I. Della differenza tra la ragione pura e l'empirica
II. Del possedersi per noi certe cognizioni anteriori ad ogni senso ed esperienza e del non andar mai digiuno di queste neppure il volgare intendimento
III. Del bisogno che ha la filosofia di una scienza che stabilisca la possibilità, i principi ed il complesso di tutte le nozioni preconcepute
IV. Della differenza tra i giudizi analitici ed i sintetici
V. Dei giudizi sintetici a priori, come inerenti a tutte le scienze teoretiche della ragione
VI. Problema universale della ragione pura
VII. Idea e divisione di una scienza particolare, sotto nome di Critica della ragione pura
208
Eccoci bisogno di un criterio pel quale distinguere con sicurezza la cognizione pura dall’empirica. Perciocché la sperienza ne insegna bensì esistere in un modo o nell’altro una qualche cosa, non però che la stessa cosa possa essere altrimenti. Ora, se c’incontriamo (in primo luogo) in una tesi, nel pensare alla quale ricorra insieme al pensiero la di lei necessità, sarà essa un giudizio a priori; se poi non è derivata e ha forza di tesi, necessaria via sempre per se stessa, in tal caso è giudizio assolutamente a priori. In secondo luogo,
209
la universalità, che imprime a suoi giudizi la sperienza, non è mai assoluta e rigorosa, ma solo supposta o relativa (per via d’induzione); e propriamente indica o esprime: questa o quella regola, per quanto abbiamo appreso fino a ora, si trova senza eccezione. Che se il giudizio cui mediti è meditato come assolutamente universale, talché né possibile ammetta la minima eccezione, allora esso non proviene dalla sperienza, e ha forza di preconceputo a ogni patto. L’universalità empirica pertanto non è che un aumento spontaneo di prezzo, da quello del più delle volte, a quanto vale per tutte, come nell’assioma, che stabilisce i corpi tutti essere gravi. Per lo contrario, quantunque volte l’universalità assoluta appartiene essenzialmente a un giudizio, essa indica il medesimo avere una sorgente affatto particolare,
210
la facoltà cioè di sapere per anticipazione. Or dunque la necessità, e l’assoluta universalità, sono gl’indizi sicuri della cognizione a priori, e sono esse così fra loro strettamente accoppiate a vicenda, che non può una dall’altra disgiungersi. Siccome però nell’applicazione pratica delle medesime ai giudizi riesce talvolta più agevole a dimostrarsi la empirica loro limitazione, che non l’accidentalità, se non anche riesce tal’altra più assai manifesta la illimitata universalità cui riportiamo a un giudizio, che non la necessità del medesimo, sarà quindi prudente consiglio il separatamente giovarsi di ammendue gli accennati criteri, essendo altronde infallibile ciascheduno anche da solo(1).
(1) Ecco il principio, che serve di base a tutto l’edifizio della critica, in maniera
211
Che poi dieno simili giudizi necessari non che strettamente universali,
che, ove lo si potesse dimostrar falso, rovinerebbe affatto quell’edifizio. Tutto ciò che nel sapere umano esprime alla coscienza una necessità è anticipato, e appartiene, alla ragione pura; tutto ciò per lo contrario, che vi esprime l’accidentalità o a una generalità comparativa è posticipato, e appartiene alla sperienza. Considerato in se stesso il necessario, nelle cognizioni, si chiama puro, e si chiama empirico l’accidentale o anche l’universale semplicemente comparativo. La possibilità e autenticità dell’umano sapere poggia sul complesso delle cognizioni pure, e costituisce la filosofia trascendentale. La verità del detto principio è confermata dal fatto; giacché non può dubitarsi esistere nella coscienza una diversità essenziale tra ciò che è necessario e accidentale nella cognizione. Ora non può il necessario essere derivato in veruna maniera alla sperienza, come quella che ben dimostra ciò che avviene, ma non dimostra le cose dovere succedersi in quel modo che accadono. E per quanti
212
quindi a priori e veramente inerenti all’umano intendimento,
si facessero sforzi, onde il necessario derivare dalla sperienza; essi non valsero né alle prove reggere della critica, né alla voce dell’intima convinzione che li contraddice. Il necessario della sperienza non potrebbe dunque avere sorgente altrove che nella ragione pura.
Per l’opposto non è già dalla ragione pura, che si deve cercare la cagione dell’accidentale; altro non potendo essa contenere che i principi formali del sapere; giacché gli oggetti, ai quali questi principi si riferiscono, vengono somministrati dal di fuori, e ne fa fede la stessa coscienza. Ben serve la sperienza di pungolo in certo modo, per cui eccitare la facoltà intellettuale pura e porla siffattamente in azione che ne possiamo indi acquistare il convincimento sì colla riflessione che per astrazione. Che se fosse possibile rovesciare il principio, essere il necessario della cognizione a priori, e a posteriori nella stessa cognizione il casuale, in tal caso non avremmo più alcun carattere positivo per
213
nulla di più agevole che il provarlo. Chi ne volesse infatti esempi dalle scienze, non ha che a trascorrere gli assiomi della matematica e ne rileverà in tutti. Chi poi fosse vago di averne dall’uso più volgare dell’intendimento, la già indicata
cui separare la ragione pura dall’obbiettivo della sperienza. Non ostante però le obbiezioni mosse alla dottrina di Kant, e non ostante gli errori e le imperfezioni che s’incontrano per avventura nel rimanente del suo sistema, niuno ha potuto ancora impugnare la verità di siffatto principio. Quellino che negarono la ragione pura o la volsero ben anche in ridicolo, non mai però giunsero a dichiarare né onde la differenza derivi tra quanto è necessario e quanto è contingente nella cosciena, né come si possa il necessario dalla sperienza derivare. E sinché non sia chi ne offra così fatte spiegazioni, la filosofia critica. Dice Buhle, può essere tranquilla rispetto a questo criterio di guida, cui ella segue nelle sue ricerche.
214
proposizione che annunzia, ogni mutazione dipendere da una causa, potrà servirgli di prova. E di vero che, in questa tesi, la stessa idea di una causa contiene sì manifestamente anche le idee sì di una necessità di combinazione con un effetto, che di una illimitata universalità nella regola, che andrebbe affatto perduta quella prima idea, se la si volesse derivare con Hume da spesso ripetuto accoppiamento di ciò che accade con ciò che precede, e da una quindi emergente abitudine di combinare le rappresentazioni; oltreché non sarebbe che subbiettiva la necessità che risulterebbe da tale abitudine. Ma non è già d’uopo ricorrere a simili esempi, onde provare vera la esistenza de’ principi puri a priori nella nostra cognizione; giacché si potrebbero persino dimostrare indispensabili alla possibilità della
215
sperienza medesima. D’onde mai ricaverebbe questa infatti la propria certezza, ove già empiriche fossero per se stesse, quindi avventizie le regole, giusta le quali essa procede; e come ammettere in tal caso che queste regole avessero valore di principi e di leggi primitive? Ora però dobbiamo starci contenti all’avere dimostrato l’uso puro della nostra facoltà di sapere, non che indicato i criteri della medesima. Dirò anzi che non solo nei giudizi ma nelle stesse idee può dimostrarsi l’origine a priori, come quella che si dimostra per se medesima in alcune di loro. Proviamo infatti a distaccare col pensiero, poco a poco, dal complesso dell’idea, che abbiamo del corpo, tutto quanto vi è di empirico, il colore, la durezza o la mollezza, la gravità, e anche l’impenetrabilità, resterà però sempre, né sarà forza di pensiero,
216
che valga scancellare lo spazio già prima occupato dal corpo, e non ostante l’essere questo scomparso del tutto. Nella stessa maniera se dal nostro concetto empirico di un oggetto qualunque, sia esso corporeo o altro, stacchiamo tutte le proprietà e modificazioni apparate dalla sperienza, non è però caso che possiamo togliergli quelle per le quali ce lo immaginiamo come una sostanza, o come alcunché di aderente alla sostanza (sebbene questa idea sia più definita che non quella di un oggetto in generale). Convinti pertanto da quella stessa necessità, colla quale ci si affaccia e insinua la detta idea, non possiamo a meno di confessare ch’essa risiede a priori nella nostra facoltà di sapere(1).
(1) La prima deduzione da questo principio è che, rimanendo sempre lo stesso,
217
né mai variando il soggetto, e variando continuamente, per l’opposto, gli oggetti, né alcuna essendo in essi ragione di necessaria somiglianza, tutto ciò che, nella rappresentazione degli oggetti, sarà costante e invariabilmente lo stesso, appartiene al soggetto; e che all’oggetto spetta per lo contrario quanto vi è di variabile, passeggero e accidentale. Così la forma e il colore che, a qualunque oggetto rivolgendosi, trovasse lo sguardo, sempre uguale in tutti e costante, oppure il sibilo che fosse inseparabile da qualsivoglia suono, apparterrebbero all’occhio e all’orecchio, anziché agli oggetti veduti o ai suoni percepiti.