I
CRITICA ELEMENTARE TRASCENDENTALE
PARTE PRIMA
ESTETICA TRASCENDENTALE
I. Della differenza tra la ragione pura e l'empirica
II. Del possedersi per noi certe cognizioni anteriori ad ogni senso ed esperienza e del non andar mai digiuno di queste neppure il volgare intendimento
III. Del bisogno che ha la filosofia di una scienza che stabilisca la possibilità, i principi ed il complesso di tutte le nozioni preconcepute
IV. Della differenza tra i giudizi analitici ed i sintetici
V. Dei giudizi sintetici a priori, come inerenti a tutte le scienze teoretiche della ragione
VI. Problema universale della ragione pura
VII. Idea e divisione di una scienza particolare, sotto nome di Critica della ragione pura
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I. Prima di tutto sarà necessario dichiarare, con tutta la possibile chiarezza, il mio pensamento sui principi e sulla natura del sapere
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sensitivo (apparato dai sensi) in generale, per quindi ovviare qualunque sinistra interpretazione sul l’argomento.
Ho dunque inteso a dire: che ogni e qualunque nostra visione ad altro non riducesi, tranne alla rappresentazione dei fenomeni; che le cose per noi ravvisate quello non sono, in sé stesse, per cui le ravvisiamo, e né così costituite le relazioni loro per sé medesime, che le ci appaiono; che svanirebbero tutte le qualità, o modificazioni e tutti i rapporti degli oggetti nello spazio e nel tempo, svanirebbero anzi essi pure, tosto che levassimo il nostro soggetto o in generale soltanto la condizione subbiettiva dei sensi; e che non possono le apparizioni esistere in se stesse, ma in noi solamente. Come si comportino gli oggetti, per sé medesimi, e quale ne sia la natura, indipendentemente
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o separati da tutta l’accennata condizione suscettiva della nostra sensibilità, rispetto a loro, è quanto ne rimane affatto sconosciuto(1). Perciocché altro
(1) Pare che l’autore allontani espressa mente un’obbiezione che non può a meno di farsi a questa sua dottrina dello spazio e del tempo, ch’egli chiama estetica trascendentale. L’obbiezione consiste in ciò, che lo spazio, essendo condizione subbiettiva della sensibilità, non sarebbe nulla fuori di noi; e che, dovendo in esso apparire, i corpi apparirebbero in noi stessi e non esisterebbero effettivemente fuori di noi. Kant risponde, i corpi, considerati come cose assolute, non essere diversi ed indipendenti da noi, ed essere, sotto questo rapporto, assolutamente inconcepibile il modo di loro esistenza. E persiste unica mente nell’assoluta necessità di rappresentarceli nello spazio e nel tempo, affinché possano i corpi apparirci (come condizione sine qua non). Quindi è che non sarebbe spiegabile che subbiettivamente, non obbiettivamente
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non conosciamo, fuorché la nostra maniera di percepirli; la qual maniera ci è propria, e deve competere ad ogni uomo, non però necessariamente ad ogni essere. E di questa dobbiamo esclusivamente occuparci. Lo spazio ed il tempo ne costituiscono le forme pure, la sensazione poi ne è la materia in generale.
il modo con che le cose diventano apparizioni o fenomeni. Tale risposta non guarentisce dalla taccia d’idealismo la dottrina di Kant, rimanendo sempre incomprensibile assolutamente l’esistenza delle cose in sé stesse; di maniera che la distinzione stabilita fra l’esistenza e l’apparizione delle cose andrebbesi a risolvere in uno scambio di parole. Se le cose debbono infatti comparire nello spazio, per essere percepite da noi; e se lo spazio è concetto puramente subbiettivo, sarà effetto meramente subbiettivo anche l’apparizione delle cose; il che è quanto non si confà col preteso realismo di questo sistema.
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Non ci è dato di conoscere a priori, prima cioè di ogni percezione positiva, che la sola forma; e perciò la chiamo visione pura. Nel nostro sapere però è la sensazione quella, onde ne viene che la cognizione dicasi assunta (a posteriori), ossia visione empirica. Le forme sono assolutamente e necessariamente inerenti alla nostra facoltà di sentire, qualunque poi sieno le sensazioni; dove queste invece possono essere differenti. Quand’anche ne fosse concesso di spingere la nostra visione al grado massimo dell’evidenza, non ci avvicineremmo però mai con ciò davvantaggio alla natura degli oggetti per sé stessi. Perciocché non faremmo che più compiuta quando mai conseguire contezza della nostra maniera di percepire, voglio dire della nostra sensibilità, e questa sempre sotto le condizioni dello
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spazio e del tempo, come originariamente inerenti al soggetto; non però mai giungeressimo a conoscere cosa possano essere per sé stessi gli oggetti, quand’anche oltremodo chiarissima riescisse l’apparizione dei medesimi, che è pur sempre la sola che ne venga offerta(1).
(1) L’altro non meno (V. la nota alla p. 56) importante vantaggio di questa estetica è l’averci posto in grado di precisamente distinguere il dominio della sensibilità da quello del puro intelletto, mentre si confondevano i confini dell’una e dell’altro. Considerando infatti gli oggetti delle matematiche per concetti astratti, o prodotti del puro intendimento, era impossibile, dopo un errore sì radicale, il ben distinguere gli oggetti dei sensi da quelli della sola ragione. Quindi l’attribuire alla metafisica più assai che non si doveva, lusingandosi di poter conoscere, col puro intelletto, un mondo intelligibile obiettivo, che ha pur sempre, chi ben vi riflette, la sua sorgente nei sensi;
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Il pretendere, pertanto, che tutta la nostra sensibilità consista in una confusa rappresentazione delle cose, comeché tal rappresentazione contenga schiettamente quanto alle medesime per loro stesse compete, però sotto una semplice aggregazione di segni e rappresentazioni parziali, che noi quandomai separiamo e distinguiamo fra loro, senza di ciò essere consapevoli, sarebbe un adulterare le idee della sensibilità e della visione, ed un rendere vuota ed inutile tutta la dottrina delle medesime. È meramente logico il divario che passa fra più o meno chiare o distinte rappresentazioni, e non ha nulla che fare coll’argomento. Certo che il concetto del giusto è sempre lo stesso e, per quanto vi
e quindi le tenebre che sinora coprirono sì la possibilità delle matematiche sì la differenza loro dalla filosofia.
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frughi la più fina speculativa, non avverrà mai che ne cavi più di quanto esso cape nel comune intendimento; solché nell’uso ordinario non si è consapevoli di tutte le moltiplici rappresentazioni del relativo pensiero. Ma non si può dire per questo che l’idea volgare sia sensitiva e contenga una semplice apparizione; giacché il giusto non può minimamente apparire, ma il suo concetto risiede nell’intendimento, e rappresenta, rispetto alle azioni, una qualità (la morale), che loro compete per loro stesse. Il concetto di un corpo, all’opposto, non contiene il gran nulla di quanto potesse competere ad un oggetto per sé medesimo; ma solo contiene l’apparizione di qualche cosa, ed il modo con che dessa ne affetta. E questa suscettività della nostra facoltà di conoscere chiamasi sensibilità, e resta per sempre infinitamente
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diversa dalla nozione dell’oggetto per sé stesso, quando pure al midollo penetrasti coll’occhio i recessi e le viscere del fenomeno.
Quindi è che la filosofia leibniziana e volfiana diede un punto di vista falsissimo alle indagini sulla natura ed origine del nostro sapere; quando considerò come semplicemente logica la differenza tra il sensitivo e l’intellettuale: mentre tal divario è manifestamente trascendentale, e risguarda non solamente la chiarezza e l’oscurità, ma l’origine e la sostanza del sapere medesimo. Così che per mezzo della sensibilità, non solo indistintamente, ma non conosciamo punto gli oggetti; e, tostoché leviamo la nostra qualità subbiettiva, non è più dove trovi, né c’è più verso di trovare né la cosa presentata, né le proprietà che le attribuiva la visione sensitiva; giacché appunto
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la qualità subbiettiva è quella che determina la cosa, come visione(1). Ben distinguo, del resto, nei fenomeni quanto essenzialmente aderisce alla visione dei medesimi e vale per ogni umano senso in generale, da quanto ai fenomeni compete solo accidentalmente, secondo che il valore non risguarda alla sensibilità
(1) La scuola di Leibnizio e di Volfio non ammetteva che una differenza logica fra la sensibilità e l’intelletto, ammettendo in quella diffuso, e chiaro in questo il sapere, senza indicare differenza fra loro specifica rispetto agli oggetti medesimi. Kant, all’opposto, stabilendo nello spazio e nel tempo gli ultimi confini della sensibilità, annovera fra gli oggetti sensibili quanto apparisce nel tempo e nello spazio. Per tal guisa il dominio del puro intelletto viene ad essere ben distinto da quello della sensibilità; e si può con certezza precisare sino a qual punto abbia e non abbia l’intelletto facoltà di conoscere.
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in generale, ma sì puramente ad una particolare situazione od organizzazione di questo o di quel senso. E dico appartenere al primo genere di queste due cognizioni quella che rappresenta l’oggetto per sé stesso, ed appartenere al secondo la sola apparizione del medesimo. Il qual divario però non è che empirico; e, se vi ci arrestiamo (ciò che d’ordinario avviene), senza tuttavia risguardare (come si dovrebbe) quell’empirica visione, qual semplice apparizione come tale cioè, che nulla contiene di quanto mai potess’essere inerente ad una cosa per sé stessa, eccoti svanita ogni nostra differenza trascendentale. Ed è allora che avviserai di tuttavia conoscere le cose per sé; quantunque generalmente, ed anche nelle più profonde investigazioni degli oggetti, non abbiamo già mai con altro che fare (nel
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mondo sensibile), tranne con apparizioni. Così, allorché piove col sole, dicendo l’arco baleno essere una semplice apparizione, diremo nello stesso tempo la pioggia essere la cosa in sé medesima; il che è vero, in quanto comprendiamo solo fisicamente il concetto della pioggia come cosa, così e non altrimenti determinata nella generale sperienza, ed in tutte le diverse posizioni rispetto ai sensi, però nella visione. Che se ciò empirico reputi generalmente, senza farti carico dell’universale consentimento sul fenomeno, e chiedi se rappresenti un oggetto per sé stesso (non già le gocciole d’acqua, perché già sono apparizioni, oggetti empirici), la tua dimanda, sul rapporto della rappresentazione coll’oggetto, è trascendentale; e non solo sono mere apparizioni queste gocciole, ma la forma rotonda delle medesime, anzi
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lo spazio in cui cadono, sono affatto nulla per sé, tranne che modificazioni, o basamenti, per così dire, della nostra visione sensitiva; e ne rimane assolutamente ignoto l’oggetto trascendentale.
La seconda circostanza di rimarco in questa estetica trascendentale si è ch’ella non solo merita favore qual ipotesi appariscente, bensì che tanto è certa ed indubitata, quanto si può mai pretendere da una teorica, la quale debba servire di organo. Onde rendere pienamente chiara la quale certezza, mi farò a scegliere un qualche caso, che, mentre spargerà maggior luce sull’argomento, serva eziandio ad ulteriore dichiarazione di quanto esposi al § 3.
Diamo pertanto essere in sé stessi obbiettivi, e condizioni delle cose per sé, lo spazio ed il tempo, e sarà chiaro in primo luogo emergere
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a priori proposizioni apodittico sintetiche dall’uno e dall’altro, ed in maggior copia specialmente dallo spazio; cui perciò voglio costì particolarmente investigare perché serva di esempio. E poiché gli assiomi della geometria sono riconosciuti per sintetici a priori, e di apodittica certezza, così domando: Donde li cavate simili assiomi, e su di che poggia il nostro intendimento, per giungere a verità di valore sì assolutamente necessario ed universale? Non altra evvi strada, senza dubbio, tranne quella dei concetti o delle visioni, ammendue però come tali, che a priori od a posteriori provengano. Né dai secondi, voglio dire da’ concetti empirici, né da ciò su di ch’ei si fondano (dalla visione empirica) può essere fornita proposizione sintetica, che sperimentale non sia; il perché le proposizioni empiriche non possono mai contenere
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necessità od assoluta universalità, quali costituiscono pur sempre il carattere essenziale di tutte proposizioni geometriche. Per ciò poi che risguarda la prima (e sarebbe quindi l’unica) strada, onde attingere simili cognizioni per via solo di concetti o visioni a priori, egli è manifesto che, solo mediante concetti non è possibile conseguire cognizione sintetica, bensì e solamente analitica. Prendete pure la proposizione, che due linee rette non possono inchiudere spazio di sorta, e non quindi costruirsi figure; e fate pure di tutto per vedere se vi riesce derivarla dall’idea delle linee rette, e da quella del numero due. Oppure prendete quest’altra, che, per mezzo di tre linee rette, sia possibile costruire una figura; e cercate ugualmente, se vi da l’animo di cavarla da questi concetti. Tutte le vostre indagini e cure saranno
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inutili; e vi sarà giuoco forza ricorrere ad una visione, come usa pur sempre la geometria. Voi dunque vi procurate un oggetto nella visione: ma di quale specie sarà essa quella cui avrete ricorso? forse una pura visione a priori, od una visione empirica? Se fosse l’empirica, certo che non potrebbe venirne giammai una proposizione universale, molto meno una proposizione apodittica; perciocché non c’è verso che la sperienza ne somministri. Dunque dovete l’oggetto vostro procurarvi a priori nella visione, e fondar quindi su questo la vostra proposizione sintetica. Date mo che non fosse in voi la facoltà di vedere a priori; date inoltre che tal condizione subbiettiva, in quanto alla forma, non fosse nello stesso tempo la condizione universale a priori, sotto la quale unicamente può darsi l’oggetto di questa (esterna)
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visione; date finalmente che l’oggetto (p. e. il triangolo) fosse qualche cosa per sé stesso, e senza risguardo al vostro soggetto: come potreste dire, in tutti questi casi, che quanto è necessariamente inerente alla vostra condizione subbiettiva, onde costruire un triangolo, debba di uguale necessità competere od essere inerente allo stesso triangolo? Giacché ai vostri concetti (di tre linee) nulla potete aggiungere di nuovo (la figura), che dovesse perciò appunto incontrarsi e necessariamente nell’oggetto, se questo stesso è somministrato prima, e non già per mezzo, della vostra cognizione(1). Or dunque se lo spazio (e così pure il tempo) fosse una mera forma della nostra visione, che a priori contiene
(1) Vedi le note alle pagine 56. e 65.
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le condizioni, date le quali solamente possono essere oggetti per noi esteriori le cose, che nulla sono in sé medesime, senza questa condizione subbiettiva, non potremmo a priori e sinteticamente stabilire il gran niente intorno agli oggetti. Egli è pertanto non solamente possibile od anche verisimile, ma certo a non poterne dubitare, che, nella qualità loro di condizioni necessarie ad ogni (esterna ed interna) sperienza, lo spazio ed il tempo sono condizioni semplicemente subbiettive di qualunque nostra visione. Ed è quindi egualmente provato, rapporto alle medesime condizioni, tutti gli oggetti essere mere apparizioni e non già cose date in questo senso per sé stesse. E potranno dirsi assai cose di loro a priori, per ciò che ne risguarda la forma; non potrà però mai dirsi un ette, intorno agli oggetti per sé medesimi,
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che sia di fondamento alle relative apparizioni.
II. A conferma di tale teorica sulla idealità del senso, tanto esterno quanto interno, e perciò di tutti gli oggetti dei sensi, come semplici apparizioni, serve specialmente l’osservazione, che tutto quanto nel nostro sapere appartiene al senso (eccettuati pertanto i sentimenti del piacere o del disgusto e la volontà, i quali non appartengono punto alle cognizioni) altro non contiene, tranne solamente i rapporti di luogo nella visione (estensione), quelli del cambiamento di luogo (moto), e le leggi determinanti questo cambiamento (forze moventi). Non viene però quindi presentato né quanto nel luogo è presente, né quanto accade nella cosa medesima, oltre il cangiamento di luogo. Ora, se i soli rapporti non bastano far sì che una cosa
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venga conosciuta in sé stessa; e se altro non ci offre il senso esterno, tranne le sole rappresentazioni dei rapporti, gli è pur giuoco forza conchiudere, che il detto senso non può capire, nella sua rappresentazione, che il rapporto di oggetto a soggetto, e non ciò che intimamente all’oggetto compete. Lo stesso è della visione interna: ove non solamente le rappresentazioni dei sensi esteriori costituiscono la materia propria, onde forniamo suppellettile all’animo; ma il tempo, nel quale sono da noi riposte quelle rappresentazioni, il tempo, che nella sperienza precede la stessa coscienza delle medesime, il tempo, finalmente, su cui è fondato, come su condizione formale, il modo con che le collochiamo nell’animo, contiene già i rapporti di successione, di simultaneità, e di ciò che dalla successione risulta (la perseveranza).
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Ora ciò, che solo può precedere, come rappresentazione a qualunque atto di pensare qualche pur siasi cosa, è la visione; e, se questa non cape che rapporti, né alcunché mi rappresenta, se non in quanto è da noi collocata qualche cosa nell’animo, altro non può essere la forma della visione, fuorché il modo, con che viene l’animo affetto per propria attività, nel collocare, cioè, per sé stesso la sua rappresentazione; dunque non può essere che un senso interno secondo la sua forma. Tutto ciò che viene rappresentato per mezzo di un senso è sempre, fin qui, apparizione; onde o che non sarebbe, da perciò accordarsi punto un senso interno, o non potrebbe il soggetto che ne costituisce l’oggetto essere altri menti per tal senso rappresentato, eccetto come apparizione, non per chi giudicasse tal cosa di sé medesimo,
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comeché la sua visione fosse attività propria, voglio dire intellettuale. Tutta la difficoltà consiste in persuadersi come possa il soggetto ravvisare internamente sé stesso; e tal difficoltà è comune a quante sono le teoriche sull’argomento. L’appercezione; o coscienza di sé medesimo, consiste nella semplice rappresentazione dell’io; è se con ciò solo venisse rappresentato, per attività propria, quanto vi è di vario e moltiplice nel soggetto, in tal caso l’interna visione sarebbe intellettuale. Nell’uomo tal coscienza richiede l’interna percezione di quanto è già di vario e moltiplice nel soggetto, ed il modo con che ciò presentasi all’animo, senza di lui spontaneità, deve appunto per tale differenza, chiamarsi sensibilità(1). Che
(1) La sensibilità, considerata in sé stessa, non può che riunire il moltiplice dato
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se la facoltà di essere a sé conscio deve incettare (apprendere) quanto è
nell’intuizione, recandolo per così dire nella coscienza. Ma non può essa rappresentare questo moltiplice, come immagine unica, limitandosi alla semplice affezione immediata ed all’attuale prodotto dagli oggetti, senza che le sia possibile richiamare antiche immagini. Quest’effetto è l’opera dell’immaginazione che, sebbene compresa nella sensibilità, come dissi (not. alla p. 7.), tuttavia costituisce una facoltà speciale, la cui funzione si distingue in pura ed empirica. L’empirica è quella che le immagini degli oggetti riproduce in mancanza dei medesimi, ed è nell’esercizio di questa funzione, che l’immaginazione appartiene alla sensibilità.
L’atto della coscienza è quello che, combinandosi colla sensazione, la converte o trasforma in percezione. Il che avverto affine di prevenire quell’atto in sé stesso chiamarsi appercezione da Kant, che lo fa consistere nello scernere quanto è percepito, dal soggetto che percepisce; come la chiarezza della percezione fa egli consistere nella coscienza che sappia o basti distinguerla da un’altra.
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nell’animo, bisogna ch’ella sé stessa affetti; né altra evvi maniera per cui produrre o conseguire la visione di sé medesimo. La costei forma però, come tale che già prima risiede, qual fondamento, nell’animo, è quella che, nella rappresentazione del tempo, determina il modo, con che nell’animo si combina quanto vi è di vario e moltiplice. Perciocché la mente scorge sé stessa, non come la si dovrebbe rappresentare spontanea, o per attitudine propria immediata, ma secondo e nel modo che viene intimamente affetta, e per conseguenza tal quale apparisce a sé medesima, non qual è in effetto.
III. Allorché dico nel tempo e nello spazio rappresentarsi la visione sì degli oggetti esterni che dell’appercezione propria dell’animo, l’uno e l’altra nel modo con che affettano i nostri sensi, come cioè appariscono,
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non intendo già tali oggetti essere mere apparenze. Con ciò sia che, nell’apparizione, gli oggetti, anzi le stesse qualità che noi attribuiamo ad essoloro, deggiono risguardarsi, mai sempre come alcunché di positivo e reale; solché, per quel tanto, in che le dette qualità dipendono solo dalla maniera di vedere del soggetto, nella relazione di quel dato oggetto con essolui, deve in tale oggetto distinguersi l’oggetto per sé stesso dalla di lui apparizione. Non dico, pertanto che i corpi sembrino soltanto esistere fuori di me, o che l’animo mio non esista che in apparenza nella coscienza di me stesso, allorché sostengo che la qualità dello spazio e del tempo (in ragione della quale, come condizione dell’esistenza loro, ammetto l’uno e l’altro) non risiede sin questi oggetti, ma nella mia maniera di vedere
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(intuizione): quando sarebbe mio proprio difetto, se facessi un fantasma di ciò che dovrei avere in conto di fenomeno(*). Ma ciò
(1) I predicati delle apparizioni possono essere attribuiti allo stesso oggetto, corrispondentemente al nostro senso, come sarebbero il color cremesi o l’odore della rosa; dove l’apparenza non può mai essere all’oggetto attribuita come predicato, appunto perciò che dessa aggiunge od applica al medesimo oggetto quanto non gli compete, che in relazione coi sensi o col soggetto in generale, come sarebbero i due manichi attribuiti sulle prime a Saturno. Ciò che non può nullamente incontrarsi nell’oggetto per sé stesso, bensì è sempre nella di lui relazione col soggetto, ed è nello stesso tempo inseparabile dal primo, quello è apparizione; il perché i predicati dello spazio e del tempo vengono giustamente attribuiti agli oggetti dei sensi come tali: e qui non v’è apparenza chimerica. Quando per lo contrario attribuisco alla rosa per sé stessa il rossore, le anse a Saturno, o l’estensione
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non accade, stando al mio principio d’idealità di tutte le nostre visioni sensitive; che anzi, gli è appunto attribuendo a quelle forme di rappresentazione realtà obbiettiva, che non potrebbe scansarsi perché tutto quindi si trasformasse in mere apparenze. Se infatti consideri lo spazio ed il tempo come qualità che, data la possibilità loro, debbano incontrarsi per sé nelle cose, e se rifletti agli assurdi nei quali ti andresti quindi avviluppando, poiché due cose infinite che non sono sostanze, né alcunché di positivamente inerente alle sostanze, debbono però essere alcunché di esistente, anzi la condizione indispensabile
per sé ad altri oggetti, senza badare né ad un determinato rapporto di questi col soggetto, né a limitare su questo rapporto il mio giudizio, gli è allora che nascono fantasimi ed apparenze.
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dell’esistenza di tutte, cosicché sopravviverebbono, quand’anche si giungesse ad abolir quanto esiste; se a tutto ciò rifletti diceva, ben ti parrà escusabile quel buon uomo di Barkley, per quando avvisava degradare i corpi allo stato di mere apparenze. Aggiungi che, venendo quindi assoggettata alla per sé consistente realtà di un nonnulla qual è il tempo, anche la propria nostra esistenza risolverebbesi son esso in un’apparenza chimerica; del quale assurdo non è sinora chi si facesse altrui mallevadore.
IV. Nella teologia naturale, dove si pensa un oggetto, che non solo non è punto oggetto di visione noi, ma che non può essere minimamente oggetto di visione sensitiva neppure a sé stesso, è somma la cura cui si pone, onde allontanare le condizioni dello spazio e del tempo da ogni qualsivoglia di
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lui visione (giacché tutto quanto il sapere proprio di tale oggetto deve essere visione e non pensiero, come quello che indica sempre limiti e cancelli). Ma con qual dritto si potrà o come ciò fare, dopo avere stabilito lo spazio ed il tempo essere forme delle cose per sé, e forme tali che, nella qualità loro di condizioni generali della esistenza delle cose a priori, continuerebbero ad esistere, quand’anche si sopprimessero tutte le cose? imperocché nella detta qualità il tempo e lo spazio dovrebbero essere condizioni anche dell’esistenza di Dio. Se non li ammetti pertanto quali forme obbiettive di quante sono le cose, altro non ti rimane che di ammetterli e ritenerli come forme subbiettive della nostra maniera di vedere tanto esterna quanto, interna. E tal forma chiamasi appunto per ciò sensitiva che la non è originaria,
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non è tale cioè, che offra per sé stessa l’esistenza degli oggetti alla visione (la qual forma non potrebbe competere, per quanto ne pare, che alla causa prima od al primo fra gli esseri); ma è possibile, come dipendente dalla esistenza dell’oggetto, e perciò solo in quanto potrà essa la suscettività rappresentativa del soggetto affettare.
Non è poi necessità perché limitiamo alla sensibilità dell’uomo la maniera di vedere (intuizione) nello spazio e nel tempo. Sia pure che debba in ciò come l’uomo comportarsi ogni essere pensante, finito (quantunque su di ciò non possiamo decidere), non però toglie questa universalità nel di lei valore, perché ai sensi appartenga la detta maniera. Ed è anzi perciò sensitiva che derivata (intuitus derivativus) e non originaria, quindi non visione intellettuale; non tale cioè
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quale, per le addotte ragioni, parrebbe devoluta soltanto all’ente primo, anzi che mai competere ad esseri subalterni e dipendenti, rispetto sì alla propria esistenza, che alla propria visione (che la esistenza loro determina in relazione con oggetti ugualmente già dati). La qual ultima osservazione vuol essere annoverata fra le illustrazioni, anzi che fra gli argomenti fondamentali di questa teorica estetica.