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Indice

[Dedica]

Prefazione dell’Editore

Introduzione di Hufeland

Lettera di Kant a Hufeland

Fondamento della Dietetica

Dell’ipocondria

Del sonno

Del Mangiare e del Bere

Degli effetti morbosi del pensare fuori del tempo debito

Influenza del volere per prevenire e sopprimere gli accidenti morbosi derivanti dalla respirazione

Conseguenze dell’abitudine di respirare a labbra chiuse

Funzione del Pensiero

FUNZIONE DEL PENSIERO 

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Gli accidenti morbosi, la cui sensazione può essere dall’animo umano padroneggiata mediante il fermo volere (facoltà suprema dell’animale razionale) sono tutti di natura spasmodica. Però non si può asserire che tutti gli accidenti di tal natura si possano frenare e sopprimere mediante il solo fermo volere. Anzi, per alcuni di essi il tentar di dominarli colla 

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volontà serve invece ad aumentare lo spasimo, tale è il caso della mia malattia descritta un anno fa nella Gazzetta di Copenhaghen, sotto la qualifica «catarro epidemico congiunto a pesantezza del capo» malattia che mi affligge da più d’un anno. Essa mi disorganizza in certo qual modo il lavorio del pensare, o per lo meno indusse in me fiacchezza ed attività, unendo la pesantezza del lavoro alla debolezza naturale dell’età. Questa condizione non finirà probabilmente che colla vita.

La morbosa mia costituzione associata al pensare la rende malagevole, poiché consistendo esso nel fissare il concetto (riunire le immagini nell’unità della coscienza) eccita spasimo nell’organo pesante (cervello) a guisa d’una pressione esercitatavi sopra. E non già che si oscuri la percezione o la riflessione, o venga indebolita la memoria

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per la esposizione (orale o scritta); ma il cervello subisce un involontario spasimo nel combattere le distrazioni per tener fermo il nesso dell’idee e svolgerne gradatamente ogni deduzione. Si deve quindi arguirne che sia lesa la capacità di mantenere l’unità della coscienza durante il cambiamento delle immagini che si svolgono successivamente.

Siccome in un discorso bisogna conciliarsi e sostenere l’attenzione dell’uditore o del lettore, mostrandogli il punto dove si vuole condurlo, e insieme tenendogli sempre presente quello da cui si è partiti (indicazioni senza le quali non esiste nesso nel discorso) così a me avviene, che volendo tenerle congiunte, mi trovo invece sovente costretto a chiedere al mio interlocutore, oppure tacitamente a me stesso; dove voglio riuscire? Da che cosa sono partito?

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Questo indica non soltanto deficienza d’intelletto o di memoria, ma di quella presenza di spirito, che malgrado una distrazione involontaria sa riafferrare il filo del discorso, cosa sommamente difficile. Negli scritti filosofici si può talvolta  scemare questa difficoltà, non importando sempre di tener presente il punto di partenza, ma in nessun modo si può riuscire a interamente eliminarla.

Diverso è il caso del matematico, il quale si pone dinanzi i suoi concetti o i rappresentanti dei medesimi (segni e numeri) e possiede la certezza che tutto è giusto fino al punto in cui giunse. Non così avviene pel filosofo, specialmente riguardo alla filosofia pura (logica e metafisica) il quale deve in certo modo tenersi l’oggetto sospeso dinanzi e ad ogni momento esaminarlo e rappresentarselo ora diviso nelle sue parti,

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sia nel suo insieme, sia nella serie da esso occupato nel sistema complessivo.

Quindi non è meraviglia se un metafìsico consuma le forze vitali prima dei cultori di qualsiasi altro ramo dello scibile. Dicendo metafisico si intende qualunque filosofo, di professione, e non già quelli fra essi che si dedicano esclusivamente alla metafisica, poiché senza di questa non v’è filosofia.

Così viene spiegato come taluno possa relativamente alla sua età chiamarsi sano, mentre relativamente ai suoi compiti sociali deve essere inscritto nella lista degli invalidi. Siccome l’incapacità impedisce l’uso della facoltà, e con esso il consumo e l’esaurimento della forza vitale, si resta conseguentemente condannati all’inerzia, e retrocessi alla condizione d’esseri vegetanti, che mangiano, bevono, vestono, dormono, e nulla più. Un tale uomo,

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riguardo all’esistenza animale, può dirsi sano, ma riguardo a quella sociale è infermo.

Ecco dunque che l’arte di prolungare la vita ha per effetto di condurci alla poco ridente prospettiva di farsi tollerare fra i vivi(6). Ma di ciò la colpa è mia. Perché rifiuto io di far posto alla generazione che viene crescendo, e mi vado spizzicando i materiali godimenti della vita, pur di accrescere il numero de’ miei giorni! Perché tante cure per prolungare una esausta esistenza, e contraddire col mio esempio alle statistiche della mortalità, nelle quali per la media probabile della vita si tiene calcolo degli organismi più deboli? Il fermo volere non viene ad essere che il proposito d’assoggettare quella forza che volgarmente chiamasi destino; a cui tutti sogliono piegarsi rassegnati. Reputo però difficilissimo il conseguire che il fermo volere sia generalmente adottato come regola dietetica; cioè dubito che la ragione riesca mai ad esercitare una diretta efficacia curativa, e minacci il regno delle formole terapeutiche. 

(6) Questa conclusione per quanto poco consolante è rigorosamente giusta se applicata all’idea che ci facciamo dell’uomo perfetto. Ma lo stesso esempio dell’onorevole autore prova quanto giovamento l’uomo nella sua vecchiaia possa ancora arrecare, allorché la ragione ne è sempre stata la suprema guida. Ammettendo tuttavia che questa oggettiva e sociale esistenza venga del tutto a mancare, forse che non ci sono anche sacre e preziose le ruine d’un bello e grande edificio? Non ci attestano esse il passato, non ci additano l’avvenire, non ci servono d’insegnamento e di esempio? 

HUFELAND

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