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Principale perfezione della conoscenza, anzi condizione essenziale ed inseparabile d’ogni sua perfezione, è la verità. La verità, dicesi, consiste nell’accordo della conoscenza con l’oggetto. In conseguenza di questa semplice spiegazione di
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vocabolo, la mia conoscenza perciò, ad esser vera, deve accordare con l’oggetto. Or io posso paragonare l’oggetto solamente con la mia conoscenza, perché con essa io lo conosco. La mia conoscenza deve perciò convalidare sé stessa, il che poi non è ancora bastante alla verità. Perciocché, essendo qui l’oggetto fuor di me, e la conoscenza in me, io non posso sempre giudicare che di questo: se cioè la mia conoscenza dell’oggetto si accordi con la mia conoscenza dell’oggetto. Un tal circolo nel chiarire una cosa appellavasi diallele dagli antichi. E infatti di cotesto mancamento i logici sono stati sempre accusati dagli scettici; i quali osservavano che con quella definizione della verità si procede appunto come uno che faccia innanzi alla giustizia una deposizione, e poi la fondi su di un testimone, cui nessuno conosce, e che vuole farsi credere degno di fede, dicendo che sia uomo onesto colui che l’ha chiamato in testimonio. L’accusa fu del tutto fondata: solamente la soluzione dell’anzidetta quistione è assolutamente e per tutti gli uomini impossibile. Val quanto dire, egli qui si dimanda: se ci abbia, e a che si estenda, un criterio di verità, sicuro, generale e applicabile. Perciocché questo deve significare la dimanda: che cosa è verità?
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A poter isciogliere questa importante quistione, ci è uopo ben distinguere ciò che nella nostra conoscenza appartiene alla sua materia e riferiscesi all’oggetto, da ciò che riguarda la semplice forma, come condizione, senza la quale una conoscenza in genere non sarebbe affatto possibile. Avendo riguardo a questa differenza tra la relazione obbiettiva o materiale e la subbiettiva o formale, nella nostra conoscenza, la suddetta quistione si scioglie in due particolari:
1. ci ha egli un criterio generale materiale di verità?
2. ci ha egli un criterio generale formale di essa?
Un criterio generale materiale della verità non è possibile; anzi egli è in sé stesso contradittorio. Perciocché come criterio generale valevole per tutti gli oggetti in generale, dovrebbe fare del tutto astrazione da ogni loro differenza, e non per tanto, come criterio materiale, dovrebbe pur anche condurre a questa differenza, per poter determinare, se una conoscenza a dirittura s’accordi con l’oggetto al quale è riferita, e non con un oggetto qualunque in generale (con che nulla affatto si direbbe propriamente). In questo accordo di una conoscenza con quello
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oggetto determinato, al quale si riferisce, deve poi consistere la verità materiale. Perché, una conoscenza, che in riguardo ad un oggetto è vera, può esser falsa rispetto ad un altro. Egli è perciò assurdo chiedere un criterio generale materiale della verità, il quale debba ad un tempo fare e non fare astrazione da ogni differenza di obbietti.
Che se poi la dimanda è per criteri generali formali, allora la soluzione è facile, potendosi dare assolutamente di simili criteri. Perciocché la verità formale consiste semplicemente nell’accordo della conoscenza con sé stessa, facendo astrazione da tutti quanti gli oggetti, e da ogni loro differenza. E però i criteri generali formali della verità altro non sono che segni generali logici dell’accordo della conoscenza con se stessa, ovvero, ciò che torna lo stesso, con le leggi generali dell’intelletto e della ragione. Cotesti criteri formali generali sono, a dir vero, insufficienti per la verità obbiettiva, ma essi tuttavia si han da riguardare come la loro conditio sine qua non. Perciocché alla dimanda, se la conoscenza si accordi con l’oggetto, deve andare innanzi la dimanda, se ella si accordi con sé stessa (secondo la forma). E ciò si appartiene alla logica.
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I criteri formali della verità nella logica sono:
1. il principio di contradizione,
2. il principio della ragione sufficiente.
Pel primo si determina la possibilità logica, pel secondo la realtà logica della conoscenza. Val quanto dire, alla verità logica di una conoscenza appartiene: primo, che sia logicamente possibile, cioè non sia contradittoria. Senonché questo carattere della verità logica interna è puramente negativo; perciocché una conoscenza che si contradice è, per verità, falsa; ma, non contradicendosi, non è sempre vera. Secondo, che sia logicamente fondata, cioè che abbia ragioni, e che non abbia false conseguenze. Questo secondo criterio della verità logica esterna o della razionabilità della conoscenza, riguardante la sua connessione logica con le ragioni e con le conseguenze, è positivo. E valgono qui le seguenti regole:
1. Dalla verità della conseguenza si può conchiudere, ma solo negativamente, la verità della conoscenza come principio: se da una conoscenza segue una falsità, la conoscenza stessa è falsa. Perciocché se il principio fosse vero, ancora la conseguenza dovrebbe esser vera, per la ragione che la conseguenza è determinata pel principio. Ma non viceversa: se da una conoscenza non
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deriva alcuna falsa conseguenza, essa è vera; perciocché si può da un falso principio derivare conseguenze vere.
2. Se tutte le conseguenze di una conoscenza sono vere, la conoscenza è ancora vera. Perocché, se qualche cosa di falso fosse nella conoscenza, dovrebbe aver luogo ancora qualche falsa conseguenza.
Dalla conseguenza si può conchiudere un principio, ma senza poterlo determinare. Solamente dall’insieme di tutte le conseguenze si può solo conchiudere un determinato principio esser vero.
La prima maniera di conchiudere, secondo la quale la conseguenza può essere solamente sufficiente criterio negativo ed indiretto della verità della conoscenza, si appella nella logica maniera apagogica (modus tollens). Questo procedimento di cui vien fatto uso frequente nella geometria, ha il vantaggio che io posso derivare da una conoscenza solamente una falsa conseguenza, per dimostrare la sua falsità. A chiarire p. e. che la terra non sia piana, io posso, senza recare innanzi ragioni positive e dirette, conchiudere solo apagogicamente e indirettamente a questo modo: se la terra fosse piana, la stella polare dovrebbe essere sempre ugualmente alta; ma ciò non accade; dunque essa non è piana. Nell’altra
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maniera di ragionare, positiva e diretta (modus ponens), s’incontra la difficoltà, che non si può conoscere apoditticamente la totalità delle conseguenze, e però, per la menzionata maniera di conchiudere, si è condotti ad una conoscenza verosimile ed ipoteticamente vera (ipotesi), giusta la supposizione che, laddove molte conseguenze sieno vere, possano ancora esser vere le rimanenti.
Potremo adunque qui stabilire tre principii, come criteri generali e puramente formali o logici della verità, e sono:
1. il principio di contradizione e d’identità (principium contradictionis et identitatis), onde si determina pei giudizi problematici la possibilità interna di una conoscenza;
2. il principio della ragione sufficiente (principium rationis sufficientis), dove si fonda la realtà logica di una conoscenza, e pel quale si determina, come materia di giudizi assertorii, che essa sia fondata;
3. il principio del mezzo escluso (principium exclusi medii inter duo contradictoria), dove si fonda la necessità (logica) di una conoscenza; e pel quale si determina, per i giudizi apodittici, che si debba giudicare necessariamente così e non altrimenti, che cioè l’opposto sia falso.
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L’opposto della verità è la falsità, la quale, in quanto è tenuta per verità, appellasi errore. Un giudizio erroneo (perciocché l’errore come la verità è solamente nei giudizi) è perciò tale che è confonde l’apparenza della verità con la verità.
Come la verità sia possibile, è cosa facile a vedere, essendo che l’intelletto quivi procede secondo le sue leggi essenziali. Ma come sia possibile l’errore nel senso formale del vocabolo, cioè come forma del pensiero, contrario all’intelletto, egli è difficile comprendere; a quel modo che non si può in generale comprendere come mai una forza debba allontanarsi dalle sue proprie leggi essenziali. Quindi non possiamo nell’intelletto stesso e nelle sue leggi essenziali ricercare la cagione degli errori, più che non la possiamo nei limiti dell’intelletto, nei quali ha luogo, a dir vero, la cagione dell’ignoranza, ma non affatto quella dell’errore. Or, se noi non avessimo altra potenza conoscitiva che l’intelletto, non erreremmo mai. Ma oltre l’intelletto è ancora in noi un’altra sorgente indispensabile di conoscenze, cioè la sensitiva, la quale ci porge la materia del pensiero, e governasi con leggi ben diverse da quelle dell'intelletto. Ma né pure dalla sensitiva, riguardata in sé e per sé, può derivare l’errore, perciocché i sensi non
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giudicano affatto. La cagione di tutti gli errori è perciò unica, ed è mestieri ripeterli unicamente dall’occulta azione della sensitiva su l’intelletto, o, a dire più esattamente, sul giudizio. Cotesta azione cioè fa, che noi nel giudicare teniamo per obbiettive ragioni meramente subbiettive, e conseguentemente prendiamo la pura apparenza della verità per la verità istessa. Perocché in ciò appunto consiste l’essenza dell’apparenza, che per questo è da riguardare come cagione, nel tenere cioè per vera una falsa conoscenza. Quel che rende possibile l’errore, è dunque l’apparenza; per la quale nel giudizio si scambia il puro subbiettivo con l’obbiettivo.
In certo senso si può ben anche l’intelletto far cagione di errori, in quanto cioè per mancanza della richiesta attenzione all’azione della sensitiva si lascia sviare dall’apparenza che ne deriva, a tenere per obbiettiva una ragione meramente subbiettiva che determina il giudizio, o pure far valere per vero secondo le sue proprie leggi, ciò che è vero solamente secondo le leggi della sensitiva.
Adunque, dell’ignoranza abbiamo ad incolpare i limiti dell’intelletto; dell’errore, noi stessi. La natura ci ha negato, a dir vero, la notizia di molte cose, sopra un gran numero ci
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lascia in una ignoranza invincibile, ma ella non per tanto non è cagione dell’errore. A questo ci mena la nostra inclinazione di giudicare e decidere, anche quando, a cagione de’ nostri limiti, non lo possiamo.
Senonché ogni errore, nel quale l’intelletto umano può cadere, è solo parziale, e in ogni giudizio erroneo deve sempre trovarsi qualche cosa di vero. Perciocché un errore totale sarebbe una totale opposizione alle leggi dell’intelletto e della ragione. Come potrebbe un tale errore derivare in qualche maniera dall’intelletto, e non per tanto valere, in quanto è giudizio, come un prodotto dell’intelletto?
Per rispetto al vero e all’erroneo nella nostra conoscenza distinguiamo una conoscenza esatta da una conoscenza vaga: esatta è la conoscenza, se corrisponde al suo oggetto, ovvero, se in riguardo al suo oggetto non ha luogo il minimo errore; vaga, se vi possono essere errori, senza esservi punto impedimenti pel fine. Questa distinzione riguarda la determinazione più larga o più stretta della nostra conoscenza (cognitio late vel stricte determinata). A principio, talvolta, è uopo determinare una conoscenza in una larga sfera (late determinare),
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specialmente nelle cose storiche. Ma nelle conoscenze razionali deve essere tutto strettamente (stricte) determinato. Nella determinazione larga dicesi che una conoscenza sia determinata praeter, propter. Egli dipende sempre dal fine di una conoscenza, se debba essere determinata rigorosamente o con larghezza. La determinazione larga lascia sempre luogo all’errore, il quale però può avere i suoi confini determinati. Ha luogo specialmente l’errore, laddove si prende una determinazione larga in vece di una stretta; p. e. nelle cose di moralità, dove tutto deve essere strettamente determinato. Coloro che ciò non fanno, sono appellati latitudinari dagl’Inglesi.
Dalla esattezza, come perfezione obbiettiva della conoscenza (quando la conoscenza conviene per fettamente con l’obbietto), si può ancora distinguere la sottigliezza come perfezione subbiettiva di essa. La conoscenza di una cosa è sottile, se vi si discopre ciò che suole sfuggire all’altrui attenzione. Il che richiede perciò un grado più alto di attenzione e un maggior dispendio di forza intellettiva. Molti biasimano ogni sottigliezza, dacché essi non vi possono giungere. Ma ella in se stessa fa sempre onore all'intelletto, ed è, anzi, degna di lode e necessaria, doveché sia adoperata ad osservare oggetto
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importante. Che se poi con poca attenzione e con poco sforzo dell’intelletto si possa raggiungere il fine, e ciò non ostante vi s’impieghi di più, si fa dispendio inutile e si cade in sottigliezze che sono, a dir vero, difficili, ma di niuna utilità (nugae difficiles).
Siccome all’esatto è opposto il vago, così al sottile il grosso.
Dalla natura dell’errore, nel cui concetto è compresa, come abbiamo osservato, oltre la falsità, ancora l’apparenza della verità, come carattere essenziale, segue per la verità della nostra conoscenza la seguente regola importante.
Ad evitare gli errori (né ci ha errore inevitabile, al meno assolutamente o semplicemente, sebbene possa essere relativamente per quei casi, quando ci è inevitabile il giudicare, anche a rischio di cader in errore) ad evitare, dico, gli errori, è uopo cercare di scoprire e chiarire la loro fonte, l’apparenza: ciò che pochissimi filosofi poi han fatto. Essi han cercato solamente di confutarli, senza scoprire l’apparenza dalla quale derivano. Lo scoprire e dileguare l’apparenza è poi un servigio per la verità assai maggiore che non la confutazione diretta istessa degli errori, con la quale non si può turarne
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la sorgente, e impedire che l’apparenza (perocché non la si conosce) in altri casi meni nuovamente ad errori. Essendo pur convinti di aver errato, ci rimangono aacora degli scrupoli, per poco che, a giustificarli, possiamo arrecare, nel caso che l’apparenza, che giace a fondamento del nostro errore, non sia dileguata. Inoltre, spiegando l’apparenza, si rende ancora a chi erra una specie di giustizia: perciocché niuno concederà di aver errato senza qualche apparenza di verità, la quale avrebbe forse potuto ingannare anche uno più perspicace, per questo che in ciò si dipende da ragioni subbiettive.
Un errore ove l’apparenza è evidente al comune intendimento (sensus communis), appellasi sciocchezza, o assurdità. Il rimprovero dell’assurdità è sempre un difetto personale che bisogna evitare, specialmente nella confutazione de gli errori. Perciocché a colui che afferma un’assurdità non è pur discoperta l’apparenza che giace a fondamento della falsità manifesta: è uopo prima discoprirgliela. Che se, ciò non ostante, egli ancora perseveri in essa, è certamente insulso; e con lui non c’è da far niente più, essendosi con ciò fatto incapace non meno che indegno di ogni altra correzione e confutazione. A niuno, per fermo, si può propriamente
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dimostrare che egli sia assurdo, riuscendo a vuoto ogni sottil ragionamento. Dimostrandosi l’assurdità, ei non si parla più con uom che erra, ma con uomo assennato. Allora poi non è necessario discoprire l’assurdità (deductio ad absurdum).
Errore sciocco si può appellare ancora quello a cui niente, né pura l’apparenza, serve di scusa; siccome grossolano è quell’errore che dimostra ignoranza di conoscenza comune, o mancanza di attenzione comune.
L’errore nei principii è più grande che nella loro applicazione.
Un segno esterno, o una esterna pietra di paragone della verità, è il paragonare i nostri propri giudizi con gli altrui, perciocché il subbiettivo non essendo della stessa maniera per tutti gli altri, si può con tal mezzo chiarire l’apparenza. Quindi il disaccordo degli altrui giudizi coi nostri è come un segno esterno di errore, e ci accenna a riguardare e ricercare il nostro procedimento nel giudizio, ma non già a rigettarlo per questo: perciocché si può, non ostante il disaccordo, aver forse ragione nella cosa, e sol torto nella maniera, cioè nella esposizione.
Il senso comune degli uomini (sensus communis) è ancora in sé stesso una pietra di
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paragone per iscoprire l’errore nell’uso artificiale dell’intelletto; vale a dire, è raccapezzarsi(a), mediante il senso comune, nel pensiero o nell’uso speculativo della ragione, quando esso si adopera come prova per giudicare la legittimità dell’intelletto speculativo.
Le regole generali e le condizioni per cansare l’errore sono queste: pensare da sé, pensarsi nel luogo di un altro, e pensare sempre concordemente con sé stesso. La massima di pensare da sé si può appellare maniera chiara di pensare; l’altra di collocarsi, pensando, nel punto di vista altrui, maniera estesa; e quella di
(a) Kant in una sua dissertazione che ha per titolo: Was heisst: sich im Denken orientiren? che cosa vuol dire: raccapezzarsi nel pensiero? chiarendo questo stesso con maggior larghezza e generalità, dice essere «un fermarsi nella credenza, essendovi insufficienti principii obbiettivi della ragione, per un principio subbiettivo di essa»: Sich im Denken überhaupt orientiren, heisst also: sich, bei der Unzulänglichkeit der obiectiven Principien der Vernunft, im Fürwahrhalten nach einem subiectiven Princip derselben bestimmen.
Kant’s sämmtliche Werke herausgegeben von G. Hartenstein, vierter Band, S. 342.
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pensare sempre concordemente con sé stesso, maniera conseguente o stringente.