello stomaco, era de’ maggiori che si siano presi, e pesava più di 1500 libbre. Nel 1758 in tempo di burrasca cadde da una fregata un marinaio nel Mediterraneo, ed appena ebbe tempo di chiamare aiuto, che fu inghiottito da un pesce di Jona, e non fu più veduto. Il capitano della fregata che aveva osservato questo
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avvenimento fece scaricare all’istante un pezzo di artiglieria sopra il Carcaria, il quale fu sì ben colpito che vomitò immediatamente, il marinaio, che ancora vivente fu accolto da un batello arrivato in suo aiuto. Per mezzo di ramponi e di corde si prese l’animale, il quale tirato verso la fregata, fu dato in dono allo stesso marinaio da esso inghiottito. Questo marinaio viaggio poi per l’Europa esponendo da per tutto il Carcaria ripieno di borra(1). Esso era lungo 20 piedi e largo 8 piedi. Che simili avvenimenti sieno accaduti nel mondo antico lo dimostra la narrazione del Profeta Jona, la quale, anche considerata come invenzione, suppone però simili accidenti, del pari a quello che dicono i Greci di Ercole.
Le Chimere (chimaerae) ( nome datole per la loro figura deforme e strana) hanno una sola fistola da respiro che si trova sotto il collo, consistente in 4 divisioni o scalfitture; due denti incisori nella mascella superiore ed inferiore, delle pinne addominali,
(1) Ved. Mueller Vollstaendiges Linnaeisches Natursystem tom. 3 p. 267 ec.
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dorsali, e caudali ed il labbro superiore diviso in 5 parti. Di esse se ne trovano solamente due specie, delle quali la prima è chiamata Chimaera monstruosa, e che si trova nel mare Atlantico, e la seconda Chimaera Callorhynchus nel mare Etiopico.
La Chimera (chimaera monstruosa), chiamata anche topo marino, a cagione della sua coda lunga, simile a quella dei topi, ha un corpo lunghetto, e nel mezzo 12 pollici di circonferenza in circa. La pelle è giallastra, o di colore argenteo, le pinne addominalı sono lunghe, ed ha sulla schiena un pungolo volo, quasi della lunghezza di 6 pollici, che in fine è molto acuminato. Il fegato di questo pesce è tanto grasso, che mettendolo in un sito caldo si scioglie da sé, e forma una specie di olio, di cui i marinai si servono come balsamo vulnerario.
Il Gallo marino (Chimaera collorhynchus). Collorhynchus si chiama in greco quella pelle, che ne’ galli pavoni pende in giù sotto il becco, e per questa ragione, avendo questo pesce una pelle simile, è stata paragonata la sua testa a quella di un gallo pavone, e quindi chiamato gallo marino. Esso ha parimente sul dorso un pungolo acuto,
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col quale si può traforare la pelle, ed il corame. Il corpo è lunghetto, più alto che largo, senza squame, liscio, e di colore argenteo, con uno splendore di oro sulla schiena. Le alette addominali sono piccole. Su ambedue i lati dell’aletta dorsale, ch’è di una grandezza considerabile, stanno i pungoli più piccoli. La coda ha delle alette al di sopra ed al di sotto, e finisce in punta. La carne di questo pesce ha un buon sapore, e disseccata, viene spedita non solamente nell’interno dell’Etiopia, ma pur anche in Europa.
I Lofi sono chiamati anche diavoli marini a cagione della forma strana della loro testa, la quale per alcune elevazioni sulla nuca, e su i fianchi, in forma di pettini, ha un aspetto terribile. Dietro le apofisi laterali hanno delle fistole isolate di respiro, e sono forniti di alette dorsali, pettorali, anali e caudali: la bocca è piena di piccoli denti. Di questi lofi si trovano due specie nel mare Atlantico, cioè:
La rana pescatrice (Lophius piscatorius) che trovasi nel mare Atlantico, e sulle coste d’America. Essa si distingue dalla rana dell’Oceano settentrionale per la pelle d’una
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tinta un poco diversa, cioè sulla schiena di un brun-giallastro, e sul ventre di un bianco-rossiccio, mentre quella del Nord è tinta di un bigio oscuro sulla schiena un bianco sul ventre; e per de’ tubercoli grandi e piccoli, de’ quali è interamente coperta, mentre al contrario la rana pescatrice del Nord è priva di questi tubercoli. Essa è anche chiamata qualche volta diavolo corneo, ed in latino lophius vespertilio, poiché su i fianchi sembra che abbia delle ali. Il settentrionale è nominato lophius pinatorius.
Il Lophius histrio è di forma larga e piatta, ha una pelle bianca ornata di macchie brune, due turbercoli sul dorso, e de’ cirri intorno alla bocca: rare volte cresce più di 4 pollici. Siccome questo pesce si trattiene più volontieri ne’ mari di alga (posti fra l’Africa e l’America), della quale si nutrisce, così da alcuni viaggiatori è anche chiamato pesce musco.
Tutti questi animali di mare finora nominali, ed a cagione delle pinne cartilaginose conosciuti sotto il nome di Chondropterigii, sono annoverati da Linneo, nella sua decima edizione, fra gli anfibi nuotani; nella dodicesima edizione però vi comprende
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anche i seguenti, portati dagli altri naturalisti sotto il nome di Branchiostegi, de’ quali le Balistes Ostracion, Tetrodon, Diodon, Cyclopteri, e Syngnathi si trovano nel mare Atlantico principalmente, o ad esclusione degli altri mari.
Il pesce balestra (Balistes) è anche chiamato becco marino, poiché non solamente è coperto con una specie di pelle cornea, ma è anche fornito di corni. Il corpo, e particolarmente la testa, è compresso e piatto. Alla parte superiore delle alette pettorali si trovano le fistole di respiro che consistono in una scalfitura scoperta. Ciascuna mascella contiene 8 denti, ed i più lunghi sono posti in principio della bocca. Le Balistes hanno una sola aletta ventrale, la quale è attaccata al corpo come un conio. Se ne trovano varie specie.
1. Il Balistes monoceros, vive nel mare delle Indie occidentali, ha una pelle di colore bruno olivastro, senza squame, ed ornata di molte serpeggianti striscie turchine, fra le quali si veggono delle macchie rotonde e nere. Sul dorso, un poco dietro gli occhi, trovasi un corno lungo e acuto, che può innalzare ed abbassare, e piegarlo innanzi ed
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indietro a suo piacere. Questo pesce arriva alla lunghezza di 4 piedi, ed appartiene ai velenosi.
2. Il Balistes hispidus ha il corpo ruvido, e verso la parte della coda è quasi coperto di setole. La bocca è a punta, e sulla testa, fra gli occhi, ha un corno che pende un poco in giù.
3. Il Balistes tormentosus ha due corni consistenti in due alette strette, che hanno solamente una spina cartilaginosa. Questo pesce è interamente coperto di tubercoli piccoli, fra i quali si trovano velli corti e pieghevoli. Si trova frequentemente sul Capo Mesurado, e sull’intera costa di Guinea: è lungo 15 in 18 pollici, alto 7 in 8 e grosso in circa 5 pollici. Si mangia con piacere.
4. Balistes papillosus: il suo dorso è coperto di vaiuoli, ossia porri prominenti.
5. Il Balistes verrucosus ha sulla coda una triplice fila di porri, e 4 file di tubercoli corti piegati in dietro.
6. Il Balistes aculeatus è senza porri, ha 4 file di pungoli piegati sulla coda, i quali sono in poco più grandi che nelle specie antecedenti.
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7. Il Balistes vetula è chiamato così a cagione della sua mascella rientrante inferiore, per cui la pelle su ambedue i lati casca sotto il mento, e si unisce verso il petto. Siccome però la somiglianza con una vecchia non è tanto grande, così altri scrittori hanno nominato questo pesce gozzo, e becco di pappagallo. La sua pelle è bigia, e coperta di squame in forma di romboidi; sopra le guancie corrono striscie rossiccie o turchine; l’aletta dorsale anteriore ha 3 spine cartilaginose, delle quali la prima è un poco più lunga della seconda, e quasi rappresenta un corno: l’aletta caudale, le di cui spine medie sono più corte dell’esterne, è formata come una luna crescente. La lunghezza del pesce ordinariamente è di due piedi e più; la sua larghezza è la metà, il peso di 15 in 18 libbre. Più frequentemente si trova questa specie sulle coste del Brasile, intorno alla Guinea ec.
8. Il Balistes ringens prende il suo nome dal labbro superiore, e dal naso, ambidue tirati in dietro in modo che i denti della mascella superiore restano molto scoperti.
Benché tutte queste specie siano credute velenose, poiché la ferita cagionata dal loro
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pungolo è infiammabile, e difficile a guarire; ciò non ostante si leva loro la pelle e si mangiano. La loro carne è bianca, grossa, forte e di buon sapore.
L’Ostracion ha una pelle liscia della natura del corame, anzi quasi ossea, ed in ciascuna mascella ha 10 denti rotondi, ottusi, ed un poco sopravanzati. È senza alette ventrali, ed in vece delle fistole da respiro tiene alcune scalfitture scoperte. Di questo pesce si trovano molte specie quasi esclusivamente nel gran mare fra l’Africa e l’America.
1. L’Ostracion Triqueter ha la pelle di un turchino oscuro, e guernita da una quantità di piccoli porri.
2. L’Ostracion trigonus assomiglia molto all’antecedente, poiché la specie degli Ostracion per lo più è di forma triangolare, e da alcuni sono chiamati pesci triangolari. I gusci della pelle sono sesagoni. Sul margine del ventre trovansi due tubercoli.
3. L’Ostracion bicaudalis con due tubercoli sotto la coda.
4. L’Ostracion tricornis: anche questo è di forma triangolare, e porta due tubercoli sulla fronte, ed uno sulla coda.
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5. L’Ostracion quadricornis ha la fronte larga fornita di due lunghi tubercoli, ed in fine del ventre, sotto la coda, si trovano due tubercoli simili.
6. L’Ostracion tuberculatus si distingue da’ precedenti particolarmente per la figura del corpo, ch’è quadrata, e quasi come un baule. Se ne trovano di questa specie coi corni, e senza corni: quelli che si trovano nel Mediterraneo non hanno corna. Gli antichi lo chiamavano Ostracion nilaticus. Ha 4 tubercoli sul dorso.
Il maggior numero di Tetrodon ha il ventre coperto di pungoli, sono senza alette ventrali, e col dorso liscio. Intorno ad essi generalmente possiamo notare, che su i fianchi si trova una semplice spaccatura in vece della fistola da respirare, la quale possono assai gonfiare, in guisa che per tal maniera acquistano quasi una forma rotonda, per cui da alcuni autori sono chiamati soffiatori. Delle varie specie accenneremo qui solamente il pesce tamburo (tetrodon morsa), chiamato anche sole marino, luna di mare. Questo pesce è di forma piatta come un disco, o rotondo come un uovo; ha la pelle bianca e quasi inargentata, la coda è rintuzzata, corta,
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assai larga e concava; la testa importa la metà dell’intero pesce; la bocca è situata quasi in mezzo alla sua intera altezza, e le mascelle in vece de’ denti hanno un osso curvo tagliente. Sopra la bocca si osserva un piccolo tubercolo come un naso colle narici, e la parte posta sopra questo assomiglia ad una fronte con grandi rughe. Le pinne dorsali ed anali qualche volta si uniscono colla pinna caudale, ed in molti sono separate dalla coda, la quale è tanto corta, che appena vi si fa osservazione. L’intero pesce assomiglia alla testa troncata di un pesce grande. Esso ha due pungoli, de’ quali il maggiore comincia verso la metà del dorso, presso la coda, e il minore sta sotto il ventre. Se ne trovano di questi pesci da 14 sino a 100, anzi fino a 400 libbre. Essa vive non solamente nel Mediterranco, e nell’Atlantico, sulle coste dell’America, dell’Africa, e della Guinea, ma pure anche nel mare del Nord. La sua carne è bianca consistente, tenera e saporita.
Il Diodon è senza pinna ventrale, ha in vece de’ denti due mascelle ossee non divise; il suo corpo è come quello del porro spinoso coperto di pungoli acuti e movibili,
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che assomigliano ai cannoncini di penna, e che il pesce può muovere in tutte le direzioni, innalzarli ed abbassarli. Avendo riguardo alla figura del corpo, e de’ pungoli, si trovano due specie di Diodon. Alcuni hanno un corpo lungo in forma di pala, o pungoli rotondi quasi come i cannoncini di penne, e perciò sono stati chiamati pesci a cannoncini di penne. Questi arrivano alla lunghezza di uno sino a due piedi; alcuni fra loro hanno sulla testa e sul collo de’ pungoli particolarmente lunghi e rotondi, che formano quasi un collare, e sono, per ciò chiamati holocanti (collare spinoso). Gli altri hanno un corpo globoso, e spine triangolari, e per questa ragione sono chiamati pesci globosi: essi sono più piccoli degli antecedenti. Intorno al Capo di Buona Speranza se ne trova una specie che non è più grande di una palla da giuoco, ed è la più rotonda fra tutte le altre specie. Se ne trovano pure nelle acque delle Indie orientali ed occidentali, chiamati piccoli pesci globosi (Atinga), nome che loro si dà nell’Indie. Più grande è il Diodon hystrix, cioè della lunghezza di un piede, e di cui le radici de’ pungoli, che s’intrecciano, formano una
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tessitura a rete, per la qual cosa è pure chiamato Atinga reticulatus. Più grande ancora è il colombo spinoso, ma non arriva alla grandezza de’ pesci a cannoncini di penna.
Vi sono anche de’ pesci globosi i quali non appartengono agli spinosi, come frequentemente se ne trovano sulle coste dell’America. Essi hanno il dorso tinto di un colore olivastro con delle striscette bianche, ed il ventre di un colore bianco rossiccio.
Siccome la puntura cagionata da tutt’i pesci spinosi (Diodon) produce un’infiammazione; così da molti sono creduti velenosi, e per ciò poco si usa di mangiarli come nelle Indie occidentali; ma sulle coste dell’America se ne mangiano quasi senza difficoltà.
Fra i Cyclopteri si contano principalmente il Lumpus (Cyclopterus lumpus) il (lumpus spinosus), ed il (cyclopterus leparis).
Il Lumpo (Cyclopterus lumpus), chiamato anche anatra marina, ha una pelle cornea di un colore rossiccio, che tiene del verde, ed è fornito di tubercoli cartilaginosi, e di uno scudo sul petto. Gli occhi in proporzione del resto del corpo, ch’è quasi
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lungo due piedi, sono sufficientemente grandi; le narici si avanzano; il ventre è largo e piatto, e colla pinna ventrale quasi in forma di chiave questo pesce può attaccarsi alle rocce in modo, da non potersi staccare senza difficoltà.
Il Lumpus spinosus assomiglia molto all’antecedente, eccettuato che ha il ventre liscio, ed è coperto di pungoli simili alle punte delle spade. Il colore è d’un bruno caffè. Dietro le pinne pettorali è ornato di strisce bianche, e di sottli e piccole macchie rotonde e brune.
Il Cyclopterus liparis, ch’è chiamato anche ventre anellato, ha la testa grossa, e le pinne del ventre sono in forma anulare, colle quali si attacca questo pesce alle pietre. Esso è mucillaginoso come le lumache; è lungo 5 in 6 pollici, e finisce con coda d’anguilla. Esso si trova sovente nel mare del Nord, e dentro Amsterdam, e nelle acque che circondano questa città.
I Syngnathi hanno ricevuto il loro nome dalla loro forma, a cagione del corpo minuto e lungo, che consiste in diverse articolazioni. La bocca assomiglia ad una proboscide stretta in forma di cilindro; sulla nuca
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stavvi una fistola da respiro; e il pesce è affatto privo di pinne ventrali. Tutti questi pesci sono vivipari. Fra essi contasi il Syngnathus typhle che ha 6 angoli, una pelle dura, al corpo 18 articolazioni, ed alla coda 36. Esso arriva alla lunghezza di 20 pollici, e diventa grosso un dito. Questo pesce si trova anche frequentemente nel Baltico e nel mare del Nord, ove non arriva al di là della lunghezza di 6 pollici, e non diventa più grosso di un cannoncino da scrivere.
L’Aguglia (Syngnathus acus) è più lunga del typhle, ha un corpo di 7 angoli consistenti in 20 articolazioni, e la sua coda quadrala ne ha 43. Essa serpeggia volentieri come l’antecedente nella sabbia umida e molle, è tenuta per un buon cibo, e particolarmente si mangia salata.
Il Syngnathus plagicus è di una specie simile, e si trova in abbondanza, e particolarmente intorno al Capo di Buona Speranza, nelle regioni che abbondano di madrepore, e di millepore. Il suo corpo settangolare ha 18 articolazioni, e la sua coda quadrata solamnente 32. Esso è più piccolo del Syngnathus acus, e senza pinne pettorali ed anali:
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ha una pinna caudale in forma di ventaglio; ed alcuni di essi sono forniti di pungoli.
Il Syngnathus ophidion non ha pinne pettorali, ventrali, anali e caudali, ma solamente una pinna dorsale, la quale anche gli manca qualche volta. Avendo esso un corpo rotondo, e degli anelli come il lombrico, assomiglia moltissimo ai serpenti. Ordinariamente arriva alla lunghezza di 6 pollici. Se ne trovano di queste specie anche nel mare del Nord.
Il Cavalletto marino (Syngnathus hippocampus) si trova spesso ne’ gabinetti di storia naturale, ed anch’esso appartiene a questa specie. Essendo diseccato ha un collo assai tirato in dietro, per cui assomiglia in qualche modo alla testa di un cavallo ma non hanno tal figura questi pesci essendo in vita, e solo morendo ritirano il collo e la coda. La testa è gibbosa, la lunga proboscide di forma cilindrica, le articolazioni della pelle dura del suo corpo sono settangolari, sulla coda però prendono la forma quadrata, e il numero di queste articolazioni non sempre è lo stesso. Il colore della loro pelle partecipa del giallastro, o del turchiniccio. Sul loro corpo si trovano sparsi in
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qua ed in là de’ capelli, e de’ pungoli. Se ne trovano frequentemente nel Mediterraneo, nel mare Atlantico, ed in quello delle Indie occidentali, come pure nel mare del Nord. In alcuni luoghi si mangiano.
Delle altre specie di pesci, che secondo Linneo compongono l’intero regno de’ propri pesci (poiché egli conta fra i pesci quelli solamente che hanno gli organi esteriori di respiro, o branchie in vece de’ polmoni, e che sono forniti di spine in luogo di ossa o cartilagini, e oltre di ciò che hanno le alette, e che sono coperti di squame) dobbiamo accennare anche i più rimarchevoli di questo mare. Or siccome Linneo secondo le alette ventrali li divide in 4 classi, cioè in Apodi, che non hanno punto le alette ventrali; in Giugulari, le di cui alette ventrali si trovano avanti le alette pettorali accanto il collo; in Toracici, le di cui alette ventrali sono situate propriamente sotto il petto; ed in Addominali ove le alette ventrali stanno dietro le alette pettorali; così possiamo seguire il medesimo ordine, e nominare secondo questo tutt’i pesci che sono domiciliati nel Mediterraneo, e nel mare Atlantico.
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Fra gli Apodi si contano prima le specie delle Morene (Muraenae) che hanno la testa piatta, il corpo lubrico, e simile a quello de’ serpenti, e la bocca guarnita di denti. Dietro le alette pettorali sono collocate le fistole di respiro. Il tronco in alcune specie è fornito di 5, in altre di tre alette, mentre nelle ultime l’aletta caudale si unisce di sopra coll’aletta dorsale, e di sotto coll’aletta anale. La specie conosciuta sotto il nome proprio di Morena ha una sola aletta. La Morena è di una fecondità sì straordinaria, che la femmina è sempre pregna di figliuolini. Essa si distingue dalle altre anguille per la bella pelle, che ordinariamente è macchiata di negro e di giallo, e che qualche volta ha un colore bigio che comunica un poco col violetto, e macchiato di negro. Per quanto liscia la sua pelle comparisca all’occhio nudo, ciò non ostante il microscopio vi scopre le squame delle quali è coperta. Le Morene giungono alla lunghezza di due in tre piedi, abitano dentro le fessure degli scogli, e la loro carne è straordinariamente grassa, tenera e saporita. Gl’Italiani pescandole le mettono nell’acqua dolce, ove diventano assai grasse. Esse sono
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tanto frequenti nel mare delle Indie occidentali, quanto nel Mediterraneo, e partoriscono i figliuolini vivi, come fa pure l’anguilla comune dell’acqua dolce. Ancora più somigliante a questa anguilla comune è il Grongo (Muraena conger), il quale ha due cirri alla bocca, e sul fianco una striscia punteggiata di bianco. Arriva ad una lunghezza considerabile, poiché nell’alto mare Atlantico, e sulle coste della Francia, dell’Inghilterra se ne trovano della grandezza di 6 in 10, anzi fino a 30 piedi. La schiena è di colore bigio, il ventre è bianco, gli occhi sono grandi, ed hanno anelli di colore argenteo. Il Miro (muraena myrus) è chiamato dagli Olandesi Vaar Aal (anguilla padre), poiché per lo passato si credette che fosse il maschio della Morena, donde nasce pure il suo nome latino, poiché gli antichi chiamavano i maschi delle morene myros. Oltre di queste morene mangiabili esistono alcune altre specie non saporite, anzi velenose, che si avvicinano molto di più ai serpenti, poiché hanno il corpo perfettamente rotondo, e la coda lunga e sottile, e sono senza alcuna aletta, per cui spesse volte sono chiamati serpenti di mare.
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Quanto al colore si trovano fra queste morene dannose delle diversità, cioè alcune con macchie nere pallide, poste in fila su i fianehi del corpo, e queste arrivano alla lunghezza di 4 piedi circa, e sono chiamate muraena ophis. Un’altra specie di un giallo sporco sulla parte superiore del corpo, e di un turchino chiaro sulla parte inferiore del corpo è propriamente nominata il serpente marino (muraena serpens). La morena cieca (muraena coeca) riguardo alla forma esteriore assomiglia alle morene; ma siccome non ha alcuna aletta, pare, secondo il sistema di Linneo, non appartenga ai pesci. Non è gran tempo ch’è conosciuta: si trova nel Mediterraneo, ed ha preso il suo nome da ciò, che oltre i 22 punti traforati sulla testa, i quali le serviranno facilmente in luogo degli occhi, non gli si è scoperto alcun organo rassomigliante all’occhio.
Il Gymnotus è senza alette dorsali e ventrali. Le sue quattro specie principali si trovano unicamente sulle coste d’America. Il corpo compresso, ed in fondo, a cagione di un’aletta, a forma di chiglia. Il gymnotus del Brasile (gymnotus carapa) ha le squame rotonde, che stanno l’una sopra l’altra,
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e cagionano delle righe: ha una piccola testa liscia a forma di uovo, guarnita di vari porri, denti, e labbri carnosi de’ quali l’inferiore è più lungo del superiore. Il corpo lungo, e formato come un coltello, è in circa della lunghezza di un piede. Il Gymnotus rostratus, ha un becco lungo ed acuto alla foggia di corno, che essendo trasparente pare formato d’un pezzo solo. Esso ha il corpo rossiccio, macchiato di bruno, e la coda di topo. Vive egualmente nelle acque americane. Il Gymnotus albifrons ha la parte anteriore del dorso, incominciando dal naso, bianca come la neve, e si trova egualmente nelle acque del Surinam. La specie più rimarchevole fra questi pesci è il gymnotus electricus, chiamato ancora l’anguilla del Surinarn, lungo da uno sino a 5 piedi, e nel mezzo grosso 12 pollici circa. Riguardo alla figura assomiglia in gran parte all’anguilla comune, però ha la mascella inferiore un poco più lunga della superiore; gli occhi posti vicino alla bocca appena percettibili, la schiena rotonda ed elevata, liscia e senza squame, come pure senza alette, ed il colore di piombo, ed un poco macchiato. Sulla testa ha una quantità di piccoli buchi,
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il di cui uso è sin’ora sconosciuto. La cosa più rimarchevole in lui è la sua forza elettrica, che gli resta finché sta in vita. Toccandolo mediatamente o immediatamente si riceve un veemente colpo elettrico; anzi ciò succede pure quando si tocca l’acqua nel vaso ove quest’anguilla si trova. Quindi nessun pesce resiste nella vicinanza di esso. Il colpo è maggiore quando il bastone, col quale si tocca il pesce o l’acqua, ove esso si trova, è coperto di metallo, e fornito di una palla anche di metallo. Gl’Indiani lo prendono immediatamente sul dorso tenendolo tanto forte quanto possono, poiché in tal guisa gli levano la forza elettrica. Subito morto che sia questo pesce, cessa la sua forza elettrica. Che si sono vedute sortire dal suo corpo scintille elettriche, lo abbiamo già detto di sopra. Questo pesce si prende non solamente ne’ contorni di Surinam, ma pure intorno alla Guinea, e quasi sull’intera striscia fra i due tropici.
Il Trichiurus è riportato da alcuni sotto il nome di una specie di anguilla Indiana, poiché in qualche modo assomiglia all’anguilla. Si trova nelle acque dell’America, ed in quelle della China. Esso ha un corpo
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a forma di spada, il qual luccica come l’argento; diventa lungo due piedi circa, grosso un pollice e mezzo, e largo un pollice. È senza alette ventrali, anali, e caudali, e l’aletta dorsale può piegarsi: la coda finisce acuminata.
La Ninfa di mare (ophidium) ha la testa quasi nuda, ed il corpo a forma di spada o di serpente. Le mascelle, il palato e le fauci sono guarnite di piccoli denti. Generalmente è piccola, e frequentemente si trova nel mare Atlantico, e nel Mediterraneo. Si distinguono fra esse due specie, cioè l’ophidium barbatum, o l’ophidium imberbe: la prima ha 4 cirri lunghi un pollice alla mascella inferiore, la schiena di un colore bigio, i fianchi lucidi di colore argenteo, ed ornati di una striscia bruna, e di alcune macchie, e la pelle è trasparente, e con piccole squame lunghette, delle quali l’una non copre l’altra: l’aletta dorsale, ed anale sono unite colla pinna caudale. Gl’imberbi sono senza cirri, hanno la coda ottusa, e sogliono essere più piccoli del barbato. In diverse regioni americane se ne trovano di differenti colori, ora brunastro, ora bianco e
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macchiato di colore di fuliggine, ed ora anche marcato di altri colori.
I Stromatei sono macchiati di vari colori come tappeti tessuti, hanno un corpo ovale e lubrico, e la coda forcuta. La testa su i lati è compressa e piatta, e le mascelle come il palato sono guarniti di piccoli denti. Se ne trovano due specie. La specie Europea, fiattola (stromateus fiatola), che si prende nel Mediterraneo, riguardo alla figura esterna assomiglia allo schelfiscio (gadus aeglefinus). Essa è tinta sul dorso di un colore turchino pallido, sul ventre di un colore argenteo, e su i lati da diverse linee gialle punteggiate: e delle striscie macchiate che luccicano come l’oro, per cui è stata nominata Stromateus. Questo pesce diventa lungo 6 pollici, e pesa una libbra e mezza ed anche due libbre. La specie americana, che si trova particolarmente nella Giamaica, e nel Brasile, non è tanto macchiata, e perciò è chiamata Stromateus unicolor. Questa è lunga 6 pollici, e larga quattro pollici e mezzo.
La specie de’ Giugulari appartiene per la maggior parte al mare Atlantico, e fra essi il primo è il Gallionimo (Callionymus).
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Il suo corpo è nudo e senza squame; gli occhi non sono molto distanti l’uno dall’altro, le labbra superiori sono doppie, e le branchie chiuse, mentre questi pesci respirano per mezzo di alcune fistole poste sulla nuca. Nell’Atlantico, e nel Mediterranco si trovano due specie di questo genere, cioè il pesce Callionima lira (callionymus lyra), ed il pesce ragno (callionymus dracunculus). Il pesce Callionima lira ha la tesla lunga, i di cui lati verso la parte posteriore delle branchie sono guarniti di una fila quintuplicata di pungoli; gli occhi sono grandi e posti in alto, e il corpo è cilindrico, coperto di belle striscie turchine, che si vedono egualmente sulle alette dorsalı, e caudali Ordinariamente è lungo un piede, e della stessa lunghezza è quasi la prima aletta dorsale. Quest’aletta, e le altre sono sì larghe, che il pesce se ne può benissimo servire per volare. Esso suole innalzarsi alcune braccia sopra l’acqua, e volare per una distanza di più d’un tiro di fucile, ma deve essere distinto da un altro pesce volante, il quale per questa proprietà porta propriamente tal nome. La Callionima lira trovasi frequentemente sulle coste dell’Italia. Il pesce ragno
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che si trova presso Genova, e Roma, è macchiato di giallo, sulle branchie è fornito di un triplice pungolo, e le spine della prima aletta dorsale sono molto più corte che quelle della Callionima lira, alla quale assomiglia però moltissimo nel restante del согро.
Il pesce prete (Uranoscopus scaber, seu Coeli Speculator), egualmente abitatore del Mediterraneo, ha la testa un poco piatta, grande, quasi quadrata, guarnita di tubercoli porrosi; gli occhi sono piccoli, avanzano molto in fuori della testa, e sono circondati da un anello di colore giallo d’oro, e posti in cima alla testa, dal che sono nati que’ nomi speciosi che a lui si sono dati aggiungendovi ancora, che dormi di giorno, e vegli la notte. Esso si trattiene volontieri sul fondo del mare per acchiappare con maggior comodo la sua preda allorché gli passa sopra la testa. Ordinariamente arriva alla lunghezza di un piede. Sotto la parte superiore delle branchie soprastanno su ambedue i lati due pungoli acuti che può mettere fuori, e ritirarli a piacere, e sotto la gola si trovano egualmente due pungoli piegati indietro. Questo pesce è buono a mangiarsi,
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ed è certamente un pregiudizio mal fondato, se il suo fiele è creduto un buon rimedio nelle malattie degli occhi.
Il Dragone (Trachinus draco) si trova non solamente nel Mediterraneo, e nell’Oceano, ma pure nel mare del Nord. Esso si distingue dagli altri pesci di quest’ordine particolarmente pell’ano situato nella vicinanza del petto. La testa è liscia, e guarnita sulla parte posteriore di pungoli; la mascella inferiore sopravanza la superiore; il corpo è un poco lunghetto, coperto di squame piccole e sottili, e su i fianchi ha delle striscie, parte di color giallo, e parte di color bruno. Ordinariamente questo pesce non diventa più lungo di un palmo; in alcuni siti però se ne trovano della lunghezza di due piedi. Le alette dorsali sono a forma di sega, ed hanno delle spine assai pungenti, che colla loro puntura cagionano una forte infiammazione. Fuori di pesce non è punto dannoso, ed è tenuto per un cibo assai buono.
I Blenni (Blennii), che hanno ricevuto il loro nome dalla parola greca blenna (mucillaggine) della quale sono coperti, appartengono egualmente alla classe de’ Giugulari.
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Alcuni di questa specie portano sulla testa una sorta di pettine, ed altri ne sono privi.
De’ Blenni che portano un pettine solo se ne trovano 7 famiglie: 1. La lodola di mare (Blennius galerita), il di cui corpo è a forma di lancia, e di colore olivastro, le narici sono in guisa di cubi e dentale, ed a traverso della fronte, fra gli occhi porta un pettine triangolare, che consiste in una materia membranosa. Questo pesce non giunge in lunghezza a più di 6 in 7 pollici, e si trova non solamente nel Mediterraneo, ma pur anche nel Baltico.
2. Blennius cornutus, ha sopra gli occhi un paio di cirri isolati, come antenne; la testa è compressa, e tanto sulla fronte quanto sulle guancie è guarnita di alcuni tubercoli. Il corpo lunghetto, coperto da una pelle nuda, è ornato di punti e di macchie di un colore di ferro. Esso si trattiene nel seno del Messico.
3. Il Mesoro (Blennius ocellaris) ha una testa grande di colore cenerino, ornata di strisce verdi; la pelle è senza squame; gli occhi sono posti sulla parte superiore della testa, l’uno vicinissimo all’altro, ed a ciascuno di questi occhi soprasta una specie di antenna; delle due alette
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dorsali la prima è considerabilmente lunga; ed è marcata con una macchia grande e circolare, simile all’occhio di pavone, il di cui centro e nero e circondato da un anello bianco, ed anche si osservano altri punti bruni, bianchi, e turchini, i quali sul fondo verdastro fanno un bellissimo effetto. Il pesce è lungo 7 in 8 pollici, e dimora particolarmente nel Mediterraneo, e nell’Adriatico.
4. Il Gastorugine (Blennius gustucosus) ha coll’antecedente la stessa patria, e grandezza, e fuori del collo grasso, la medesima figura. Sopra gli occhi, e nella nuca stanno delle antenne spiegate . Il dorso è ornato di strisce di un verde olivastro, e di un giallo verdastro, le quali per mezzo di altre striscie di un turchino chiaro sono divise l’una dall’altra. Queste striscie incontrano in differenti direzioni le altre che montano in su, sotto il ventre, in guisa, che una striscia oscura confina con un’altra chiara. Le alette anali e dorsali hanno delle punte bianche.
5. La tinca inarina (blennius phicis), ovvero il fico, non ha propriamente un pettine sulla fronte, ma solamente una piccola antenna lunghetta sulla parte anteriore delle
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narici. Sul mento è barbuto, ha la pelle di più colori, ed ordinariamente si trattiene nell’alga dell’Adriatico, ed in altri luoghi del Mediterraneo.
Fra i Blenni senza pettine appartiene al mare Mediterraneo la Galeetta (blennius pholis). Essa ha la testa estremamente piccola, piatta, ed un poco appuntata; sotto il naso de’ cirri posti in circolo la mascella superiore più lunga dell’inferiore; e la pelle bruna, e senza squame è marcata con macchie nere.
Il Blennius gunnellus è rossiccio sulla parte superiore misto di un verde oscuro con istriscie bianche, e sulla parte inferiore è esso interamente bianco. Presso l’aletta dorsale si veggono su ambedue i lati 10 macchie nere a guisa di occhi, ornate di margini bianchi. La carne dura di questo pesce ordinariamente serve per esca. Esso è lungo un mezzo piede, e dimora in tutte le parti del mare Atlantico, come anche nel Baltico.
Il Blennius viviparus partorisce i figliuolini vivi. Esso è tanto fecondo, che annualmente mette più di 300 figliuolini al mondo. Il suo corpo, eccettuata la testa che ha del rospo, assomiglia all’anguilla; le narici sono
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a forma di tubi, e sulla bocca porta due piccoli cirri. Il corpo è tinto di un giallo bruno con macchie nere semicircolari. Le piccole squame hanno un piccolo margine nero. Esso arriva alla lunghezza di un piede circa, ed alla larghezza di un pollice; e sebbene non sia piacevole, ciò nonostante molti lo mangiano. Si trova in tutt’i mari Europei.
Il Blennius lumpenus si trattiene principalmente nel mare Atlantico, ed anche ha un corpo rotondo, che però, come nella specie antecedente, non finisce insensibilmente, ma tutt’a un tratto. Esso ha una gran bocca fornita di sopra e di sotto d’una fila di denti; alla mascella inferiore ha alcuni cirri forcuti, il corpo è di un giallo verdastro, abbellito di macchie nere quadrate; la punta della coda è rossiccia, e la sua lunghezza è di 8 pollici. Questo pesce vien mangiato.
Tra i Toracici, terza classe di pesci secondo Linneo, trovasi assai frequentemente nel mare Atlantico la Remora (Echeneis), la quale si distingue particolarmente per la figura della sua testa. Questa è piatta a forma di un uovo compresso, fornita d’incisioni a
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guisa di sega, o di rughe, fornite di piccoli rampinetti, per mezzo de’ quali si attacca succhiando ai vascelli, ai pesci grandi, alle foche ec. Essa può staccarsi al momento, ma volendola staccare contro sua volontà, piuttosto si lascia rompere in mezzo prima di cedere. Le maggiori fra le remori appena arrivano alla lunghezza di 4 piedi, e questo solo smentisce la favola, cioè che una sola di esse possa arrestare una nave a vele piene: ma che molte attaccandosi succhiando (cosa che fanno volontieri in tempo di burrasca per ricoverarsi contro, l’imperversare delle onde) possano impedire sensibilmente il corso del vascello è fuori di dubbio. La loro mascella inferiore soprasta alla superiore. Si distinguono due specie, le quali però nel colore e nella forma hanno molta somiglianza. La specie maggiore chiamata la remora maggiore (Echeneis neucrates), sullo scudo della testa ha 24 incisioni, la coda non è divisa, e questo pesce arriva alla lunghezza di 3 in 4 piedi. La remora minore (Echeneis remora) arriva alla lunghezza di 3 piedi, lo scudo della testa ha 18 rughe fornite di rampinetti finissimi, e la coda è forcuta, o piuttosto a forma lunare. Ambedue queste specie
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hanno la pelle grassa senza squame, e per la maggior parte un colore rossiccio, ed in parte anche di un verde di mare. Questi pesci si trovano abbondantemente nel mare Atlantico, sulla costa della Guinea, e nel mare delle Indie occidentali; e sono mangiati.
La Corifena (Coryphaena) ha un colore di un giallo d’oro piacevole, la testa ottusa, 5 alette nelle branchie, ed un’aletta che passa per tutta l’estensione della schiena, la quale in alcune è più lunga dell’intero pesce, ma non mai più piccola. Eccettuata l’orata (sparus aurata), la Corifena è il pesce più bello fra i toracici: ma prima di tutto abbiamo qui da considerare per la sua particolare bellezza il dorato (Coryphaena hippurus). Il lucido dell’oro sopra un fondo verde, la bella aletta dorsale di 60 raggi, la quale si estende come la coda di un cavallo; la piccola bocca piena di piccoli denti, gli occhi rossi grandi e fiammeggianti, il corpo lunghetto coperto di piccole squame appena sensibili, la sua destrezza nel nuotare, per cui è creduto il miglior nuotatore, poiché è capace di raggiungere i pesci volanti, e di mangiarli dopo averli necessitati
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egli stesso a volare; tutte queste cose non poco contribuiscono a renderlo uno de’ pesci più belli ch’esistano. Esso diventa lungo 4 in 5 piedi, e la sua carne è assai grassa e saporita. In tempo di calma se ne veggono degli sciami, e secondo le diverse stagioni se ne trovano frequentemente su l’una, e su l’altra costa del mare Atlantico.
La Coryphaena equiselis assomiglia moltissimo all’antecedente, dalla quale si distingue pel numero de’ raggi ch’è solamente di 53 nell’aletta dorsale, e per la grandezza, poiché arriva alla lunghezza di 6 in 7 piedi. Il colore della parte superiore del corpo è di un lucido d’oro verde, interrotto da diverse macchie cerulee, e la parte inferiore del corpo è argentea. La coda è forcuta, e quasi un piede e mezzo lunga. Questa come tutte le altre alette del corpo sono di un color d’oro. Più frequentemente si trova questo pesce nel Brasile: ma pure non è raro nell’Oceano.
Il Rasoio (coryphaena novacula), così lo chiama Linneo, poiché è largo ed ottuso avanti, e stretto di dietro, ed ha la schiena tagliente. La sua testa, e le alette sono tinte di un colore ceruleo. Questo pesce si trova nel
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Mediterraneo, ed è pescato più frequentemente sulle spiaggie scogliose di Rodi, di Malta, di Maiorca, e di Minorca. Rare volte è maggiore di 9 in 10 pollici.
Le Scorpene, che compongono una nuova classe de’ toracici, hanno una testa grande coperta di pungoli, de’ quali ne hanno ancora sul resto del corpo: gli occhi stanno vicini l’uno all’altro. Le mascelle, il palato, e le fauci sono guarniti di denti, e le branchie hanno 7 raggi. Nel Mediterraneo trovansi due specie, che dagl’Italiani paragonandoli coi porci vengono chiamate Scrofani o Scrofanelli. La specie maggiore Scorpena (Scorpaena scrofa) ha la pelle rossiccia, guarnita di macchie nere, e due cirri alla mascella inferiore. La sua carne è assai saporita e sana; ed essa arriva alla lunghezza di 4 piedi. L’altra specie Scorpena, (Scorfano a Napoli) (Scorpaena porcus) è tre o quattro volte più piccola, ha un colore oscuro, ed un giallo sporco con macchie brune; ha sopra gli occhi due tubercoli semicircolari, framezzo ai quali si trova una fossetta; ed accanto agli occhi, come sul naso si veggono una specie di cirri. Il maggior numero de’ pungoli sta sulle branchie. La
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loro carne è assai inferiore a quella dell’antecedente.
I pesci conosciuti sotto il nome di Zeus hanno una testa piatta e declinante: sul corpo, che rare volte è piatto, si osservano 7 raggi che verticalmente scendono in giù, l’ultimo de’ quali corre a traverso; d’altronde hanno una pelle assai lucida. Ad essi appartiene il Zeus Vomer di colore argenteo con due pungoli dietro l’ano; un terzo pungolo piegato indietro trovasi avanti l’aletta dorsale ed anale: il ventre è rotondo e prominente. Esso vive nelle acque americane, come egualmente il Zeus gallus, chiamato anche pesce lunare (sotto il qual nome abbiamo già accennato un’altro pesce), di cui il raggio decimo dell’aletta dorsale, ed il secondo dell’aletta anale sono più lunghi dell’intero corpo; la coda è larga e forcuta, e il corpo quasi rotondo e di colore argenteo è della lunghezza di 3 in 5 pollici, e della larghezza di due in 3 pollici. Il pesce fabro (Zeus faber) è chiamato anche S. Pietro, a cagione di una macchia rotonda bruna posta sui fianchi, la quale si paragona collo Stater. Altri lo chiamano ancora pesce solare, a cagione della sua figura rotonda, e dello splendore
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assomigliante a quello del rame. Porta due pungoli sull’ano, ed è lungo da 5 a 18 pollici, e largo da 3 a 5 pollici. Vive nel Mediterraneo, come egualmente il Riondo (Zeus aper), il quale ha una bocca prominente, giunge al più a 4 pollici, ed è tinto di un color rosso.
I Chetodoni (chaetodon), i quali hanno la bocca piena di denti pieghevoli ed assomiglianti alle setole, e 6 raggi nella membrana branchiostega, sono chiamati da altri pesci degli scogli, poiché si trattengono intorno agli scogli di mare. Si contano 23 specie fra essi, delle quali il maggior numero vive nel mare Atlantico, e particolarmente nel mare delle Antille. Alcuni hanno due pungoli alla bocca, e sono di colore bigio hianco; altri hanno due pungoli corti sopra gli occhi (chaetodon cornutus), ed altri poi sul ventre. Il maggior numero ha delle striscie a forma di arco (chaetodon arcuatus), le quali attraversano il corpo; ed un’altra specie ha delle striscie, che incominciando dalla testa finiscono sulla coda (chaetodon striatus). Allri hanno 5 striscie brune sopra un fondo giallo; alcuni molti punti neri, e delle macchie nere (chaetodon argus); ed altri
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poi un capestro nero sopra gli occhi, la pelle a forma di rete, ed una macchia nera e rotonda sulla coda (chaetodon capistratus). Il pesce più singolare fra questi è il (Chaetodon curacao): esso ha tre pungoli turchini ed acuti posti sulla parte anteriore del dorso, e sulla parte posteriore del ventre. Anche la testa, ch’è di colore giallastra o d’un bruno oscuro, è guarnita sui fianchi di diversi piccoli pungoli. Le alette dorsali ed addominali sono larghe a forma di falci, e rappresentano la figura semilunare, nel di cui mezzo trovasi l’aletta caudale. Queste alette sono turchine in mezzo, e di un giallo aranciato sull’estremità: egualmente sono la coda, e le due alette piccole, situate dietro le branchie. La cosa più singolare in questo pesce consiste nelle squame. Avvi sempre sopra una squama grande una quantità di altre piccole e tutte hanno all’estremità un colore d’oro. Particolarmente se ne trovano sulla costa della Carolina, e delle isole Bahame.
Le Sciene hanno generalmente un colore oscuro come quello dell’ombra. La membrana branchiostega ha 6 raggi, e sulla schiena trovasi una fossetta, nella quale l’aletta dorsale può nascondersi. Questi pesci
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formano 5 specie, le quali tutte appartengono al Mediterraneo. Il pesce chiamato Ombrina è di colore bruno-oscuro, e marcato di striscie ancora più oscure che serpeggiano sulla sua pelle: le alette addominali sono nere; arriva alla lunghezza di un mezzo braccio, ed è assai frequente nel mare di Toscana. L’ombrina barbuta che riguardo alla grandezza, ed alla figura assomiglia al carpione, ha una piccola barba alla mascella inferiore, e dal dorso corrono verso il ventre delle striscie di colore piombino, e di un giallo pallido. Questo pesce è de’ più gustosi, e trovasi frequentemente nelle acque di Genova.
Le Trigle (Triglae) sono egualmente una specie rimarchevole. Esse lasciano, sentire un suono eguale al canto del gallo, hanno la bocca alla foggia di corno, la testa è armata e coperta di striscie ruvide, ha 7 raggi nella membrana branchiostega, e sono particolarmente conoscibili per tre continuazioni libere, a forma di un dito alle alette pettorali, colle quali sono consolidate come un osso comune. Queste tre dita, dalle quali questa specie ha ricevuto il nome di Trigla, per lo più sono divise fra loro; e solamente
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in quelle specie, che si possono muovere non solo nell’acqua, ma ben anche nell’aria, si osservano unite per mezzo di una membrana. Si crede che queste continuazioni producono alle triglie il medesimo vantaggio che hanno gli altri per mezzo de’ cirri, cioè di allettare la loro rapina. Il corpo di questi pesci è cuneiforme, la testa grande, e la coda stretta. La testa è circondata da un grande osso, che nel maggior numero di essi finisce nella nuca, e ne’ fianchi, formandovi due punte; e sopra le orbite si osservano de’ tubercoli piegati in dietro. Il tronco è coperto di piccole squame, ed ha 8 alette. Le addominali e pettorali sono grandi, e la pinna dorsale pungente. Sul dorso trovasi diritto per la sua lunghezza una specie di scanalatura, che su ambedue i margini è guarnita di pungolini: toccando questi pesci, innalzano le dorsali, e cercano di ferire co’ loro pungoli; e siccome restringono nell’istesso tempo così schizzano via l’acqua e l’aria imbevuta, per lo che si sente quel suono simile al canto del gallo. Essi si trovano non solamente nel mare Atlantico, e nel Mediterraneo, ma pure s’incontrano alcune specie nel mare del Nord, e nel Baltico.
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Le specie più rimarchevoli sono il pesce Capone (Trigla cataphracta), che in qualche modo rassomiglia allo storione: la sua bocca è senza denti, è forcuta, e finisce in due punte cornee, ed il labbro inferiore è fornito di molti cirri. La testa ed il corpo, che ha una forma sessagona, ed è di colore rosso pallido, sono armati di alcune file di pungoli, pe’ quali acquista un aspetto orrido, per cui è anche chiamato il diavolo rosso. Esso ha solamente due continuazioni alle pettorali. La lira (Trigla lyra) a cagione della sua bocca forcuta è paragonata ad una lira, ed è perciò chiamata anche lira marina. Davanti gli occhi essa ha un pungolo piegato in dietro, uno più corto trovasi dietro l’occhio, ed un altro lungo lo ha su ciascun lato del petto. La dorsale giace in una fossetta, i di cui margini sono guarniti di pungolini. Tutta la parte superiore del corpo è rossa. Pescasi particolarmente intorno all’Inghilterra l’organo (Trigla gurnardus), che dagl’Inglesi è chiamato Gournard a cagione del suono che dà, e che rassomiglia al genere della colomba. Esso ha una testa grande coperta di uno scudo osseo, ornato
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sui fianchi di raggi di colore argenteo; una bocca larga guarnita di piccoli denti, la quale finisce con due pungoli: presso gli occhi ha de’ pungoli doppi; le squame sono grosse e pungenti, nere in mezzo e bianche sul margine. Il dorso è nero, coperto di punti bianchi; il ventre è rossiccio, e verso la parte superiore coperto di macchie gialle. Questo pesce arriva alla lunghezza di 3 piedi. Il Capone, o Cucco (Triglia cuculus) ha il suo dorso rosso, il ventre di colore argenteo, ed è senza pungoli. La linea laterale è coperta di squame forti e larghe di un colore argenteo, guarnite di nero. La Rondine (Triglia hirundo) è chiamata così a cagione delle grandi alette pettorali, le quali non solamente sembrano ale, ma pure vengono come tali da essa adoprate. Il dorso ed i lati hanno un colore bruno cangiante in violetto, il ventre un colore argenteo, e la testa, la linea laterale, ed il labbro superiore sono forniti di pungoli, de’ quali se ne trovano tre su ciascun lato dell’ultimo. Il piccolo pesce volante (piscis volans minor) ha tre pungoli a forma di sega fra ambedue le dorsali; e le sue addominali sono nere. Il pesce volante (Triglia volans) è il più grande
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ed il più comune fra tutt’i pesci volanti. Il suo corpo è forma di fuso, coperto di squame dure e ruvide, tinto sul dorso di bruno, e sul ventre d’un colore argenteo. La testa larga, ed incavata fra gli occhi, è formata da uno scudo osseo di un colore giallo turchino, e di un violetto oscuro. Le pettorali lunghe, e larghe, consistono in una pelle sottile di colore verde oscuro, in qua, ed in là tinta di macchie e di strisce turchine. Rare volte sorpassano i pesci volanti la lunghezza di 18 pollici: vivono nel grande Oceano, particolarmente però presso le Antille, e nella vicinanza del Capo di Buona Speranza. Spesso s’innalzano a centinaia, anzi a migliaia dall’acqua, e volano tanto nell’aria finché le loro alette sono bagnate, e dopo ricadono o nell’acqua, o sui bastimenti. Essi volano per fuggire dai rapina, ma spesso diventano egualmente la preda degli uccelli marini.
I Mulli, nuova specie di toracici, appartengono quasi esclusivamente al Mediterraneo. Essi hanno una testa piatta e pendente, la quale, come tutto il corpo, è coperta di squame grandi, che facilmente si staccano. La bocca è piccola, e le mascelle, ed il palato
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sono guarniti di piccoli denti. Essi hanno 8 alette, delle quali la prima dorsale è armata di pungoli. Vivono di animali acquatici, e di erbe marine, e sono annoverati fra i pesci più saporiti. Ne conteremo tre specie.
La Triglia (Mullus barbatus), le di cui lodi cantano Seneca e Plinio, come anche Orazio, Juvenale e Marziale. Essa era contata fra i cibi più squisiti degli antichi, e fu da essi stimata a peso d’argento. Gl’Italiani hanno ancora il proverbio: la triglia non la mangia chi la piglia, poiché è ben pagata. Dai conoscitori di buoni bocconi è questo pesce preferito a qualunque altro. Nell’esteriore rassomiglia all’aringa; le alette sono bianche cangianti in violetto; il corpo, dopo tolte tutte le squame, è interamente rosso. Alle mascelle inferiori avvi una fossetta, nella quale si veggono due cirri lunghi come la testa. Esso arriva alla lunghezza di un braccio, e pesa rare volte più di due libbre; vi sono però degli esempi di averne trovato del peso di 4 libbre.
Il Mullus surmuletus diventa più grande dell’antecedente. Quattro linee gialle corrono secondo la lunghezza su ciascun lato
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del corpo. Esso, a cagione de’ suoi be’ colori, e del buonissimo sapore, è avidamente cercato, e pagato molto caro. Gli antichi dissipatori romani diedero spesso 300 scudi per un solo di questi pesci.
Il Re di Triglia (Mullus imberbis) senza cirri, è la specie minore, ed appena della lunghezza di un palmo. Si pesca frequentemente intorno a Malta. Le due prime specie si trovano anche qualche volta nel mare del Nord.
Gli Sgombri (Sgomber) appartengono propriamente al mare del Nord, ove passano l’inverno; ma nell’estate si dirigono in colonne verso il mare di Spagna e il Mediterraneo. Essi sono del numero de’ pesci più voraci, e non rare volte, benché appena arrivino alla lunghezza di un braccio, attaccano anche gli uomini. In qualche modo rassomigliano all’aringa: hanno una testa lunga, che finisce in una punta ottusa, ed un corpo esteso, che finisce anch’esso a punta, tinto al di sopra ed al di sotto di un colore argenteo, e ch’è coperto di squame molli e sottili. La pelle, guarnita di alcune striscie verdastre e turchine, luccica nell’oscuro. L’aletta caudale è forcuta, ed un
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poco più oscura che le altre che sono tinte di un bigio chiaro. Tanto sopra quanto sotto la coda veggonsi 5 picciole alette spurie. Si pescano, e si mangiano abbondantemente.
Siccome si contano fra gli Sgombri lutti que’ pesci, che nella membrana branchiostega hanno 7 raggi (come li hanno i veri Sgombri), e nella vicinanza della coda delle alette spurie isolate, o cresciute insieme, così si hanno come Sgombri anche i seguenti, cioè:
La Palamita (Scomber pelamis) vive presso i tropici, particolarmente presso il promontorio verde, e le isole Canarie, ha un colore turchino di lavagna cangiante di verde sul dorso, sul ventre è tinto di colore di perle, e di quattro linee gialle che dalla testa si estendono fino alla coda. Il corpo grosso e carnoso è coperto di folte squame, e guarnito di alcuni pungoli. Sul dorso, vicino alla coda, sonovi 6 piccole alette spurie quadrate, e 7 simili al ventre nella stessa direzione. Essa arriva alla lunghezza di 3 in 4 piedi, e la carne è nutritiva ed eccellente. Si pesca in que’ luoghi ove il mare è più burrascoso, e con maggior vantaggio in tempo cattivo. Non si avvicina volontieri alla
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sponda, ed inseguisce a sciami i pesci volanti, dietro a’ quali salta per 10 fino a 12 piedi fuori dell’acqua. Essa fosforeggia dopo morte, e qualche volta assai forte, e forse contribuisce col suo grasso al luccicare del mare. Gli antichi preparavano con questo pesce, come colla vera triglia, il loro garum.
Il Tonno (scomber thynnus), è chiamato anche lo Sgombro spagnuolo, poiché si affolla in quantità sulle coste della Spagna, particolarmente fra Cadice e Gibilterra. Esso va assai frequentemente nel Mediterraneo, ove in abbondanza viene pescato. Si conosce particolarmente per la linea laterale liscia, che non molto distante dalla testa piegasi verso la schiena. Il suo corpo è a forma di fuso, grosso nel mezzo, e sottile verso le due estremità. La coda è lunare; le branchie sono liscie, rotonde e lucide; le squame piccole ed appena visibili: sul dorso ha un colore turchino d’acciaio, e sul ventre un colore giallastro, o bigio. La pinna dorsale è turchiniccia, e le altre alette hanno un’aletta spuria giallastra o bigia. La parte posteriore del corpo è guarnita di sopra e di sotto con 7 fino a 8 e 11 alette spurie, e su i fianchi con una pelle un poco prominente, che ha la forma di una pinna adiposa.
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Si prendono de’ Tonni della lunghezza di 7 fino a 10 piedi, e del peso di 120 libbre e più. Essi nuotano a migliaia, e propriamente in ordine, in modo che nella loro marcia formano un quadrilungo. Si pescano abbondantemente in alto mare con reti lunghe, ed estese, indi si tagliano in pezzi, e s’insalano, e così sono forniti in qualità di vettovaglia sulle galere; ovvero vengono tagliati in fette sottili, marinati, spediti in barili. A Costantinopoli, ove vengono spediti dall’Italia, sono molto stimati. Ne’ mesi di marzo e giugno se ne pescano a migliaia sulle coste dell’Italia, ed indi sono marinati. Da essi si estrae ancora un buon olio di pesce. A Porto Sur, nella Sardegna, la pesca del tonno dà al possessore solo un’entrata di 84000 scudi; e l’intera isola, anche quando la pesca è poco vantaggiosa, ne trae ciononostante un profitto di 60000 scudi. Qualche volta questo pesce è velenoso(1).
(1) Vedi intorno alla sua pesca importante Houel. Voyage pittoresque de Sicile. Par. 1702 fol. vol. 1 tab. 18-30.
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Il Sauro (Scomber trachurus) chiamato anche pesce piatto, si distingue pel suo corpo assai largo, sottile, e compresso sui fianchi; e la sua lunghezza rare volte sorpassa i 7 pollici. La parte superiore del corpo è turchina verdastra, e la parte inferiore bianchiccia mista ad un color d’oro lucido. I circoli degli occhi, e le alette sono di un giallo d’oro. Esso ha 10 alette spurie. La linea laterale, incominciando dalla metà del corpo fino alla coda, è fornita di rampinelli piegati in dietro; e su ambedue i lati è coperto di piccole squame triangolari.
Lo Sgombro turchino riguardo alla figura rassomiglia moltissimo allo Sgombro comune, però è più piccolo, e non arriva alla lunghezza di un piede. Ancora si distingue esso pe’ pungoli de’ quali è fornita la linea laterale, e la parte ruvida vicino alla coda. Il dorso è turchino, il ventre di colore argenteo cangiante un poco in violetto; le branchie sono nere; la carne è dura e secca. Si trova nel Mediterraneo.
Gli Spari hanno un corpo compresso e largo, denti incisori forti, e molti denti molari ottusi, posti l’uno molto vicino all’altro; labbra doppie, branchie squamose di 5 raggi,
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ed alette ventrali rotondate. Di questi se ne conoscono 26 specie, le quali per la maggior parte vivono nel mare Atlantico; alcuni altri però trovansi unicamente nel Mediterraneo, come il dentice (sparus dentex), il pagro (sparus pagrus), ed il pagallo (sparus erythrinus). Il Dentice ha una gran testa squamosa, occhi grandi, la mascella inferiore prominente con due grandi denti canini che sporgono in fuori. Il corpo è attraversato da striscie rosse; la coda è forcuta. Esso non oltrepassa molto la lunghezza di un piede. Il Pagro ha una membrana alla dorsale ed all’anale, la quale copre gli ultimi raggi, tenendoli quasi come dentro un sacco. È ornato di una linea laterale punteggiata: il capo è grosso e largo; la coda forcuta; le squame sono grandi, e di un rosso assai carico, che di notte luccicano come carboni accesi. Nell’inverno questo pesce prende un colore turchiniccio. Esso è straordinariamente vorace, ed arriva al peso 10 libbre. Il Pagallo trovasi ancora nel mare Atlantico, intorno alle Antille, e presso il Capo di Buona Speranza. Ordinariamente pesa una libbra e mezzo. Otto specie di Spari hanno una macchia nera presso la
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coda. Il più rimarchevole fra essi è la Menola (Spirus maena), alla quale, mangiandola, si attribuisce l’effetto di un purgante, benché sia di buon sapore. Su ciascun lato del suo corpo sono 11 striscie di un color d’oro; la bocca quando è aperta è grande, poiché il labbro inferiore si estende moltissimo; essendo però chiusa, è piccola. Nell’inverno è questo pesce bianco, e nell’estate rigato di varie striscie. Nell’Italia trovasi esso in grande quantità, ed a molto buon mercato. Il più bello di questa specie è forse l’Orata (Sparus aurata), la quale unisce un buonissimo sapore ad una grande bellezza. Il dorso è di un verde oscuro i lati sono bruni cangianti in color d’oro; i cerchi intorno agli occhi di colore argenteo; e porta sulla fronte delle macchie semilunari. Esso arriva alla lunghezza di due piedi: il più grande di questi pesci non pesa più di 10 libbre. Vive nel mare Atlantico, ma particolarmente nel Mediterraneo, sulle coste dell’Africa fino al Capo di Buona Speranza, e nel seno del Messico.
Il mare Mediterraneo contiene ancora 6 specie di Spari rigati, e due altre si trovano sulle coste d’America. Nove altre specie di
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essi, e particolarmente ben marcati, vivono oltre i summenzionati nell’Oceano.
Della specie de’ Pleuronetti (Pleuronectes) che hanno ambedue gli occhi sopra un solo lato, pochi appartengono al mare Atlantico.
I Gobi (gobii), che vicino la spiaggia si trattengono volontieri sul fondo, hanno fra gli occhi, assai vicini l’uno all’altro, due forami, de’ quali l’uno è più avanzato che l’altro; una membrana branchiostega con 4 raggi, e delle alette addominali per mezzo delle quali si possono, succhiando, attaccare agli scogli. Si trova frequentemente nel Mediterraneo il Gobio (Gobius niger), come pure il Paganello (gobius paganellus), il Chiozzo (gobius jozo), ed il Pignoletti (gobius aphya).
La specie numerosa delle Percae, o que Toracici che hanno delle branchie squamose e dentate, 7 raggi nella membrana branchiostega, e delle spine pungenti nelle alette, e delle quali Linneo ne conta 36 specie, abita per la maggior parte ne’ fiumi, onde non ne faremo qui menzione, eccettuatene la Perca lucioperca, e la Perca marina che vivono nel Mediterraneo. L’ultima
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si trova ancora nel mare del Nord. Nelle acque dell’America si trovano la Perca undulata, la Perca alburnus, la Perca atraria, la Perca guttata ec. Tutte queste Percae americane, come quella propriamente detta del Mediterraneo, hanno un’aletta dorsale, ed una coda, non divisa.
I Gasterostei assomigliano moltissimo alle Percae propriamente dette; essi si distinguono per alcuni pungoli avanti l’aletta dorsale, e per uno sterno duro. Il loro corpo è lunghetto, compresso su i lati, ed in vece delle squame è coperto di scudi ossei. Fra essi contasi il Pilota (gasterosteus ductor), che per lo più accompagna i pesci cani (squali), e probabilmente si nutrisce questo pesce di ciò che lo squalo gli lascia. Esso è quasi l’unico amico de pesci cani, e forse per la ragione, ch’ è coperto di pungoli. Trovasi copiosamente nel Mediterraneo, e nel mare Atlantico.
La specie de’ Labri (Labri) assomiglia tanto agli Spari, che non sempre si può distinguerla da questa al primo colpo d’occhio. Esso ha le labbra grosse e grandi, che coprono i suoi denti acuti, e la membrana branchiostea guarnita di 6 raggi. Su
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i raggi della dorsale osservasi un processo tendinoso. Le pettorali sono a punta, e la linea laterale corre totalmente in linea retta. Delle 41 specie di essi Labri appartengono all’Atlantico, ed al Mediterraneo il Labrus Scarus, creduto tanto saporito che viene mangiato co’ suoi intestini odorosi, e che ne’ tempi di Tiberio fu esso stimato per una delle migliori delicatezze(1); il labrus cretensis; il sopraciglio (labrus heputus) il pesce pavone (labrus pavo), che particolarmente trovasi sulle coste della Siria; la Donzellina (labrus julis), che trovasi nella vicinanza di Genova ec. Quest’ultimo da molti è creduto il pesce più bello. Esso suole attaccarsi come le mignatte ai piedi dei marangoni.
Sotto la 4 classe de’ pesci addominali fra i quali Linneo conta 13 generi, si annoverano molti pesci di fiume, e di laghi, che qui non appartengono. I seguenti trovansi nell’Atlantico.
(1) Plin. hist. nat, 9 C. 14 lib. 32. C. 11. Horat. satyr. 2. 31. Ovid. Halicut vers. 9 e 119. Mart, XIII. 83, pred in altri luoghi.
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La Loricaria, di cui il corpo è coperto di squame ossee non pieghevoli, la membrana branchiostega ha 6 raggi, la testa è liscia e compressa in giù, e la bocca senza denti.
I pesci volanti di questa classe assomigliano alle aringhe. La testa è squamosa; la bocca rotonda, senza denti, e rugosa; le branchie si uniscono su ambedue i lati; de’ raggi nelle branchie se ne contano 10, e la alette pettorali sono lunghe ed atte per volare. Essi volano spesso a sciami sopra il mare, ma appena per la distanza di 200 passi; poiché le loro addominali ben presto si asciugano, onde sono resi inabili a continuare il volo. Se questi pesci, come suppone Forskal, il quale ne ha veduto volare de’ grandi sciami, fossero i Selav, o le quaglie degl’Israeliti, allora dovrebbero essere stati trasportati in terra non solamente da un gran colpo di vento (come dice Mosè 4. v. 31. Mosè 2. 16. 13. e PS. 105. 40.), ma ben anche dovrebbero esistere delle prove che un tal tragitto possa seguitare un mese di continuo, e prima di tutto si dovrebbe verificare la loro esistenza nel mar Rosso. Se ne trovano non solamente nel Meditarraneo, e
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nell’Atlantico, ma ben anche in tutto l’Oceano della zona torrida, e fino al 400 di latitudine. Nel mare della Spagna, come sulle coste del Brasile, trovansi ancora una specie di essi, le di cui alette addominali sono però più corte.
I Polinemi si distinguono dagli altri pesci di questa classe particolarmente pei processi, liberi e filamentali, un poco somiglianti alle dita, i quali si trovano alle pettorali: questi processi non sono divisi in membri come nelle Chimaerae; e nella naggior parte sono più lunghi dell’intero corpo. Il pesce quinquarius ha 5 di tali processi filamentosi posti immediatamente avanti la pettorale, de’ quali i tre o quattro superiori sono lunghi il doppio del suo corpo, cioè 8 fino a 10 pollici. I raggi corrispondono in tutte le specie col numero di detti processi così il Polynemus della Virginia ha 7 raggi e 7 processi.
Delle Clupeae abbiamo ancora da accennare qui l’acciuga (Clupea encrasiculus), che appena è lunga un dito; la mascella superiore soprasta all’inferiore; il suo corpo lunghetto è coperto di una pelle sottile fornita di squame tenere che facilmente si staccano.
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Le Anjovis sono delle Acciughe più piccole; ambedue sono d’un gusto un poco amaro, ma assai piacevole. Questi pesci passano ogni primavera a sciami dal mare della Spagna nel Mediterraneo, ove ne’ mesi di maggio, di giugno, e di luglio si pescano sulle coste della Francia, e dell’Italia, e messe in piccoli barili, sono spediti da per tutto. Possiamo farci un’idea della quantità che ne pesca la Francia dall’arrivare a Nantes solo, annualmente, 14 sino a 16 carichi grandi di bastimenti che portano le uova insalate del baccalà dall’estero per servirsene di esca in queste pesche, senza comprendere la qualità che la Francia stessa prepara a tal uopo.
Gli altri pesci più importanti di quest’ordine vivono nell’acqua dolce, e ne faremo menzione a suo luogo.
Le Seppie, che si trovano in grand’abbondanza nel Mediterraneo e nell’Atlantico, e che si pescano frequentemente sulle coste dell’Italia, non appartengono ai pesci, ma alle mollusche. Gli Olandesi sogliono chiamarle gatti marini, poiché colle loro braccia si attaccano come i gatti. Esse hanno un corpo carnoso situato dentro una borsa, otto braccia
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lunghe, guarnite al di dentro di porri. Oltre di queste braccia hanno ancora due antenne lunghe, poste sopra lunghe colonnette; e due grandi occhi. Il corpo assomiglia quasi ad una borsa aperta, e la coda ha quasi la forma dell’ancora, per cui è forse chiamata in alcune descrizioni di viaggio Ancornet. Linneo ne conta 5 specie. Le due più rimarchevoli sono:
Il Polpo (Sepia octopedia), che è senza antenne, e senza coda, il di cui corpo è ornato di macchie nere rossiccie, grande un pugno, e, comprese le braccia, 12 pollici lungo: però, se ne trovano alcuni della lunghezza di 18 pollici. Essi luccicano di notte, e cuocendoli diventano rossi.
La Seppia (sepia officinalis) è senza coda, ha due antenne, e due occhi grandi; porta sul dorso una pelle ossea, la quale è quasi trasparente. La seppia getta quest’osso, ed allora nuota sul mare come la schiuma, e perciò fu preso da alcuni pel così detto schiuma di mare (Lithomarga). Esso è l’unico osso dell’animale. La carne, benché sia creduta indigesta, si mangia in alcuni luoghi. Sotto il collo ha una vessica ripiena di un sugo nero, o rosso purpureo, il
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quale essendo in pericolo, lascia andare onde intorbidare l’acqua, ed accelerare la sua fuga. Questo sugo può benissimo servire d’inchiostro. La seppia ordinariamente diventa lunga uno o due piedi.
Fra lo stesso ordine delle mollusche se ne trovano ancora delle altre, che si mangiano, come la specie Tethys, che vive nell’Adriatico, e che comprimendole danno della umidità.
I Ricci di mare (Echinus) sono quasi rotondi, coperti di un guscio verde, sottile, assai tenero, quasi calcareo, e diviso in 10 campi, intorno al quale sono attaccati de pungoli grossi, movibili come le dita, misti di altri sottili della specie de’ capelli, i quali non solamente servono alla loro difesa, ma ben anche coll’aiuto di certi vasi assorbenti, fanno le veci de’ piedi, e si muovono egualmente sulla schiena, come sul ventre. I pungoli stanno tutti in piccoli porri bianchi alquanto rilevati, di modo che levandone questi pungoli, comparisce il guscio come circondato da una lunga fila di perle bianche. Perdendo il Riccio di mare una parte del guscio: allora si riproduce di bel nuovo. Nella bocca ha de’ denti acuti. La sua carne
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è morbida come quella delle ostriche, e si mangia egualmente. Vive nel Mediterraneo, nell’Atlantico, e negli altri mari. Questo mollusco forma quasi il passaggio da quelli che non sono coperti a quelli che hanno il guscio propriamente detto.
Sarebbe fuori dello scopo nostro l’accennare qui tutto il regno immenso de’ Testacei, dei quali è coperto il fondo del mare: ma d’altronde non lo dobbiamo passare interamente sotto silenzio.
Alcuni di questi testacei hanno due gusci, altri ne hanno di più ed altri non ne portano che un solo, che in alcuni è tortuoso, ed in altri no.
Quelli di due o più gusci chiamansi conche (concha), bivalve o multivalve; e quelli di un guscio solo, e particolarmente i tortuosi, chiamansi Chiocciole (Cochteae).
Fra le conche, delle quali conosciamo tre specie, accennerò solamente la Folada (Pholas). Non vi è forse cosa più sorprendente del sentire, che in Ancona, ed in altri luoghi situati sulle coste del Mediterraneo sonovi delle pietre; qualche volta durissime, e ne’ bassi fondi della riva, nelle quali, aprendole, trovasi una specie di testacei che
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con molto piacere vengono mangiati da quelli, che amano i buoni bocconi. Sulla pietra scopresi al di fuori un piccolo buco, nel quale abita un testaceo della lunghezza di 3 pollici circa, circondato qualche volta da una famiglia intera, della quale ciascuno però abita nel suo proprio buco. Il guscio di essi consiste in tre parti, e secondo La Faille in sei, le quali sono unite fra loro per mezzo di un legamento. La conca giace in un buco precisamente grande come la cunca stessa, e tal buco assomiglia ad un imbuto, la di cui punta trovasi all’apertura molto piccola sulla superficie della pietra. Se ne trovano nel marmo, anzi nel granito d’Egitto(1); nelle pietre delle fortificazioni a Tolone, e nelle colonne di un tempio antico di Esculapio poco distante da Napoli. Spesso rompendo degli scogli se ne trovano delle migliaia di Foladi della lunghezza d’un dito, e grosse come un pollice, senza poter comprendere come abbiano potuto entrarvi. Fougeroux ha osservato per molto tempo
(1) Winkelmann Sendschreiben von Herculanums Lentdeckungen p. 8.
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questi animali senza poter scoprire il mecanismo ch’essi a ciò impiegano. Si è creduto che essi tenessero un acido, per mezzo del quale si formassero le loro abitazioni, le quali, crescendo, dilatassero e moltiplicassero. Bonnet sostiene, che a ciò impieghino la loro tromba carnosa, cosa ch’è ancora meno probabile. La Faille dice accadere questo per mezzo di piccoli denti situati sulla parte esteriore del guscio, i quali agiscono sulla pietra come una lima(1), e la forano mentre l’animale si move. Non v’è specie di pietra che non traforino: esse le penetrano quando sono affatto piccole, e forse quando sono ancora uova, e continuano a crescervi, ed a moltiplicarvisi dentro come, per esempio, gl’insetti nella galla. Essendo una volta entrati in queste pietre, non possono più sortirne, poiché l’entrata è troppo angusta. Keyssler(2) narra che gli abitanti d’Ancona, dopo aver osservato che le Folade diventano più grandi nel loro porto, che nella regione del monte Conaro, prendono da quel
(1) Bonnet. Contemplazioni sopra la natura.
(2) Keyssler fortgesetzte Reisen V. Lett. 63. pag. 447.
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sito le pietre delle Foladi, e le pongono nel loro molo, ove a cagione del fondo di melma, stanno più quiete, e trovano maggiore nutrimento. Anche questi animali hanno i loro nemici, poiché oltre l’uomo vengono perseguitati dalle scolopendre, e da altri insetti marini. Le Foladi fosforeggiano al di dentro, ed al di fuori, ed anche l’umidità, che comprimendole lasciano uscire, è fosforica. Appena disseccate perdono lo splendore, ma bagnandole di nuovo, lo riacquistano. Tutt’i corpi che coll’umidità di questi testacei vengono bagnati luccicano egualmente, e se questa luce imprestata svanisce, coll’immergere i corpi nell’acqua ritorna di nuovo, ma più debole. Mangiando queste Foladi nell’oscuro, pare di mangiare del fuoco. Di questa specie di conche se ne trovano sei, fra le quali.
Pholas dactilus. Sulla costa della Francia a Dieppe, Rochelle, nel Mediterraneo, e frequentemente nell’Adriatico. Pholas crispata, nelle montagne argillose presso Dieppe, e nell’Inghilterra. Il guscio di questa è coperto di una certa crosta farinosa come una pappa, la quale forse formasi dalla creta, che, movendosi la Folade per ingrandire la
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sua abitazione, si distacca dal masso. I buchi sono di forma elittica, cioè più larghi nel mezzo, sulla parte posteriore sono sempre chiusi, e sul davanti sono aperti come un piccolo tubo; e benché il buco abbia la stessa forma del testaceo, ciò non ostante è sempre due o tre volte più grande dell’animale, acciocché a suo piacere possa questo aprire il guscio.
Quella specie, che qualche volta distrugge i più grandi bastimenti, chiamasi Teredo navalis.
Fra le conche a due gusci, delle quali Linneo conta 14 specie, accenneremo solamente qui l’ostrica (ostrea), e la pinna marina (pinna).
L’ostrica (ostrea) a gusci ruvidi, ha la carne più tenera fra tutte le altre di questa specie. Essa è una delle conche più comuni, abita quasi in tutt’i mari, ma non è egualmente saporita, né di eguale grandezza da per tutto. Il guscio inferiore di essa è concavo, ed il superiore è piano: ambedue consistono in fogliette poste l’una sopra l’altra come la lavagna. Le piccole hanno un pollice e mezzo di diametro, e le grandi tre pollici. L’animale è una tetide di
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figura semplice, ed irregolare. Esso si riproduce mirabilmente colle uova, che fa cascare fuori del guscio. Si attacca fortemente alle rocce non mangia erba, né alga, che rare volte trovasi nella loro vicinanza; anzi l’esperienza ha fatto vedere, che mettendo dell’alga fra i gusci acciocché non si chiudano, spesso è stata dannosa: nemmeno si nutrisce di pesci, poiché non mai se n’è trovato il minimo indizio nel suo stomaco. L’ostrica dunque vive per la parte organica, e colle dissoluzioni animali che l’acqua marina contiene in sì grande quantità. Quindi abitano volontieri in que’ luoghi ove si trova la melma grassa, ed ove nuotano intorno ad esse dalle parti animali tenere, e nutritive, ciocché provano i loro escrementi, che come una terra nera passano pell’ano.
Si pescano con bilancie, con reti e colle mani; la maggior parte però con stromento pesante di ferro fatto a posta per questa operazione, per mezzo del quale si staccano delle cose sul fondo del mare, dai piedi degli scogli, e vanno poi a cascare in una rete che vi è attaccata. I pescatori quando credono aver riempito in tal guisa la rete,
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la tirano in su, e levano le ostriche fuori della melma.
Quelle ostriche, che vivono all’imboccatura de’ fiumi, sono credute migliori e più saporite di quelle che si trovano nell’acqua salata pura, o ne’ siti ombrosi e profondi del mare. Nell’Inghilterra le migliori sono in Glochester; nell’Olanda in Zeelanda, nella Germania nell’Holstein, ad Husum nel Iutland; nella Francia a Cancale in Bretagna, ove la pesca delle ostriche è molto importante. Nel Mediterraneo si preferiscono quelle di Venezia. Gli antichi amavano più quelle di Cizicene, e Plinio dice(1) che siano più grandi delle Lucriniche, più dolci delle britanniche, più piacevoli delle Eduliche, più piccanti delle Leptiche, più carnose delle Lucentiche, più secche delle Corifantiche, più tenere delle Istriche, e più bianche delle Circeiche. Così erano egualmente molto lodate presso gli antichi quelle di Baia(2). Esse sono molto abbondanti sulle coste dell’Africa, ma non hanno il miglior gusto. Barbat ed altri viaggiatori narrano,
(1) Hist. nat. lib. 32. C. 6.
(2) Ausonius ep. 7.
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che sulle coste di Sierra Leona sianvi delle ostriche tanto grandi, che una sola sarebbe sufficiente per saziare un uomo; ma che siano sì dure da non potersi mangiare senza averle prima tagliate in pezzi, ed averle fatte cuocere. Le coste di Loango, Congo, Angola, e Benguela sono coperte di ostriche, ed i navigatori le trovano poste l’una sopra l’altra come scogli. Generalmente le ostriche in nessun luogo sono più frequenti che sulle coste della zona torrida. Gli Europei che quivi si sono stabiliti sogliono bruciarle per farne della calce, ed impiegarla non solamente pel proprio uso, ma ben anche per esportarla. Gli Olandesi, siccome essi nell’Europa calcinano questi gusci, hanno introdotto questo metodo in que’ paesi. La calce che se ne trae è eccellente. Nella China se ne prepara anzi una terra di Porcellana. In Inghilterra si servono de’ gusci pesti, e della creta concacea per spargerla sui campi.
Assai rimarchevole ancora è la pinna marina (pinna). L’animale è una specie di lumaca terrestre (limax): i gusci sono molto sottili, e fragili, e stanno colla parte acuta nella sabbia. Il margine superiore che
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sta aperto, è fornito di un fiocco di filamenti assai fini, della lunghezza di 7 in 8 pollici. Questi filamenti loro servono per attaccarsi agli scogli, acciocché non vengano strascinate via da’ flutti. Il fiocco di questi filamenti simili alla seta pesa incirca 3 oncie. I filamenti non nascono con essi, ma sono da essi medesimi quasi filati, e ciò con una tromba dilicata e lunga, divisa secondo la sua lunghezza, la quale serve alla pinna da lingua, da piede, e da mano. Questi sottili filamenti sono, per così dire, de’ capi co’ quali l’animale si mette all’ancora. Da molto tempo si è trovato il modo di nettare e di lavorare questi filamenti, e se ne sono fabbricati diversi oggetti di vestiario. Basilio parlandone dice: «dove generano è dove prendono le pinne la loro lana d’oro, che finora non è stata inventata da alcun tintore(1)? «e nella sua arringa ai ricchi dice, che essi cercano con maggiore premura i fiori del mare, le murici, e le pinne che la lana delle pecore. Da Isidoro apparisce
(1) In Hexaem.
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chiaramente(1), che anche ne’ tempi suoi si sia fabbricata della roba da vestiario co’ filamenti della pinna; e Partenio narra(2) che a Taranto si sia tessuta della tela, e lavorati de’ guanti, e de’ cappelli con la seta della pinna, e delle stoffe che servivano poi a vestire le vergini. Ancora al presente a Taranto, a Reggio, ed in altri luoghi, particolarmente anche nella Sicilia, se ne fabbricano berrette, calzette, guanti ed altre simili cose(3). Riguardo però alla finezza cedono alla seta, ma d’altronde, conservano sempre uno splendore particolare, ed il loro colore naturale di un bruno d’oro, che finora non è stato imitato da alcun tintore. Niun altro colore accettano, e finora non è riuscito ad alcuno di tingerli rossi, o d’imbiancarli. Le mercanzie che se ne fabbricano, e particolarmente nella Sicilia, sono di una grande finezza, in guisa che un paio di calzette si mettono in una scatola comune
(1) Lib. 19. c. 27.
(2) Halicut. lib. 3 p. 63.
(3) Memoires de l’acad de Sciences 1710 p. 386 et 171 p. 126 seq. Keysslers Fortsetzung neuester Reisen Lett. 57. p. 209.
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da tabacco. Se ne conoscono 8 specie di pinne marine, delle quali accennerò qui solamente la pinna rudis, lunga uno fino a due piedi, e larga in circa 4 pollici, in fondo acuminata, e di cui la parte che sta fuori, della sabbia è nera, e l’altra è turchiniccia. Essa vive particolarmente intorno a Malta, alla Corsica, alla Sardegna, ed in altri luoghi. Nella Grecia, duranti i digiuni si levano loro i filamenti, e si mangiano. Un’altra specie è la pinna muricata, alta 16 pollici, e larga 12 pollici, che ha un colore nericcio, e che sebbene vive frequentemente nel Mediterraneo, pure se ne incontra ne’ mari delle Indie, ed in altri.
Non possiamo passare sotto silenzio la murice, porpora (murex) che appartiene alle Chiocciole, e di cui si contano 15 specie. Il suo guscio semplice, ed attortigliato, è guarnito di margini ruvidi e membranosi. Queste conche sono assai convesse. L’apertura finisce sempre in un canale, o affatto diritto, o voltato un poco in alto. Di queste se ne trovano 6 specie di una costruzione assai diversa. Alcune hanno un guscio gibboso guarnito di pungoli fini, ed una punta lunga e prominente, che si paragona al becco della
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beccaccia. Altre su i margini sono guarnite di rami sfogliosi, e queste con tutto il dritto sono chiamate murici, ovvero porpore, poiché portano seco in un sacchetto particolare un sugo viscoso, che non si scioglie sì facilmente, e questo sugo per ragion sufficiente è creduto quello della porpora. Gli antichi lo stimavano assai, e solo i ricchi, poiché costava un alto prezzo, ne potevano far uso. Non in tutte le conchiglie si trova un colore eguale. In alcune è esso più pallido, ed in altre d’un giallo pallido, e più viscoso. Nella conchiglia comune (helix vivipar) si avvicina quasi al colore dell’arancio. Anche altre chiocciole, come le buccine, hanno un sugo tinto in una conserva particolare, il quale da per sé non era punto stimato dagli antichi, poiché era troppo pallido, e non penetrava bene le stoffe, ed oltre a ciò svaniva facilmente; ma mischiandolo col sugo della vera porpora, allora facilmente penetrava la lana. Il colore pallido delle buccine migliorava il colore oscuro della porpora, e le dava il dovuto lustro(1).
(1) Plinius hist. nat, lib. 2. cap. 38.
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Vi sono molte specie di porpore, dice Aristotile(1); ed in fatti alcune diventano molto grandi, come quelle che si trovano su ambedue i promontori della Frigia, cioè Sigrium e Lectum. Altre sono piccole come sulle coste dell’Euripo, e di Caria. Quelle che stanno sul fondo del mare sono maggiori. Forse non è stato colore più stimato presso gli antichi, e forse alcun altro colore non ha portato tanto vantaggio quanto questa porpora a’ Fenici. Si attribuisce la sua scoperta ad un cane, raccontandosi che un pescatore avendo preso una di queste chiocciole, e trovandola ruvida e spinosa l’abbia gettata via: che indi spezzata co’ denti da un cane pecoraio, tinse il muso di esso interamente di un rosso sanguigno, e che il pescatore, credendo che il cane fosse ferito, lo abbia voluto lavare, ma le sue mani si tingevano egualmente di un bel rosso, senza che il colore sulla bocca del cane volesse andarsene via. Vedendo dunque che in vece il colore diveniva più leggero, e più bello, il pescatore immerse nella chiocciola
(1) Hist. anim. lib. V. c. 18.
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spezzata un gomitolo di refe, ed osservando che questo si tinse del medesimo colore mise in pezzi una quantità di queste chiocciole, ed in tal guisa, dicono, ritrovossi il colore della porpora(1). Aristotile(2), Plinio(3), ed Eliano(4) narrano, che si spezzavano le chiocciole con un sol colpo, ed indi si comprimevano colla massima sollecitudine per estrarne il suo bel colore. Ma Plutarco racconta(5), che Alessandro abbia trovato a Susa, fra le altre cose preziose, per 5000 talenti delle murici di Ermione, le quali nel miele, e nell’olio bianco erano state conservate 119 anni di seguito, senza che il colore si fosse punto alterato. Questo fatto
(1) Così lo racconta Nonio lib. 40. Dionysia p. 1035 o Cassiod. epist. Varior. I. 2 Achill Tetuis Eot. 2 p. 68. E se Pollux Onomast. lib. I. 1. 4. attribuisce il ritrovato al cane di Ercole, allora la differenza non è grande. La parola Ercole è famigliarizzata moltissimo con una parola Fenicia che significa mercante, fra tutt’i fatti di Ercole non ci allontaneremo molto dalla verità, se riferiremo questo ritrovato ad un mercante Fenicio.
(2) Hist. anim. lib. 5. c. 15.
(3) Plin. hist. nat. 1. 9. c. 36.
(4) Aelian. de animal, 16 l.
(5) Nella vita di Alessandro p. 686.
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smentisce l’opinione degli antichi, cioè che subito dopo la morte della conchiglia il colore non si ritrovasse più. Io non accennerei ambidue questi fatti se queste narrazioni degli antichi non ci facessero sospettare una di quelle furberie, per le quali gli abitanti di Tiro tentavano di procurarsi il solo possesso delle manifatture, e allontanare le altre nazioni da simili tentativi. Essi sparsero delle favolette curiosissime; per esempio, che non si potesse fondere del vetro, se non colla sabbia presa nel Belo; ed essi avevano la fortuna d’essere creduti a motivo della pigrizia, che è sempre inclinata ad adottare il miracoloso.
La murice però da tempi antichi fino ai nostri era troppo frequente nel Mediterraneo, perché l’accidente non avesse potuto istruire meglio gli antichi. Vitruvio pare che sapesse quello che più possa accordarsi colla verità, mentre egli racconta, che le murici dopo essere prese erano pillate con istromenti di ferro, e che sotto questi colpi, il colore ne sortisse a guisa di lagrime(1).
(1) Lib. VII, Architect. c. 13.
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In diverse città dell’Italia, della Grecia, e particolarmente dell’Affrica settentrionale si sono fatti diversi tentativi, per ritrovare una porpora simile, ed atta a tingere.
Gli antichi spesse volte fanno menzione della porpora africana sull’isola Meninge, poco distante dai conosciuti vortici(1), Plinio loda anche assai le sponde di Gaeta porpora(2). L’isola Gyarus (una delle cicladi nutriva gli abitanti colla raccolta delle murici(3). La città di Ermione nel Peloponeso trafficava colla porpora(4), come egualmente Lacedemone(5). L’isola Melibea pure era rinomata per la porpora(6), egualmente che Rodi(7), Pozzuoli(8), Otranto(9), e Taranto(10). La porpora della Sardegna era passata in proverbio.
(1) Plin. hist. nat. lib. 9. 36. lib. 6. 31.
(2) Plin. hist. nat. ne’ passi qui sopra indicati.
(3) Bochart in Phaleg. lib. 3, c. 1.
(4) Plut. Alex. p. 686.
(5) Pausan. in Lucon. p. 203. Grat. od. 3. 18.
(6) Virg. Aen. 7. 351 Lucret. II. 500.
(7) Vitruv. lib. 7. 13.
(8) Plin. hist. nat. 35. 6.
(9) Cassiod. Var. Ep. 1. 2.
(10) Corn. Nep. ap. Plin. l. 9, c. 39.
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Plinio ha descritto di più il modo di preparare la porpora, e di tingere, ma questo proposito è molto oscuro(1); giacché per un verso par ch’egli dica che prendevano i sacchetti di porpora dalla murice, ed aggiunto tanto sale quanto vi era necessario, e precisamente 20 oncie di sale per 100 libbre di colore purpureo, in tal modo lasciavano il colore tre giorni consecutivi; poi facevano cuocere questo sugo in un vaso di piombo fino che fosse consumato per metà, di modo che da 100 libbre ne restassero 50 solamente, ed indi che lo riponevano in forni a quest’uso costrutti, per ivi conservare il sugo con un calore temperato. D’altronde poi sembra ch’egli dica, che distaccavano ordinariamente la carne da’ sacchetti di porpora alla decima giornata, dopo di che la lana ben lavata l’immergevano nel sugo, ed indi la cuocevano finché fosse sufficientemente tinta. Colle piccole murici si procedeva in un’altra maniera.
Polluce nara(2), che i Fenici pillavano
(1) Hist. nat. lib. 9. c. 38 e 39.
(2) Onomast.
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le murici col guscio e colla carne, che poi l’insalavano per rendere il colore maggiormente durevole; e che dopo averle nettate nell’acqua le cuocevano, talché appena il sugo era stato riscaldato diventava fluido e s’inalzava; che in alcune murici il sugo era giallastro, in altre di un colore violetto, ed in altre poi di un colore differente: che tutto quello che in questo sugo s’immergeva era tinto, e che la lana la quale, si voleva tingere vi si lasciava dentro due ore di seguito, ed indi, dopo averla aspersa aspersa di soda era immersa un’altra volta nel sugo suddetto, finché aveva imbevuto tanto di colore quanto si richiedeva.
Non ostante questo, il colore di Tiro era il più valutato, e dopo la distruzione di Tiro e Sidone, la quale cagionò la decadenza delle loro manifatture, ed allora quando i Turchi ed altri popoli rozzi conquistarono la Siria, si perdette totalmente l’arte di preparare la porpora, in guisa che a’ giorni nostri non conosciamo il colore della porpora degli antichi. Pare essere fuori di dubbio, che vari colori delle conchiglie erano comprese sotto il nome di porpora; per esempio, quello che gli Ebrei chiamano
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Thecheleth (2 Mos. 25. 4.), il sugo della seppia, e quello, che Lutero ha tradotto per setta gialla, e Michaelis per turchino oscuro. Gli antichi, per essere più esatti nella descrizione di questo colore, lo chiamano violetto(1): quindi dice Virgilio(2):
Viola sublucet purpura nigrae.
Huet, basta intenderlo bene, non si esprime impropriamente quando parla del colore della porpora, e ne dice, che essa si avvicini più al colore delle rose secche, o a quello che prendono le foglie delle viti prima di staccarsi dal ramo. I quadri di Ercolano ci hanno persuaso, che la porpora assomigliava al colore delle suddette foglie di viti. Gli Ebrei la chiamano orgamam (2 Mosè 25. 4. ed in vari altri luoghi), che da Lutero è stato tradotto per lo scarlatto. Questa specie di porpora era stimata sopra tutte le altre, e ricercata più di qualunque altra; più carica che era, tanto più era stimata. Essa risplendeva, ed esponendo il suo splendore chiaro ai raggi del sole assomigliava al
(1) Plin hist. nat. 21,8 lid. Orig. 16 9. Virg. Aen. IV. 262. Juv. Sat. XI. 155.
(2) Ge. IV.
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fuoco(1), e perciò essendo in tal guisa uguale all’ametisto era chiamato anche colore di ametisto(2). Un’altra specie di porpora era come il colore de’ fiori di granato, o come il sangue aggrumato. Cassiodoro la descrive per abseuritas rubens, nigredo sanguinea, e Plinio pare di dare la preferenza a questo colore quando dice nel passo guente: laus ei summa in colore sanguinis concreti. Questa rossezza era fresca, e lucida, e fuori di Tiro, si preparava meglio che in qualunque altro luogo a Chermi città della Sardegna, donde deriva ancora il nome di Cremisino. Una terza specie era di un turchino di mare(3), o bigio, come le onde del mare in tempo di burrasca, e questa era l’infima porpora(4). Bruce dubita, benché
(1) Plin. hist. nat. 37. 10. Mart. de lana Ameth. XIV, ep. 154.
(2) Ovid. Pont. IV. 15. 8. Plin. 9. 37. Macrob. Saturn. 2. 4. Virg. Aen. 9. 349. Quindi Omero chiama una morte sanguinosa, la morte purpurea.
(3) Plin. 9. 36.
(4) Salmasio nelle sue Exercitationibus Plinianis ad Solinum ha raccolto con un grand’apparato di erudizione tutto quello che riguarda l’antichità su quest’oggetto.
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senza fondamento, dell’esistenza della murice, e racconta che un pescatore dopo aver finito i suoi lavori, essendo stato invitato da lui, gettò nuovamente le reti in un sito ove si supponevano conchiglie, senza però pescare alcuna porpora; e sopra un tale accidente Bruce fonda una tale proposizione paradossa ed arrogante. Il pretesto de’ pescatori ignoranti, sostenendo, che non vi si trovino delle conchiglie, poteva essere falso, ed in un caso contrario, poteva una tal riuscita dipendere dal tempo, dalle circostanze, zardo, dall’abilità, o dalla poca pratica de’ pescatori, e finalmente poteva influirvi la costruzione de’ loro arnesi, se non trovarono alcuna murice. Se Bruce dubita dell’esistenza della murice fa vedere, ch’egli non ha preso alcuna notizia della Storia naturale, e delle scoperte fatte intorno alle conchiglie, mentre il genere, e la specie della murice è conosciuto pienamente da’ naturalisti. Oltre di ciò potrebbe egli ancora riflettere che gli antichi estraevano la loro porpora non da una specie di murice sola, ma da diverse, come abbiamo veduto qui sopra. Egli crede che gli antichi per mezzo di questa murice abbiano voluto nascondere
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la cognizione della Cocciniglia. Ma in que’ tempi, quando le tintorie di Tiro erano nel loro massimo fiore, non era ancora scoperto l’uso della cocciniglia (coccus cacti) che dà un colore di scarlatto; e parlando gli antichi delle vesti purpuree le chiamano espressamente vestes conchiliatae. La Cocciniglia loro era affatto sconosciuta, e non poteva essere altrimenti, poiché è un ritrovato affatto moderno.
È da maravigliarsi, che questa chiocciola, che per lo passato arricchiva la costa della Siria, e che le dava molta vita ed attività, che vi stabiliva delle fabbriche, facendo fiorire il commercio, e che nell’istesso tempo soddisfaceva alla vanità ed alla pompa degli uomini, giaccia ora totalmente negletta: tristo argomento di quanto il dispotismo soffoghi ogni industria ed amore per le arti.
Facciamo noi un miglior uso di un’altra creatura del mare, cioè del corallo (isis). Esso trovasi abbondantemente nel Mediterraneo, e da’ tempi immemorabili serve per la pompa e per l’abbellimento, senza aver esaminato con attenzione la sua costruzione, e qualità interna, e la sua intera natura.
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Non dobbiamo maravigliarci, se gli antichi ne avevano delle opinioni singolari. Teofrasto nel suo libro che parla delle pietre, conta i coralli tra le pietre nobili, paragonandoli colle canne petrificate delle Indie(1); e trovò una quantità di seguaci. Ettmüller(2) stesso nota i coralli fra i minerali. La natura vegetabile, che nell’istesso tempo si osservava ne’ coralli, la spiegavano essi come l’albero di Diana (Arbor Dianae); e siccome sott’acqua li trovavano molli, così li riguardavano come pietre imperfette, le quali s’indurivano solamente essendo esposte all’aria. Se Plinio(3) parla delle pere de’ coralli, non dobbiamo credere che abbia riguardato i coralli come piante, egualmente che Ovidio, il quale nelle Metamorfosi fa eziandio menzione de’ coralli, dicendo che sott’acqua sieno un’erba molle, ma che essendo esposti all’aria diventino subito
(1) Theophr. edit. Wechet ab. an. 605 pag. 8. m.
(2) Examen corall. tinct.
(3) Plin. hist. nat. 32 c. 2 ultimo terzo del capit. lib. 36 19. Solin Polyhist. c. 8. m.
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pietre(1). Anche Solino(2) parlando del mare Ligustico, dice, che produce de’ tronchi e rami (frutices) i quali sono pieghevoli sott’acqua, ed esposti all’aria diventano pietre (lapides fiunt); ma non perciò devesi credere ch’egli abbia sostenuto la natura vegetabile de’ coralli; poiché un cangiamento subitaneo di una vera pianta in pietra (riferendo le espressioni di questi autori) sarebbe ancora più strano. Se Kircher nel suo mondo sotterraneo rappresenta i rami de’ coralli come boschi sotto acqua, vediamo benissimo che egli vuol descrivere solamente un mondo vegetabile tramutato in pietra; e
(1) Ovid. met. 15. 414. seg.
Quicquid vesica remisit
Vertitur in lapides: el congelat aere tacto,
Sic et Curalium quo primum contigit auras
Tempore durescit, mollis fuit herba sub undis.
(2) Polyhist. c. 8. m. ligusticum mare frutices pro creat, qui quantisper fuerint in aquarum profundis fuxi sunt, tactu prope carnulento: deinde ubi in supera attolluntur, lapides fiunt, ne solum qualitas illis, sed et color vertitur, nam punico protinus erubescunt: ramuli sunt, quales arborum visimus, ad semipedern frequentius longi: rarum est pedancos deprehendi Eruitur gemma – in parte Lucaniae, facie adeo jucunda est et Vegentana gemma a loco dicta.
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di là deriva ancora il nome di Litofita (pianta pietrosa). Tournefort li conta realmente fra i vegetabili, ed il conte Marsigli(1) rese questa opinione la più dominante. Egli scoprì de’ porretti sulla crosta esterna de’ coralli nostri, e vide che quelli si aprivano sott’acqua, rappresentando una stella a sei punte, e secondo altri ad otto. Questa stella crede egli che fosse il fiore, o piuttosto il calice del fiore, al quale attribuì 8 filamenti, ed uno stilo; e sostenne, che questi fiori morivano, che si chiudevano in forma di una paletta, che contenevano del latte e della semenza, che cadevano, e finalmente che da questi fiori caduti nascevano de’ nuovi coralli.
Per mezzo di queste osservazioni pertanto si erano fatti de’ progressi, e Jussieu e Poysonell, i quali esaminarono i fiori con maggior attenzione, scoprirono in essi la parte animale. Ellis(2) mise questa scoperta
(1) Histoire physique de la mer.
(2) Versuch einer Naturgeschichte der Korallenarten aus dem englischen und franzosischen nebersetzt mit vielen Kupfern und Abhandlungen anderer
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fuori di ogni dubbio, e dimostrò apertamente, che i fiori di Marsigli erano animali, e per lo più polipi. Nel corallo rosso in ciascuna cella trovasi un polipo bianco come nel suo nido, e rappresenta una stella di otto raggi uguali, de’ quali ciascuno ha su ambedue i lati delle punte secondarie. Dal centro di questo corpo stellato sorte una specie di conchiglia a forma di piatto, la quale in principio si allarga alquanto; e finisce verso la parte superiore, dilatandosi con otto solchi larghi, ed altrettante coste: in ciascun solco avvi un raggio. Pel centro della stella passa un vasetto di forma cilindrica verso il tronco, ch’è l’otre dell’animale. Finché il verme è in vita, e non soffre da alcuna forza, resta egli continuamente nella sua cella, anche essendo rotto dal tronco il pezzo di corallo nel quale giace; toccando poi il corallo nell’acqua, o prendendolo fuori dell’acqua, il polipo subito si ritira, chiude la sua scorza particolare, ritira i suoi
in gr.4: quest'opera è la più importante e la migliore intorno a queste creature di mare.
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raggi, e si raccorcia come quando la lumaca ritira i suoi corni; e così vediamo il polipo dopo averlo tirato fuori dell’acqua. Da ciò nacque la favoletta degli antichi sopra la molezza o carnosità de’ coralli sott’acqua, e sul cangiamento loro in pietre dopo essere stati esposti all’aria. Volendo intorno ad essi fare qualche osservazione bisogna che, appena tirati fuori del mare, siano posti in vasi di terraglia bianca ripieni dell’acqua di mare, perché dopo un’ora, è forse anche prima, cioè dopo essersi rimessi dalla paura, si mostreranno nella loro figura e grandezza naturale. Ellis scoprì egualmente sopra alcune parti de’ rami di coralli molte piccole vessiche che comparvero in diverse stagioni, le quali vessiche contenevano l’uovo de’ polipi, ovvero i loro figliuolini, che appena erano maturati cadevano, ed allora la maggior parte di queste vessiche scompariva con essi.
È chiaro che i coralli sono interamente composti di una natura calcare. Di essi possiamo cuocere la vera calce, senza aggiungere alcuna altra sostanza chimica, come pure si fa colle conchiglie, cosa che non è possibile con alcuna pianta. Bruciandoli danno un odore alcalino, nauseoso, acuto, e volatile,
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come i capelli bruciati, le ostriche, o il corno.
Nelle decomposizioni chimiche si scopre ancora meglio la loro natura animale. Geoffroy da tre oncie della crosta fresca, ed ancora ripiena di un sugo latteo, per mezzo della distillazione al materaccio ha ricevuto 5 dramme, e 30 grani di acqua quasi senza gusto, e 9 dramme di spirito urinoso, con un poco di olio grosso e bituminoso. Il residuo pesava un’oncia, dalla quale, dopo una calcinazione di 3 ore, si sono estratti 25 grani di sale fisso. La perdita per la sua porzione, tanto nella distillazione, che nella calcinazione, fu di una dramma e 30 grani. Tre oncie di coralli, che da pochi anni erano stati tratti dal mare, diedero 30 grani di acqua urinosa mista di un olio bituminoso e 25 grani di sale fisso, e 36 grani si perdettero. Lo spirito urinoso ringe verde lo sciroppo di viole, fermenta molto cogli acidi, e cangia la soluzione del sublimato corrosivo in un coagulo latteo. Il sale fisso nella soluzione del sublimato corrosivo produce egualmente un coagulo bianco, in modo che chiaramente: si scoprono delle parti differenti dal semplice sale alcalino.
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Con tutto ciò si trovano alcuni che negano d’essere tutti i coralli, e litofiti generalmente fabbricati dai polipi. Essi accordano solamente che alcune specie appartenenti alle piante siano ricercate da’ polipi per servirsene di abitazione. Linneo pone tutt’i coralli col massimo diritto fra i vermi, e li divide in due classi, cioè in litofili, ed in cheratofiti. Alla prima classe appartengono que’ vermi nudi che hanno fabbricato questa tessitura dura e pietrosa: ed alla seconda appartengono que’ che hanno una tessitura più molle, e quasi cornea.
Ai Litofiti appartengono quattro specie, cioè le Tubipore, le Madrepore, le Millepore, e le Cellepore. Le Tubipore formano una tessitura di tubi sottili, vuoti, ed egualmente distanti fra loro, che hanno diverse giunture. I tubi esterni spesse volte rinchiudono degli altri più fini, bianchi e della specie di corno, che passano per tutte le giunture, i quali hanno un’apertura in forma di stella, per mezzo della quale stanno in comunicazione co’ tubi esterni. L’animale è una nereia. Le quattro specie delle tubipore spesso si trovano nel Mediterraneo, ed anche nel Baltico.
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Le millepore, ovvero coralli punti, paiono essere stati punti da per tutto con ago, nell’interno hanno molti vasi, ne’ quali giacciono delle parti assai sottili, tubiformi, e molli; e se ne trovano fino a 14 specie. L’animale è una medusa.
Le madrepore, o coralli stellati, sono i medesimi ne’ quali Marsigli credette d’avere scoperto de’ fiori. A questa specie appartengono i veri coralli bianchi, i quali per lo passato s’impiegavano nella medicina, ma presentemente sappiamo, che l’effetto di essi è simile a quello della terra calcare, e però possiamo servircene esternamente per polire i denti, ed uno o due scrupoli internamente contro gli acidi dello stomaco; ma che egualmente possiamo astenercene. Anche questo animale è una medusa.
Le Cellepore hanno delle caverne membranose a forma di celle triangolari, o quadrate, e di altra forma. Gli abitatori sono polipi, e la maggior parte di essi ha 16 braccia alla testa. La scorza di essi è estremamente tenera è fragile. Questa specie trovasi abbondantemente nel Mediterraneo, e molti vivono nel mare del Nord, ed in altri mari.
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Gli altri coralli i quali hanno una tessitura molto più tenera, e quasi cornea, Linneo li conta fra gli zooîti, come abbiamo già detto. Essi assomigliano più agli animali: i tronchi, come nelle piante vere, sono radicali, gettano fuori de’ rami, e portano de’ fiori vivi.
Fra gli zoofiti accennerò qui solamente il corallo nobile, (Issis) chiamato anche corallo sanguigno. Esso è di un colore rosso chiaro, o di colore di cinabro, ed è assai frequente nel Mediterraneo. Esso è conosciuto da tempi remoti, ed è il più usato. Questo corallo assomiglia ad un arboscello senza foglia, in fondo ha una base larga colla quale sta attaccato alle rocce, alle pietre, alle conchiglie, e ad altri corpi. Non è verosimile che questa parte, somigliante alle radici, sia propriamente una specie di radice, o che contribuisca al nutrimento del corallo; ma probabilmente serve unicamente alla sua consolidazione, poiché nel mare si sono trovati de’ pezzi rotti e troncati dalla radice, i quali hanno continuato a crescere, ed a propagarsi. Dal piede monta una specie di gambo che si divide in alcuni rami, e questi ne formano nuovamente
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degli altri. Per lo più i rami si allontanano l’uno dall’altro, ma qualche volta però ne crescono due insieme, e si uniscono in modo, che ne compongono un solo. Il piede, il tronco ed i rami, riguardo alla loro costruzione interna, s’assomigliano perfettamente. Levati fuori dell’acqua non hanno quella figura liscia come la vediamo nelle raccolte di oggetti di storia naturale, ma una crosta bianchiccia, e farinosa, colla superficie disuguale, alquanto gibbosa e rugosa. Questa crosta consiste in una tessitura di vasi a forma di rete, ripiena di una materia lattea, che si prende per la natura del polipo. Intorno ad essi osservasi ancora un altro giro di una natura filamentosa, il quale è pieno di corpicelli rossi, uniti fra loro per mezzo di assai piccole membrane, e questi corpicelli hanno la loro origine nel polipo stesso; e si dice che servono alla costruzione della massa pietrosa.
Il Mediterraneo è pieno di questi coralli. Sulla costa della Spagna, intorno alle isole Baleari, sulle sponde della Provenza e particolarmente delle isole di Hierès; sulle coste della Corsica, della Sardegna, della Sicilia, della Dalmazia, e particolarmente
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intorno all’isola di Zop; ed anche sulle coste di Tunisi e di Algeri, se ne trovano di una bellezza e grossezza particolare. Perciò si pescano i coralli quasi unicamente nella vicinanza delle isole di Corsica, e di Maiorca, sulla costa di Catalogna, intorno a Cassis (piccola città 2 miglia distante da Marsiglia), e sulle coste della Linguadocca. Molti se ne trovano sulla costa occidentale della Guinea, e particolarmente in quelle regioni, che sono esposte al sole del mezzo giorno, e dove il mare non è burrascoso. Nel grand’Oceano non se ne trovano, poiché quelli, che nel mare Pacifico hanno fabbricato delle isole intere; sono di una specie assolutamente differente. I coralli crescono in que’ luoghi ove nelle baie e lingue di mare si trovano caverne e scogli sott’acqua: ma non facilmente sul fondo piano del mare. Nelle caverne e nelle spelonche s’attaccano da per tutto, sopra, e di sotto e su i lati; quelli che si sono attaccati alla parte superiore della volta estendono i loro rami in giù, e quelli che si sono attaccati sul fondo crescono in su. Alcuni si vedono attaccati sulle pietre rotonde giacenti nel mare; e quasi in tutti
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i gabinetti di storia naturale se ne incontrano alcuni attaccati su rottami di vasi di terra, o di crani, o che hanno riempiuto l’interno de’ fiaschi, i quali a bella posta si lasciano al fondo in que’ luoghi ove i coralli crescono, per levarli poi, dopo alcuni anni. Non essendo disturbati, o impediti, si estendono volentieri in guisa di ventaglio, oppure in modo, che tutt’i loro rami restino in un piano solo. Non mai se ne trovano in profondità minore di mezzo braccio, e spesso vanno a 150 braccia. Si acquistano i coralli per mezzo di marangoni, che a questo fine si tuffano nel mare, raccogliendoli su gli scogli, e con questo mezzo si acquistano i pezzi più belli e più grandi. Questo metodo però è tanto difficoltoso, quanto pericoloso e costoso, e quindi se ne pescano pure con reti aggravate, le quali si tirano sollecitamente sopra i coralli, oppure si pescano per mezzo di legni incrociati, le di cui estremità sono avvolte di stoppa, cercando così di entrare nelle caverne per tirar fuori i rami che s’inviluppano nella stoppa; oppure con macchine ancora più artificiali cioè con reti consolidate ad un semicircolo fornito di acuti denti di ferro.
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Possiamo distinguere la pesca de’ coralli in piccola, ed in grande. Per la grande spesse volle s’impiegano 200 Schiffi (bastimenti di coralli, chiamati Satteau nella Francia, e particolarmente presso Marsiglia, al Bastion di Francia, e sul Capo negro), forniti di grandi vele per isfuggire con maggior facilità ai Corsari, ed alle galere turche. La pesca, che dal principio di aprile dura fino alla fine di luglio, fassi per conto di alcune grandi case di commercio di Marsiglia, di Genova, di Napoli ec.; esse forniscono ai pescatori i bastimenti, e gli arnesi a ciò necessari ed in caso di bisogno somministrano anche del danaro. Sopra ciascun bastimento vi sono 7 od 8 uomini. In generale può ciascun bastimento annualmente raccogliere 25 quintali di coralli, che si dividono in 13 parti uguali, delle quali il padrone del bastimento, ovvero il maestro de’ coralli, ne ha quattro parti; due quello che getta le macchine per pescarli, e che le dirige; una ciascuno degli aiutanti; ed una la casa di commercio, alla quale appartiene il bastimento; ma tutti, dal primo fino all’ultimo, sono tenuti a vendere pel prezzo fisso di
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58 soldi per libbra la loro parte alla detta casa di commercio.
Gli abitanti della Sardegna, la di cui costa è particolarmente ricca di coraili, non hanno profittato di questa buona occasione per acquistare delle ricchezze considerabili, e tranquillamente lasciano arricchirsene i Genovesi, e particolarmente i Napoletani. Questi annualmente vanno con più di 200 bastimenti nella Sardegna, e cercano la loro fortuna presso l’isola di S. Pietro, ne’ contorni di Bosa, di Algari, di Porto Torres, e di Castel Sardo. Tutti devono dapprima ancorare in un porto privilegiato per prendervi la permissione, e debbono dare cauzione pel tributo, altrimenti sono condannati alla pena di 100 scudi. Nel 1783 sortirono dalla Torre del Greco circa 310 bastimenti, su’ quali erano impiegati 3000 marinai: si calcola che le spese di una tale spedizione montino a un mezzo milione di ducati. Per l’addietro, quasi 500 bastimenti andavano annualmente sulla costa della Sardegna per pescarvi i coralli. La Francia da’ tempi di Arrigo IV è unicamente in possesso dell’importante pesca de coralli nel regno d’Algeri, al Bastion di Francia, ove nel secolo
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passato pescava con 40 Satteaux, e guadagnava 180 casse di coralli rozzi, le quali davano un guadagno netto di 180000 lire. In appresso queste intraprese s’incagliavano, poiché la società, credendo di guadagnare più per le commissioni in Genova, cambiava le sue speculazioni, finché nel 1781 ricominciò con nuovo zelo questa pesca, e vi spedisce annualmente quasi 80 Satteaux, i quali, particolarmente ne’ mesi d’aprile, maggio, giugno e luglio, come il tempo più conveniente, si occupano nella pesca di coralli. Il sito particolarmente ricco de’ coralli appartenenti a’ Francesi è il distretto sulla costa di Algeri, dal capo Roux fino a Bugia.
Con tutt’i metodi che s’impiegano tanto nella gran pesca, quanto nella piccola (la qual ultima si esercita con bastimenti isolati, e con minori spese), non si può evitare che molti pezzi di coralli si perdano. Qualche volta i rami staccati si attaccano agli altri non distaccati, indi si uniscono con essi, e producono poi de’ rami nuovi. Essi non crescono in poco tempo, e quanto sono più profondi, tanto più sono lenti a crescere: un corallo di 3 anni appena è alto 2 pollici, ed uno di quattro anni appena quattro pollici,
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ed è grosso come un piccolo dito. E siccome vassi troppo spesso sullo stesso sito, sperando di trovare un ramo lasciatovi, così i coralli non hanno mai il tempo di diventare grandi. Se s’incontrano per fortuna de’ banchi di coralli, che non mai sono stati visitati, o che almeno da lungo tempo non sono stati spogliati, allora si fa una buonissima raccolta.
Sino da’ tempi antichi aveva Marsiglia manifatture, nelle quali si lavoravano i coralli. Nella chiesa de’ Domenicani trovasi in altare consacrato sino da tempi remoti da pescatori, e da manifatturieri di coralli in onore di S. Elia. Ancora al presente Marsiglia, e Cassis nella Provenza, e Livorno sono i luoghi principali delle manifatture di coralli.
La prima operazione che Marsiglia si fa coi coralli rozzi consiste nello scegliere i pezzi più belli, e più grandi, o quelli che contengono qualche cosa di particolare; indi si nettano, e si lustrano, poi vengono forniti di un bel piedestallo per ornarne i gabinetti di oggetti naturali; e questi pezzi spesse volte sono pagati con 3000 lire l’uno. Uniti a questi si scelgono que’ pezzi che possono
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servire a lavorare delle spille da ornato, tazze da sorbetto, manichi da stiletto e da coltelli, pomi di bastone, e catene di oriuoli. Gli altri rami sani, e non traforati da’ vermi, sono tagliati in pezzi per mezzo di una tenaglia particolarmente a ciò costruita, e separati nuovamente secondo la loro differente grossezza e grandezza. Alcuni sono solamente lisciali e lustrati, e non facendosi altro preparativo, sono conosciuti sotto il nome di frammenti di coralli; e questi hanno la maggior somiglianza colla cera di Spagna rotta in parti. Da altri pezzi si lavorano delle bellissime perle rosse, e veramente nel modo col quale si arrotano i diamanti a faccette, oppure riescono lisci e rotondi, ovali, o come le circostanze lo permettono; dopo aver loro dato la forma destinata, vengono traforate con aghi acuti d’acciaio, indi separate secondo la loro grandezza, servendosi per tale operazione di scodelle di legno traforate a forma di crivello. Per la prima scodella passano le perle più piccole, per la seconda, fornita di buchi maggiori, la seconda sorte; per la terza le perle più grandi, e così va discorrendo. Le più grandi sono della grossezza d’una ciriegia di Spagna.
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Queste perle, divise secondo la loro grandezza, sono poi suddivise tra loro dietro il loro valore e la loro purezza. Non deve trovarsi in esse alcun segno di corrosione di vermi, né alcuna macchia. Si considera ancora il maggiore, o minor grado del color rosso, e si sono accettate non meno che 200 diverse gradazioni di detto colore. Secondo queste circostanze è regolato il prezzo. La libbra dell’assortimento più ordinario costa a Marsiglia, ancor cruda, da 3 in 10 lire, il migliore da 30 in 50 lire, ed il più bello da 600 fino a 1000 lire. I fabbricatori li comprano a quintali, eccettuati però i grandi, de’ quali si forniscono delle palle. Palle perfette di un pollice e mezzo di diametro costano fino a 1500 lire. Le più piccole si vendono il prezzo di 800, ed anche di 400 lire: avendo esse però la minima screpolatura si diminuisce il prezzo di 100 lire. Le palle di coralli vanno particolarmente nella China, nel Giappone, e nelle Indie, ove gli abitanti se ne servono per ornamento di testa. A que’ pezzi di corallo che non servono a formare una palla perfetta si dà una forma ovale, e si chiamano olivette. Tanto le palle, quanto le olivette sono tirate sopra
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fili di una lunghezza prescritta, e pagate secondo il peso, e la grandezza. Una fila di palle di coralli, che arrivi a due terzi di un braccio, e che pesi una libbra completa costa 530 lire, e le olivette poi, 450. Se ci vogliono due file per formare una libbra, allora per una libbra di palle si paga solamente 225 lire, e per le olivette solamente 190 lire. Se vi vogliano tre file per comporre una libbra, le palle costano 140, e le olivette 130 lire. Componendo 16 file una libbra, allora si paga 30, o 35 lire per libbra, secondo che sono palle od olivette. La manifattura di Marsiglia, vendette ad un Mandarino chinese in un anno fra il 1781, e il 1785 un corallo lisciato, ad uso di diamante, e di una grandezza e bellezza particolare, per 80000 lire. Da Livorno parte una grande quantità di coralli rotondi per l’America, e per le Indie orientali. Le olivette partono per l’Africa, ove i Maomettani Mori, ed i selvaggi se ne servono per ornamento festivo, ed ove sono assai vantaggiose nel traffico co’ Negri, valendo quasi dappertutto comc moneta sonante.
Nell’interno dell’Africa, ordinariamente hanno uguale valore dell’oro. I Maomettani
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dell’Arabia felice dicono le loro orazioni con delle corone fatte con palline di corallo, e difficilmente seppelliscono un morto senza mettergliele al collo.
Alle Indie orientali e verso la costa de’ Malesi, ove già ne’ tempi di Plinio(1) erano riguardati i coralli come amuleti, ed ove ancora a’ giorni presenti godono la stessa riputazione, se ne spedisce annualmente una quantità incredibile. In nessun luogo hanno tanto pregio quanto nel Giappone, ove sono preferiti alle pietre nobili, ed ove la dignità più signorile è distinta dalla grandezza del bottone di corallo, che chiude la tonica la quale il Giapponese porta sopra il suo vestiario. Anche Plinio(2) osserva che i Galli per lo passato ornavano volontieri i loro brandi,
(1) Plin. Hist. nat. 32. C. 2. Auctoritas baccarum ejus non minus ludorum veris quoque pretiosa est, quam foeminis nostris uniones lodici. Aruspices eorum votesque in primis religiosum et gestamen amoliendis periculis arbitrantur. Itaque et decore et religione gaudent.
(2) Nell’istesso luogo ed immediatamente dopo: Prius quam hoc nutesceret, Galli gladios, scuta galeas adornabant eo. Nunc tanta penuria est vendibili merce, ut perquam raro cernatur in suo orbe.
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elmi e scudi con palle e rami di corallo, e che a motivo della grand’esportazione nelle Indie cessavano di servirsene. La minima parte va nella Germania: i Livornesi, e Genovesi ne fecero per l’addietro delle spedizioni considerabili alle fiere di Breslavia, di Francfort, e di Lipsia, ma queste per lo più furono vendute agli Ebrei polacchi, ed ai mercanti della Russia, della Moldavia e Valacchia. Nella Polonia si spediscono annualmente per 100000 zecchini di coralli.
Egli non è verosimile, che oltre i veri coralli rossi si trovino degli altri coralli neri, o di un colore diverso da questo. Il corallo bianco, il quale in nulla differisce dal rosso, se non pel suo colore bianco latteo, rarissime volte si trova; e la maggior parte di quegli autori, che sostengono trovarsi nel Mediterraneo de coralli bianchi, hanno confuso col vero corallo alcune specie delle madrepore, per esempio, la così detta madripora turbinata: Marsigli in tutte le pesche, ove egli era presente, non ha trovato alcun corallo bianco. Siccome si trovano de’ rami di corallo che sono in parte rossi, ed in parte bianchi, così è da supporsi che tutt’i coralli siano rossi di loro natura, e che
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non abbiano altro colore fuori di questo; fin tanto che non cominciano ad essere mancanti, o che dissecchino, e s’imbianchiscano per la vecchiaia. La medesima cosa ci viene assicurata da Marsigli intorno ai coralli bruni, giallastri, e cenerognoli, i quali gli paiono essere null’altro che rami di coralli strappati, che essendo stati per lungo tempo sepolti nel fango sul fondo del mare, furono privati del loro color rosso dall’acqua marina. Plinio(1) è il primo a far menzione de’ coralli neri. Dioscoride gli accenna egualmente sotto un nome particolare(2), e Mattioli(3) nelle sue osservazioni sulle opere di Dioscoride ha dato non solamente una breve descrizione di questo prodotto marittimo, ma pure vi ha unito un disegno. Esaminando però con maggior attenzione questa descrizione, e confrontando il disegno colle specie de’ coralli neri che si trovano ne’ gabinetti di storia naturale, presto ci persuaderemo,
(1) Nel luogo accennato. Cignitur et in rubro mare sed nigrius.
(2) Lib. G. C. 97. sotto il nome di Antipathes.
(3) Oper. a 1598. p. 956.
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che in nessun modo sono uguali ai veri coralli, mentre non sono pietrosi, ma più tenaci, ed assomigliano al corno, ed oltre di ciò crescono lunghi e forti in guisa da potersene servire come di un bastone, al qual uso vengono ordinariamente destinati da’ tornitori de’ coralli. Nel fuoco bruciano come il corno, e danno anche un odore con me il corno bruciato, cosa che il corallo nobile non fa, e quindi Linneo li mette sotto una classe particolare di Zoofili, contandoli fra i Ceratofiti. Il corallo nobile, al contrario, ha una costruzione compatta, dura e pietrosa, per la quale si distingue essenzialmente dalla Gorgonia, e dal così detto corallo nero. Fra i coralli neri che sin ora si conoscono, niuno si è trovato che contenga delle parti pietrose; essi sono anche più ramosi, e si avvicinano più alla forma di un arboscello, cosa che non ha luogo negli altri coralli della classe di litofiti. Gl’Indiani se ne servono di esso come di un veleno alle stregonerie. Si trovano 13 specie di Ceratofiti, fra i quali appartiene anche quello accennato da Bauhin(1), ch’era rosso
(1) Pinax Theatr. botan. p. 366.
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di fuori, e nero di dentro. Questo null’altro è che una nera, e cornea creatura di mare, coperta da una terra rossa, o vestita con una crosta del corallo nobile.
I coralli bruni, egualmente non sono coralli propri, e, come dimostra la loro costruzione porosa, e la moltitudine delle apertura a forma di stelle, appartengono alle Madrepore.
I coralli turchini, chiamati anche acari, non sono egualmente coralli, come qualunque altro di un colore diverso dal rosso; sono però estremamente cari pel loro colore. Si trovano sopra alcune coste dell’Africa, incominciando dalla costa Rio del Re fino al fiume Camarone; essi formano una parte delle merci, che gli Olandesi prendono sul fiume di Camerone. In tutti gli altri coralli turchini e verdi, paiono i colori dipendere o da una melma rossa del mare che si attacca intorno ad essi, ovvero, particolarmente i verdi, da una tenera conferva di mare, mentre una tal melma marina, ed il musco spesso coprono tanto le piante marine pietrose, quanto le cornee, ed il colore del corallo rosso, non prima diviene visibile,
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di quando è stato nettato dal fango che lo circonda.
Le coralline formano un genere particolare fra gli Zoofiti, e Pallas ne conta 13 specie. Esse hanno un tronco a forma di fili, il quale è interamente composto di articolazioni. Questo tronco è di una natura calcarea, ed ha delle aperture assai piccole, le quali non si possono osservare che col mezzo de’ microscopi. I fiori, come quelli de’ polipi, non sono ancora stati trovati su di loro, nonostante Pallas, ed altri naturalisti le contano fra le piante. Ellis al contrario crede, che siano già sufficientemente distinte da tutte le piante marittime, per esempio, da’ Licheni marini, poiché nel bruciarli danno un odore come il corno, o come un’altra parte animale, e distillandole forniscono molto sale volatile, che spesso non si estrae dalle piante, e non mai sì abbondantemente come da questi muschi.
Le Sertularie hanno egualmente un tronco articolato e filamentoso, colle radici prominenti, ma non è calcare come la specie antecedente. Da ciascuna articolazione sorte un fiore, che si crede un polipo, ed alcune, a diverse piccole distanze, hanno certe
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vessiche, ovvero bottoni, le quali Ellis prende per cellule, ed ovaie, e Pallas al contrario pel pericarpio. Queste Sertularie si trovano sugli scogli, su i banchi delle ostriche, sopra i crostacei, ed altri corpi, più duri o molli, del mare, e spesso l’una presso l’altra. Tanto essi, quanto le coralline, eccettuate alcune specie che si trovano abbondantemente nel mediterraneo, appartengono fra le rarità delle collezioni di oggetti naturali, e per la di loro costruzione dilicata e bella dilettano l’occhio dell’osservatore.
Nessuno fra tutti gli Zoofiti trovasi più abbondantemente nel Mediterraneo quanto la Spugna (Spongie), che da per tutto si vede attaccata sugli scogli, su i banchi di corallo, e sulle conchiglie. Questo corpo marino, che serve per nettare noi, ed i nostri mobili, è composto di filamenti pieghevoli, è senza membrana esteriore, ed in luogo di essa è fornito di una quantità di pori aperti, i quali non dimostrano avere alcun fiore simile a quello de’ polipi, ma, trovandosi ancora nel mare, imboccano, e rigettano visibilmente l’acqua, come se respirassero. Toccando la spugna si ritira, e si attacca più
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fortemente allo scoglio quando si vuole strapparla, per cui era creduta animale anche presso gli antichi. Le parole di Aristotele in proposito di essa non lasciano alcun dubbio. Egli loro attribuisce della sensazione, e narra che per distaccarle dalle rocce con facilità debbasi sorprenderle all’improvviso. Particolarmente sostiene egli la loro natura animale, riconosciuta generalmente in una specie il di cui colore cade nel nero, e rammenta che altri fanno abitare nelle spugne degli animaletti, alle quali propriamente non appartengono, ma che in esse cercano solamente un ricovero(1): Plutarco attribuisce loro un movimento uniforme, ma arbitrario, della sensazione, ed anzi del sangue(2). Egli paragona l’animale che vi abita coi ragni; e Plinio, l’eco fedele degli antichi, pone le spugne fra gli animali viventi; distingue il
(1) Hist. anim. lib. I. c. I. ed. da Cal. tom. 2. pag. 93 D. E. e. hist. anim. lib, 5. C. 16 alla fine, ibid. pag. 305, 306.
(2) De solertia animalium, ed. Francof. tom, 3. pag. 80 B, C.
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maschio dalla femmina, e loro attribuisce l’udito(1). Del resto le spugne sono bastantemente conosciute, e perciò non ne faremo ulterior menzione. Plinio ne conta 13 specie, paragonando la loro figura con palle, con imbuti, con rami, alberi, ventagli ec., ed ora le classifica secondo il colore bianco, nero, rosso, verde, giallo e bruno. La spugna rossiccia, gialla o bruniccia, che ordinariamente trovasi in masse rotonde, serve nella farmacia.
Le Testuggini (testudo), benché siano classificate tra gli anfibi, non le possiamo passare
(1) Plin. hist. nat. 31. 11. Spongiarum genera diximus in naturis aquatilium marinorum. Quidam eas ita distinguunt. Alias ex his maris existimavere tenui fistu. la spissioresque persorbentes, et quae tinguntur in deliciis aliquando et purpureo, alias feminas, majoribus fistulio atque densissimis - Animal esse docuimus etiam cruore e inhaerente. Aliqui narrapt et audito regieas, contrahique ad sonum, exprimentes abundantiam hun moris, nec avelli petris posse, ideo abscindi ac saniem emittere ec. Nel lib. XI. C. 37. Pone egli le spungae fra gli animali, negando però loro tutt’i sensi eccettuato il senso del tatto.
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totalmente sotto silenzio, poiché ve ne sono delle specie particolari che vivono unicamente nel mare, e che arrivano solo nell’Atlantico alla propria loro grandezza. Esse sono sempre circondate da due cove dure, e quasi ossee, come da due scudi. L’inferiore ovvero la cova pettorale è piatta, e forma quasi uno sterno piatto e disteso; la superiore, ovvero la cova dorsale, è un poco curva, e rinchiude in se quelle coste che nascono ordinariamente dalla spina dorsale: ambedue le cove si uniscono su i lati per mezzo di un margine, di modo che resta solamente un’apertura sulla parte anteriore, ed un’altra sulla posteriore. L’apertura sul davanti lascia il libero giuoco alla testa, ed ai piedi anteriori, e dall’apertura di dietro sortono la fine del corpo, ed i piedi posteriori. Tutte queste parti può la testuggine ritirarle sotto le cove. Queste cove sono divise in campi, e nella maggior parte delle testuggini, particolarmente nelle specie maggiori, sono coperte di fogliette cornee, che formano il conosciutto osso di tartaruga, col quale si lavorano vari oggetti utili. Le testuggini sono tutte senza voce, e con la bocca
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senza denti, ma ciò non ostante possono colle loro mascelle rompere tutto quello che loro viene innanzi, come i gusci di alcune specie di conchiglie, di gamberi, e diversi prodotti del mare. Tutte hanno la cute assai tenace e possono essere conservate molte settimane in una cava umida senza alcun nutrimento. Negli esperimenti fatti sulla loro forza vitale risultò, che una visse affatto priva di aria per 32 giorni, un’altra alla quale si aprì il cranio, e si trasse fuori tutto il cervello, visse ancora 6 mesi, e una terza, a cui si spaccò la testa, visse ancora 23 giorni. Esse si muovono ancora alcuni giorni dopo aver loro tagliata la testa(1). Ordinariamente arrivano ad una età maggiore di 80 anni. Si accoppiano lentamente, e qualche volta ciò dura delle settimane intere. Le uova che fanno sono rotonde, e coperte di una scorza tenera simile alla pergamena bagnata, come le uova sovventanee delle galline.
Si conoscono più di 15 specie di testuggini, ed almeno 5 specie di testuggini di
(1) Mannigfaltigkeiten, 3. anno p. 264. 265.
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mare, le quali si distinguono particolarmente dalle altre per la forma de’ piedi, ai quali talvolta mancano le unghie, e possono perciò essere paragonate piuttosto colle pinne de’ pesci che co’ piedi de’ quadrupedi. Si nutriscono di musco marino, e di altre piante marine, anche di crostacei, e non vengono mai in terra, che quando fanno l’uova.
Dieci o quattordici giorni prima che la testuggine femmina voglia far l’uova, viene in terra per sciegliersi un luogo alto ove deporle, e ritorna sicuramente dopo 14 giorni sullo stesso sito, sul quale, in un paio di ore, lascia 100 uova, e 1000 nel corso dell’anno, anzi qualche volta 1200 (di un sapore assai buono), e sotterrandole nella sabbia le fanno covare dal sole. Dopo 6 settimane si veggono i figli sortire dalle uove, e correre adirittura verso il mare; ma non giunge all’acqua né anche la decima parte di loro, poiché, strada facendo, le fregate ed altri uccelli di mare lor danno la caccia. Siccome è difficile di prendere le testuggini nel mare, così si profitta del tempo in cui vengono in terra per far l’uova. Questa caccia consiste nel rivoltarle colla mano, o col bastone, sulla schiena, ed in questa posizione la fuga
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verso il mare lor diventa impossibile poiché non possono più rivoltarsi sul ventre: però non si portano via senza fatica, mentre qualche volta pesano da 560 sino a 700 libbre.
In mezzo al mare è la presa di questi animali molto più difficile. Per lo più si sceglie a questa operazione il tempo in cui dormono poiché si mettono sul dorso, e galleggiano nella loro cova voltata, come in una barca; oppure quando si accoppiano. Le specie più grandi non si possono prendere altrimenti sul mare, che coi ramponi e colle lancie, e quasi nell’istesso modo col quale si prendono le balene. Sulle sponde del mare si servono anche a tal uopo di reti alte, e lunghe 80 in 120 braccia , nelle quali le testuggini, andando di notte in terra, o solamente sulle sponde, facilmente s’inviluppano.
Testudo mydas. È la specie più grande, e pesa da 500 in 700 libbre. La cova di 8 fino a 9 piedi di lunghezza, e di 3 o 4 di larghezza, è a forma di uovo, e di colore verdiccio; 7 e più persone vi possono stare comodamente sopra, ed essere portate via dall’animale. Essa non è coperta di foglietti cornei, ma con una pelle grossa, simile al
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cuoio, e pare di essere unità per mezzo di varie suture. Da queste cove sogliono gl’Indiani fabbricarsi delle barche, de’ trogoli e de’ bauli. Ai piedi anteriori hanno uno due unghie, ed ai posteriori, ovvero alle membrane nuotatorie, hanno sempre un’unghia sola. La loro carne è molto saporita, e si dice che abbia il gusto della carne di pollastro, al quale sia ancora in qualche modo da preferirsi, essendo in oltre uno de’ migliori rimedi contro lo scorbuto. È ben credibile che siano di un buon sapore, e che il loro grasso non sia tanto disgustoso quanto quello delle balene e delle foche, poiché si nutriscono d’alga, e di altri vegetabili marittimi. Esse si trovano intorno alle isole di Bahama, nel seno del Messico, nel mare de Caraibi, sulle coste dell’Africa, e generalmente sotto i tropici; qualche volta però si trovano anche negli altri mari: sulle isole Forsues, ovvero isole delle testuggini; poco distante da Cochinchina se ne pescano, e se ne insalano in quantità incredibile, formando ivi un considerabile ramo di commercio. Se ne prendono ancora abbondantemente sull’isola di Rodriguez, nel mare delle Indie, come pure nel Gange, all’isola Ascensione, alla
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Barbada ec. Qualche volta le burrasche, od altri accidenti le gettano verso le latitudini più alte, e sulle coste dell’Europa, ove ordinariamente non se ne trovano. Così nel 1707 nell’Olanda, e precisamente nel Wykerzee, fu presa una testuggine lunga 6 piedi, e che pesava 500 libbre; nel 1709 un’altra all’imboccatura della Loire di 7 piedi di lunghezza, ed una terza ancora maggiore nel 1754 davanti la Rochelle, la quale era lunga più di 8 piedi, e pesava 800 libbre circa, col di cui fegato solo si fecero 4 pranzi per tutto il clero dell’abbazia di Louvaux; e da ciò possiamo concludere che il fegato bastava per un pranzo di 100 persone(1). Il grasso che si trasse da tale testuggine era denso come il butirro, di buon sapore, e pesava 100 libbre circa.
Testudo marina caovana. Si nutrisce per lo più di crostacei, morde e si difende con coraggio, e non essendo di buon sapore, se ne suole estrarre solamente dell’olio.
(1) V. Linne’s vollstaendiges Natur System. da Muller 4. vol., Mannigfaltigkeiten. 3 anno, p. 384.
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Testudo caretta. La bocca di questa testuggine assomiglia a quella dell’astore. Essa ha 2 unghie alle nuotatoie anteriori, ed alle posteriori. La cova è di forma ovale, ed ha ordinariamente nel mezzo de’ foglietti di sei angoli, e su i lati de’ quadrati storti; ciascuno di questi foglietti pesa 3, o 4 libbre, e qualche volta 7 libbre. Essa si nutrisce particolarmente di spugne marine. Nel 1752 fu pescata una tale testuggine nel porto di Dieppe, ed era lunga 6 piedi, larga 4, e pesava 900 libbre. Vedesi da ciò benissimo, che un animale di questa natura può portare varie persone sul dorso(1).
Testuda imbricata. È senza unghie ai piedi; la cova ha perfettamente la forma di un cuore, ed è solcata, e dentata sul margine. Questa specie ha 14 foglietti, senza contare quelli che formano il margine largo. Ciascun foglietto è lungo circa un palmo, ed ha delle macchie chiare ed oscure come
(1) Un disegno di questa testuggine veggasi nelle Mannifaltigkeiten 3 anno pag. 224 e la descrizione pag. 377.
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il colore delle castagne, le quali in parte sono trasparenti . Questi foglietti sono messi uno sopra l’altro, come le squame, e forniscono l’osso di testuggine più bello: anche la coda è squamosa. La lunghezza di questo animale arriva a 3 piedi, e la larghezza a due e mezzo. Esso trovasi frequentemente nell’Atlantico, tanto sulle coste dell’Africa quanto su quelle dell’America.
Da per tutto nel Mediterraneo, più raramente però nell’Adriatico, trovasi la quinta specie chiamata Testudo coriacea. Essa non ha i sunominati foglietti, ed è coperta solamente con una pelle cenerognola, dura a guisa di cuoio, e quasi triangolare, la quale si assomiglia alle suole delle scarpe preparate colla pelle del bue, e nella maggior estensione vi sono 6 in 7 solchi. La coda è rettangolare, non carnosa come nelle altre specie, ma è fornita di una continuazione della spina dorsale. Essa non può ritirare la testa sotto la cova.
Più frequentemente che nel mare Atlantico incontriamo le testuggini nel mare delle Indie, il quale comincia appena passato il Capo di Buona Speranza. Nelle Indie intiere
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si fa un commercio delle testuggini insalate così considerabile, quanto quel che facciamo noi dei pesci salati.