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CRITICA ELEMENTARE TRASCENDENTALE
PARTE PRIMA
ESTETICA TRASCENDENTALE
SEZIONE SECONDA - DEL TEMPO
I. Della differenza tra la ragione pura e l'empirica
II. Del possedersi per noi certe cognizioni anteriori ad ogni senso ed esperienza e del non andar mai digiuno di queste neppure il volgare intendimento
III. Del bisogno che ha la filosofia di una scienza che stabilisca la possibilità, i principi ed il complesso di tutte le nozioni preconcepute
IV. Della differenza tra i giudizi analitici ed i sintetici
V. Dei giudizi sintetici a priori, come inerenti a tutte le scienze teoretiche della ragione
VI. Problema universale della ragione pura
VII. Idea e divisione di una scienza particolare, sotto nome di Critica della ragione pura
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Contro a tale teorica, nella quale si conviene della realtà empirica
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del tempo, e se ne impugna l’assoluta e trascendentale, mi venne fatta, con tale unanimità, da parecchi uomini perspicaci, una obbiezione, che non posso a meno di quindi arguire, ch’ella sia per naturalmente ricorrere al pensiero anche dei leggitori, ai quali fossero meno famigliari queste considerazioni. L’obbiezione muove da ciò, che i cambiamenti sono cosa di fatto (e lo dimostra l’alternativa di tutte le nostre proprie idee, quando pure si avesse il coraggio di rinnegare l’esterne apparizioni quante sono, unitamente ai loro cambiamenti). Ora i cambiamenti non sono possibili che nel tempo; dunque il tempo è qualche cosa di positivo. Al che non è difficile rispondere, accordando, come accordo, tal qual è, l’argomento; e dico. Il tempo è, non v’ha dubbio, alcunché di positivo, cioè la
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forma effettiva dell’interna visione. Esso ha dunque una realtà subbiettiva, rispetto all’interna sperienza; e con ciò intendo aver io positivamente l’idea del tempo e di ciò che determino in esso lui. Per la qual cosa il tempo non deve considerarsi quale oggetto effettivo, bensì qual maniera rappresentatrice di me stesso, come di un oggetto. Che se quello stesso io, oppure un altro essere, potesse ravvisarmi senza l’avvertita condizione della sensibilità, in tal caso quelle modificazioni medesime, che ora noi raffiguriamo come cambiamenti, somministrerebbero una cognizione, alla quale non avrebbe assolutamente parte né l’idea del tempo né quella, per conseguenza, dei cambiamenti. Non è dunque tolta la realtà loro empirica, siccome condizione d’ogni nostra sperienza: ma può tuttavia non essere
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loro accordata, per quanto accennai più sopra, la realtà assoluta; ed il tempo non è che la forma dell’intima nostra visione(1). Se via ne togli, di fatto, la special condizione della nostra sensibilità, scompare affatto anche il concetto del tempo; poiché tal concetto non è inerente agli oggetti, ma soltanto al soggetto che li ravvisa.
Ma veniamo al motivo, per cui la detta obbiezione fu mossa così concordemente, quantunque da persone, che nulla di convincente avevano cui opporre alla dottrina dell’idealità dello spazio. Disperavano
(1) Posso bensì dire le mie idee succedersi fra di loro; ma ciò significa esserne io consapevole nella successione del tempo, dietro la forma cioè dell’intimo senso. Né perciò il tempo è qualche cosa per sé stesso, come neppure una qualche modificazione obbiettiva inerente alle cose.
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essi di poter dimostrare apoditticamente l’assoluta realtà dello spazio; avendo contro di loro l’idealismo, la cui mercé non è suscettiva di prova rigorosa la realtà degli oggetti esteriori: mentre per l’opposto quella dell’oggetto dei nostri interni sensi (di me stesso e del mio stato) riesce immediatamente manifesta mediante la coscienza. Perciocché potrebbero quei primi non essere che mere apparenze; dove il secondo, stando all’opinione loro, è incontrastabilmente alcunché di positivo. Ma non posero mente a che sì gli uni che l’altro, senza uopo di contrastare la realtà loro, come rappresentazioni, appartengono tuttavia soltanto alle apparizioni. Ora queste, vale a dire i fenomeni, hanno sempre due aspetti; l’uno, in cui l’oggetto è considerato in sé stesso non avuto risguardo al modo con che
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lo si ravvisa, bensì alla di lui natura, che per ciò appunto rimane ognora problematica); l’altro, in cui si risguarda alla forma di visione del dato oggetto; la qual forma vuol essere cercata, nell’oggetto per sé stesso non già, ma nel soggetto cui apparisce o si presenta l’oggetto; sebbene competa essa non pertanto di necessità ed effettivamente all’apparizione dell’oggetto medesimo.
Per le quali cose il tempo e lo spazio sono due sorgenti di sapere, dalle quali può attingersi, a priori, copia di nozioni sintetiche; siccome, rispetto alle cognizioni dello spazio e de’ suoi rapporti, ne fa chiarissima fede la matematica pura. Conciossia che, presi assieme, lo spazio ed il tempo costituiscono le forme pure di qualunque visione sensitiva, onde nasce ogni possibilità di proposizioni sintetiche. Queste
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fonti però di sapere anticipato stabiliscono a sé medesime appunto per ciò (che altro esse non sono se non mere condizioni della sensibilità) i propri confini; voglio dire che si estendono agli oggetti, solo in quanto vengono questi considerati quali apparizioni, ma non presentano cose per sé stessi. Il solo territorio delle apparizioni è quello dove hanno valore lo spazio ed il tempo; e non prima trasmigra da quel terreno, che non ha più luogo l’uso obbiettivo dei medesimi. Questa realtà loro altronde non attenta per niente alla sicurezza del sapere sperimentale; giacché ne restiamo egualmente certi, sia che tali forme aderiscano di necessità alle cose per sé stesse, o soltanto alla nostra visione delle cose. Ben debbono, per lo contrario, discordare persino dai principi della sperienza coloro, che assoluta sostengono
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la realtà dello spazio e del tempo, sia poi che la ricevano qual sussistente o come soltanto inerente. Perciocché, s’ei si decidono per la sussistenza (e concorrono generalmente in questa parte i fisici matematici), gli è mestieri che nel tempo e nello spazio ammettano due sempiterne, infinite e per sé consistenti chimere (non enti); le quali esistono (senza tuttavia essere alcunché di reale) solo per abbracciare (capire) quanto vi è di positivo. Se poi prendono l’altro partito (quello di alcuni fisici metafisici), e che lo spazio ed il tempo equivalgano per esso loro a’ rapporti fenomenici (di simultaneità o successione), astratti disgiunti dalla sperienza, quantunque, in cotal distacco, non senza confusione rappresentati; allora, per ciò che risguarda le cose positive, bisognerà ch’ei contrastino
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alle dottrine matematiche a priori il loro valore, o per lo meno la certezza apodittica, come quella che non ha luogo a posteriori. E tanto più che, in tale pensamento, i concetti a priori dello spazio e del tempo non sono che prodotti di forza imaginativa; la sorgente dei quali deve accattarsi nella sperienza, perché, dai rapporti quindi astratti, né faccia l’immaginazione alcuna cosa, che per verità comprenderebbe in sé stessa quanto è comune ai detti rapporti, ma che però non può avere luogo, senza le restrizioni, che natura unì e rese intrinseche ai medesimi. Fra i quali due partiti, se quelli del primo guadagnano, in quanto e perciò che rendono libero il campo dei fenomeni agli argomenti matematici, trovano poi molta confusione, appunto per la detta libertà, sì tosto che l’intendimento loro si attenta
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sortire da quel campo. Così guadagnano essi pure i secondi rispetto all’ultimo punto, in quanto cioè le rappresentazioni dello spazio e del tempo non sono loro d’impedimento, se prenda loro vaghezza di giudicare degli oggetti, non come fenomeni, ma solo nelle relazioni loro coll’intelletto. Hanno però il tristo compenso di non potere né ragione rendere sulla possibilità del sapere matematico a priori (mancando loro una visione a priori, che abbia vero valore obbiettivo), né ridurre al sì necessario unissono i principi e le asserzioni loro con quelli della sperienza. Ad ambedue le quali difficoltà è posto riparo nella nostra teorica della vera natura di queste due forme originarie della sensibilità(1).
(1) Non è che apparente la contraddizione, di questa teorica dello spazio e del
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Che l’estetica trascendentale non possa comprendere altro più che i
tempo, col sentimento, che sempre ne attesta di un mondo fuori di noi, come quello nel quale ci muoviamo, ed è da noi diverso ed indipendente. Perciocché l’idea di uno spazio esteriore obbiettivo può essere ugualmente subbiettiva: che anzi chi lo spazio si rappresenta come cosa estrinseca fuori di lui, non può fondarsi che sulla sensibilità subbiettiva, la cui mercé se lo raffigura; e non è cui possa lo spazio apparire sensibilmente obbiettivo per sé medesimo. Ammettendolo tale si cade nel dilemma di due tesi contradditorie, se cioè lo spazio obbiettivo sia cosa positiva o no; le quali offrono difficoltà egualmente inestricabili. Perciocché, affermando, nasce bisogno di un altro spazio, che racchiuda il primo, di un terzo per quell’altro (pure positivo), e così di seguito sino all’infinito. Negando, il mondo corporeo si troverebbe nel nulla, voglio dire in nessuna parte; il che non è meno incomprensibile. Ciò ammettendo inoltre la geometria pura si risolverebbe in una scienza falsa, poiché formata
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due indicati elementi, voglio dire lo spazio ed il tempo, risulta per
e costruita col nulla. Ora mentre il nulla non può misurarsi né costruirsi, come quello che non ha punto attributi, le matematiche sono per ciò appunto possibili, che lo spazio ed il tempo hanno dimensionni, di lunghezza, larghezza e profondità il primo, di successione il secondo, e che tali dimensioni si prestano ad infinite costruzioni. Quindi è che uno dei gran vantaggi di questa teorica dello spazio e del tempo è quello d’indicarne la sorgente degli assiomi sintetici a priori, e di quindi specialmente svelare le cause della possibilità delle matematiche; ciò che non si poteva, considerando, come prima, lo spazio ed il tempo quali esseri ora obbiettivi, ora negativi, o come idee astratte. Fa maraviglia che non saltassero agli occhi degli antichi filosofi le particolarità, che le matematiche sollevano al di sopra delle scienze, non esclusa la metafisica, e non cercassero queglino d’indagarne i motivi. Mentre le matematiche vantavano assoluta certezza negli assiomi, internamento ne’ loro oggetti, carattere
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ciò evidente, che tutti gli altri concetti appartegnenti alla sensibilità, e sin quello del moto (che è quasi come giuntura dei due summentovati), suppongono (e richieggono) qualche cosa di empirico. Il moto infatti presuppone la percezione di
dimostrativo nel metodo, stabilità ed uniformità di linguaggio ec. nulla poteva la metafisica vantare di tutto questo, non ostante che paresse fondata sulla sperienza o sopra idee quindi astratte. Essa non ha mai potuto penetrare il suo oggetto, e neppure trattarne con terminologia uniforme, giacché fu indarno che perciò la prese più volte in prestito dalle matematiche. Tuttavia fu dessa la sola che, fra le scienze empiriche, dubitasse meno della differenza che passa fra il carattere loro e quello delle matematiche. Le ricerche di Kant sullo spazio e sul tempo tolsero tutte queste difficoltà, spiegando pienamente le particolarità, che presentano le matematiche nei rapporti loro colla metafisica e colle altre scienze sperimentali.
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qualche cosa movibile; mentre nulla è mai di movibile nello spazio, considerato in sé stesso. Dunque il movibile nello spazio dev’essere, qualche cosa che la sola sperienza v’incontra, ed è perciò un dato empirico. Per lo stesso argomento non può l’estetica trascendentale annoverare fra’ suoi dati a priori l’idea del cambiamento; ché non è il tempo che cangia, bensì quanto esiste nel tempo: dunque per ciò si richiede la percezione di alcuna cosa che sia, non che della successione di sue modificazioni; in una parola si richiede sperienza.