I. Della differenza tra la ragione pura e l'empirica
II. Del possedersi per noi certe cognizioni anteriori ad ogni senso ed esperienza e del non andar mai digiuno di queste neppure il volgare intendimento
III. Del bisogno che ha la filosofia di una scienza che stabilisca la possibilità, i principi ed il complesso di tutte le nozioni preconcepute
IV. Della differenza tra i giudizi analitici ed i sintetici
V. Dei giudizi sintetici a priori, come inerenti a tutte le scienze teoretiche della ragione
VI. Problema universale della ragione pura
VII. Idea e divisione di una scienza particolare, sotto nome di Critica della ragione pura
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Più assai del sin qui detto rileva, che certe cognizioni abbandonano
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affatto il terreno d’ogni sperienza possibile, e mostrano di estendere la periferia dei nostri giudizi, oltre quanti sono i confini della medesima, per mezzo di concetti, ai quali non è oggetto che risponda; né, per investigare che si faccia, sarà mai possibile in tutto in quel terreno incontrarne.
Ora gli è appunto in queste cognizioni e in queste idee, le quali trasmigrano dalla sfera del mondo sensibile, recandosi in parte ove non può la sperienza guarentirle, né fornir loro alcun filo di guida, che stanno riposte quelle investigazioni del nostro intelletto, quali noi reputiamo assai più preminenti rispetto al pregio, e di gran lunga più elevate risguardo allo scopo, che non tutto quanto può lo stesso intelletto apparare alla scuola e nel campo dei fenomeni. E le ci stanno
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tanto a cuore siffatte investigazioni, che, a costo di pure ingannarci, e non ostante sì la indifferenza, o poca estimazione, in che sono tenute per altri, sì le difficoltà che presentano, preferiamo affrontare ogni pericolo, anzi che rinunziarvi e ommetterle. Dio, la libertà e l’immortalità sono i temi dai quali non possiamo schermirne: la stessa ragione pura ce li presenta; e la scienza, il cui ultimo scopo e i preparativi e le armi ad altro propriamente non tendono che alla soluzione loro, è metafisica. Questa poi, battendo sin dalle prime la via dogmatica, senza cioè preventivamente sottoporre a esame, non che scandagliare, la capacità o incapacità della ragione a sì grande intrapresa, vi si commette con tutta fidanza e ne affronta l’eseguimento.
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Eppure nulla di più naturale, dappoi essersi dipartiti dal territorio della sperienza, quanto il non doversi l’edifizio innalzare né sopra nozioni, che ben si posseggono, ma non si sa donde; né sul credito e sull’autorità di principi, dei quali è nascosta l’origine; e di non prima costruirlo che presa diligente contezza, e istituito esame del sito, su cui porre con tutta sicurezza le fondamenta. E che si avrebbe invece dovuto già da molto tempo emettere la domanda: come potesse o come possa l’intendimento mai giungere a tutte queste cognizioni anticipate, sin dove le si estendano, quale abbiano autenticità, e quanto valore? E per verità, che nulla è più naturale di tutto questo, se per naturale intendi ciò che l’equità e la ragione richiedono che si faccia o succeda. Che se per lo contrario intendi, sotto
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questa parola, ciò che d’ordinario si fa e succede, certo che nulla di più manifesto e naturale, in tal caso, quanto che la indicata ricerca dovesse rimanere negletta per lungo tempo. Tanto più che da una parte di queste cognizioni, come sarebbe la matematica, trovasi già nell’antico possesso della piena certezza, e desta perciò le più lusinghiere aspettazioni, anche rispetto alle altre scienze; non ostante che forse affatto da quella diverse per loro natura. Aggiungi che, sciolti una volta i lacci, e sortito dalla periferia della sperienza, non hai più perché tema di essere dalla sperienza redarguito o confutato. Perciocché la bramosia di estendere le proprie cognizioni è di tal forza, che non potrai essere arrestato nei tuoi passi, eccetto alcuna cosa incontrando che inchiuda e mostri la più manifesta contraddizione: e ti
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sarà facile scansarla, solché sii cauto e castigato nelle immagini che andrai fingendo, non ostante che saranno pur sempre immagini e chimere. Le stesse matematiche forniscono parlantissimi esempli di quanto, e come lontano, possiamo avanzarci nella cognizione anticipata, e indipendente da qualunque sperienza. Vero bensì che la matematica non si occupa di cognizioni e oggetti, che in quanto può essa rappresentarli col mezzo della vista; benché si trascuri di por mente a tale circostanza, per ciò appunto che, potendo essere somministrata preventivamente, la visione riesce appena distinguibile da una semplice idea pura. Quindi è che, abbagliata, più che persuasa, da prove di questa fatta, sulla forza e capacità della ragione, la smania di estenderla non conosce più limiti: e si comporta come lieve colomba,
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la quale, sentendo la resistenza dell’aria volando, s’immaginasse che sarà per trovarsi assai meglio e più liberamente aleggiare, ove possa giungere in parte di spazio, che d’ogni aria sia privo. Così abbandonava Platone il mondo sensibile, ove troppo è compresa fra carceri e strette la mente, quando attentossi oltrepassarlo e spingersi col volo delle idee nel vuoto del puro intendimento. Ma non rifletté il volatore filosofo ch’ei non guadagnava punto cammino, per affaticare che facesse le ale, come quelle che, se non contrasto, neppure trovavano appoggio, e che, non trovando su di che potessero esercitarsi le di lui forze, non poteva egli ottenere, perché l’intelletto avanzasse. Ma è tale d’ordinario il destino dell’umana ragione, in fatto di speculazioni, ch’essa dapprima non si occupa che di condurre a fine il più
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lpresto che può l’edifizio; e poscia e per ultimo e assai tardi esamina se ne ha ben poste, e sopra suolo adatto, le fondamenta. Che anzi allora si cerca ogni maniera di titoli e pretesti, onde avere conforto sulla idoneità e saldezza del fabbricato, per non dire di quando se ne rifiuta o elude la già tarda e pericolosa esplorazione. Ciò che poi da ogni sospetto e timore ne affida, mentre stiamo edificando, e che ne lusinga talora colle apparenze della solidità, gli è che buona parte, forse la massima, dei lavori di nostra ragione consiste nella notomia delle idee, che noi abbiamo già ricevute dagli oggetti. E con ciò ne viene fornita copia di nozioni, le quali, non ostante che mere dichiarazioni e dilucidazioni di quanto era già stato imaginato nei nostri concetti (in maniera tuttavia facilmente confusa), rispetto per lo
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meno alla forma però, sono per noi equiparate a cognizioni di nuova data; mentre, se badi alla materia o al contenuto, non allargano punto la sfera dei concetti che già possediamo, e altro non fanno che dividerli e staccarli l’uno dall’altro. Siccome il qual procedere fornisce non pertanto vera cognizione a priori, la quale ha già un sicuro e utile andamento, quindi è che, delusa per quella fallace apparenza, la ragione, riceve per sorpresa, e senza neppure avvedersene, asserzioni e massime di tutt’altra natura. Nel che fare la stessa ragione a delle idee già date ne accoppia e aggiunge di affatto straniere (quantunque a priori), così che né sai, né capisci, come le abbia essa ricevute, e né ti può cadere tampoco in pensiero di chiederla, non che indagare, sul loro provenimento. Voglio pertanto, in
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questa stessa introduzione, trattare del come distinguasi questa doppia maniera del sapere.