DELL’ANALITICA DEI PRINCIPI
APPENDICE ALL’ANALITICA DEI PRINCIPI
Analitica trascendentale
Della dottrina trascendentale della facoltà di giudicare
Cap. III - Del fondamento della distinzione di quanti sono generalmente
gli oggetti in fenomeni e nomeni
Sezione prima - Del principio supremo di tutti i principi analitici
Sezione seconda - Del principio supremo di tutti i giudizi sintetici
Appendice all'analitica di principi
Sull'anfibolia dei concetti riflessi, atteso il confondersi l'uso empirico dell'intelletto
Scolio all'anfibolia de' concetti riflessi
Della logica trascendentale
Divisione II. Dialettica trascendentale
Introduzione
I. Della illusione trascendentale
II. Della ragione pura, come sede della ragione trascendentale
B. Dell'uso logico della ragione
C. Dell'uso puro della ragione
Libro I. Delle idee della ragione pura
Sezione prima. Delle idee in generale
Sezione seconda. Delle idee trascendentali
Sezione terza. Sistema delle idee trascendentali
Libro II. Delle conclusioni dialettiche della ragione pura
Cap. I. Dei paralogismi della ragione pura
Confutazione dell'argomento di Mendelsohn per la perseveranza (perpetuità) dell'anima
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Mi sia concesso di chiamare luogo trascendentale il posto, cui usiamo assegnare ad un concetto, sia nella sensibilità, ossia nel puro intendimento. Per tal modo l’assegno di quel posto, che compete ad ogni concetto, secondo la diversità del di lui uso e la istruzione, per la quale stabilire, in forza di regole, un tal posto a tutti i concetti, costituirebbe una topica trascendentale. La qual dottrina ci guarentirebbe, con fondamento, sì dagl’inganni e dalle sorprese del puro intelletto, sì dalle illusioni, che indi emergono, facendoci essa ognora
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scorti a bene scernere quali sieno le nozioni, che propriamente appartengono alla facoltà di conoscere. Potrà convenire, la denominazione di luogo logico ad ogni concetto, come ad ogni titolo, sotto il quale si comprendono parecchie nozioni. Su di che fu già fondata la topica logica di Aristotile, della quale si giovavano i retori e gli oratori, onde rintracciare, fra certi come titoli del pensare, ciò che meglio si confacesse al proposto argomento, e quindi sofisticare, sotto apparenza di fondamenti scientifici, mentre non facevano che verbosamente garrire.
Non contiene, all’opposto, la topica trascendentale niente più che i quattro titoli, accennati poc’anzi, d’ogni confronto e distinzione; come quelli che in ciò si distinguono dalle categorie che non già l’oggetto, in ragione di quanto costituisce
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il proprio concetto (grandezza o quantità, realtà), ma viene solo rappresentato, per mezzo loro, (con quanto ha di vario e moltiplice) il paragone delle rappresentazioni, come quello che precede il concetto delle cose. A tale confronto però è mestieri, prima di tutto una riflessione; vale a dire una determinazione del posto che sarà per competere alle rappresentanze delle cose da porsi a confronto, secondo che o dal puro intelletto pensate, oppure offerte per la sensibilità nella visione(1).
(1) In quel modo che usa chiamarsi luogo logico (sedes argumenti) un’idea, che abbracci parecchie nozioni, e che può dirsi topica logica un sistema di questa maniera di concetti, così anche al posto, cui occupa, sia nella pura sensibilità, sia nel puro intendimento, un concetto, risguardo al respettivo contenuto, può darsi nome di luogo
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Le idee possono essere confrontate logicamente, a meno di per
trascendentale: e sarebbe topica trascendentale una dottrina, un sistema di regole che servisse ad apprezzare e determinare il detto luogo trascendentale. Questa seconda topica non si riferisce alla stessa idea del l’oggetto, come vi si riferiscono le categorie, ma non le compete che il confronto dei concepimenti (appercezioni); confronto, che precede la stessa idea ed appartiene alla riflessione trascendentale. Non va confusa questa riflessione colla logica, la quale altro non ha scopo che di esaminare la specie di connessione, che può esistere fra le rappresentazioni da combinarsi nei giudizi. E di molto maggiore importanza, nel criticismo, l’uffizio della riflessione trascendentale, come quello, cui viene assegnato il distinguere, non che riconoscere, a quale delle nostre facoltà corrisponde una data rappresentazione, determinando se abbia, sede nella sensibilità pura puro intendimento un concetto e mantenendo ne’ legittimi loro possedimenti ciascuna di queste facoltà. Anche trascurata questa riflessione,
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ciò darsi premura di rilevare a quale appartengano gli oggetti loro, se all’intelletto, come nomeni come fenomeni, alla sensibilità. Ove però vaghezza ne muova di con siffatte idee trasportarci agli oggetti, allora è prima di tutto e sovranamente necessaria la riflessione trascendentale, per istabilire a quale,
può aver luogo, è vero, il confronto logico delle idee, ma esso riesce affatto incerto; siccome lo provano gli esempli, che viene Kant deducendo dalla dottrina di Leibnizio, mostrando come fosse questo filosofo indotto in errore dall’anfibolia delle idee trascendentali di riflessione, per viziosa e fallace applicazione delle due facoltà summentovate. Come gli errori di Leibnizio dipenderebbono dall’aver egli troppo accordato all’intendimento; così Locke avrebbe commesso errore inverso, accordando soverchiamente ai sensi, ed ambedue i filosofi avrebbono travisata la differenza specifica tra la sensibilità e l’intendimento. Buhle.
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fra le facoltà di conoscere, sieno devoluti cotesti oggetti, se alla sensibilità od al puro intelletto. Senza una tal riflessione, sarà mal sicuro l’uso, cui farai di siffatti concetti, e ti sortiranno principi sintetici suppositizi, quali non potrà la ragione critica menar buoni o riconoscere; comeché unicamente fondati sopra un’anfibolia trascendentale, voglio dire sopra uno scambio dell’oggetto intellettuale puro coll’apparizione.
In mancanza della topica trascendentale in discorso, e sedotto, per conseguenza, dall’anfibolia delle idee di riflessione, il celebre Leibnizio costruì un sistema intellettuale del mondo, se non anzi avvisò di rilevare l’interna proprietà delle cose; paragonandosi per esso tutti gli oggetti col solo intelletto, e colle sole idee formali, separate, del proprio pensiero. La mia tavola delle idee riflesse procaccia l’inopinato vantaggio
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di porre sott’occhio il discernibile della dottrina leibniziana in tutte le sue parti, ed offre nello stesso tempo sì la guida che la base di questa maniera particolare di pensare; la quale su altro non poggiava che sopra an equivoco. Perciocchè, paragonandosi da quel filosofo tutte le cose fra loro, mediante non altro che concetti, gli è naturale che non altre poteva egli trovarvi differenze, tranne quelle, pel cui mezzo l’intelletto scerne uno dall’altro i propri concetti puri. Egli non risguardò come originarie le condizioni dell’intuizione sensitiva: condizioni, che recano già seco le proprie differenze. Conciossiaché la sensibilità era da esso considerata, non qual sorgente particolare di rappresentazioni, ma come una maniera confusa di rappresentare. E reputava qual rappresentanza delle cose in sé stesse l’apparizione, quantunque
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differente, secondo la forma logica, dalla cognizione mediante l’intelletto; dove, mancando per l’ordinario l’analisi alla sensibilità, fa essa una quasi mischianza di rappresentazioni collaterali o secondarie nell’idea della cosa; dalla quale idea sta poi all’intelletto il separarle. In somma, rendeva Leibnizio intellettive le apparizioni, come Locke rendeva tutte sensitive le idee dell’intelletto colla sua Noogonia (s’egli è lecito prevalersi di questo vocabolo, per esprimere che Locke rese quelle idee sperimentali è riflesse, o concetti separati colla riflessione). Invece di rintracciare nell’intelletto e nella sensibilità due sorgenti affatto diverse di rappresentazioni, le quali però non erano atte, sempreché disgiunte fra loro, a giudicare delle cose, ciascheduno di que’ due grand’uomini si attenne ad una solamente, opinando,
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quella immediatamente riferirsi alle cose in sé stesse; mentre che altro non facesse la seconda che ora confondere, ora ordinare, le rappresentazioni della prima.
Per la qual cosa Leibnizio mette a paragone vicendevole fra di loro gli oggetti dei sensi ed unicamente nell’intelletto, come cose in generale, primiernmente in quanto si debba di queste giudicare se identiche o differenti. Ora, non avendo egli sottocchio se non i concetti, non già il posto loro, nella visione, ove solo ha luogo la presentazione degli oggetti, e lasciando in per fetta obblivione il luogo trascendentale di siffatti concetti (se, debba cioè l’oggetto annoverarsi fra le apparizioni o fra le cose per sé medesime), altro non gli poteva succedere che di estendere anche agli oggetti dei sensi (mundus phaenomenon) il suo principio fondamentale
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del non discernibile; il quale non ha valore se non per le idee delle cose in generale; mentre credette aver egli quinci di non poco ampliata la cognizione della natura. Certo che, se conosci (o reputi) una gocciola d’acqua, siccome cosa per sé stessa in tutte le interne sue determinazioni, non potrai lasciar valere alcuna di queste quasi che diversa dalle altre, poiché tutt’una (identica) con esso lei l’intiera idea della medesima gocciola. Se però questa è, nello spazio, apparizione, avrà essa il suo luogo non solamente nell’intelletto (fra’ concetti), ma sì eziandio nella esterna visione sensitiva (nello spazio): dove, rispetto all’interna determinazione delle cose, i luoghi fisici sono affatto indifferenti; e dove un luogo = b può indifferentemente accogliere una cosa, perfettamente analoga ed uguale
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ad un’altra posta in luogo = a; come ne può accogliere una che fosse intrinsecamente diversissima da questa. È la diversità de’ luoghi quella che costituisce non solo possibili per sé, ma sì pure necessarie, senz’altre condizioni, la pluralità e differenze degli oggetti, come apparizioni. Per conseguenza, quella pretesa legge non è legge di natura, e consiste unicamente in un precetto analitico, vale a dire nel paragone delle cose per mezzo di soli concetti.
In secondo luogo, il principio, che stabilisce, non mai contraddirsi logicamente a vicenda le realtà (quali mere affermazioni), è principio assolutamente vero del rapporto delle idee; però non significa il gran nulla risguardo né alla natura, né generalmente a qualsivoglia cosa in sé stessa (delle quali non possediamo alcun concetto). Giacché la contraddizione
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reale ha sempre luogo dovunque A – B è = 0; con che intendo dire, dove, congiunta, in un soggetto, realtà a realtà, l’una toglie dell’altra l’effetto; locché abbiamo costantemente sott’occhio in tutti gli ostacoli e tutte le reazioni vicendevoli della natura, che, in quanto risiedono e consistono in forze, debbono tuttavia chiamarsi realtà fenomeni. La meccanica generale può anzi fornire persino la condizione empirica di siffatta ripugnanza, in una legge a priori, allorché si occupa del contrasto delle direzioni: condizione, cui pienamente ignora l’idea trascendentale. E quantunque fosse così discreto Leibnizio da non siffatta proposizione annunziare coll’importanza di principio novello, se ne giovò non per tanto in qualche nuova asserzione, ed i suoi successori e settari lo introdussero espressamente nella loro
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dottrina leibnizio-volfiana. Dietro questo principio, a cagion d’esempio, i mali universali non sono se non conseguenze dei limiti apposti alle cose create; sono cioè negazioni, poiché unicamente ripugnanti queste alla realtà (ed è così nella sola idea di una cosa in generale, non però nelle cose, come apparizioni)(1). Così, pare ai seguaci di Leibnizio non solo possibile, ma sì eziandio naturale il riunire in un essere tutte le realtà, senza il minimo, cui debba temersi, contrasto; poiché altro
(1) Era dunque falsa la proposizione di Leibnizio, che stabiliva non essere il male, in opposizione al bene, che una semplice limitazione, una negazione del bene, comeché due realtà non possano mai contraddirsi. Questa idea non sarebbe vera che risguardo agli oggetti del puro intendimento, ma non lo sarebbe rispetto ai fenomeni, ai quali tuttavia Leibnizio alludeva.
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non ne conoscono, tranne quello della ripugnanza (per la quale vien tolta la stessa idea di una cosa): ma non conoscono quello di vicendevole derogazione, distruggendosi dalla causa di un reale dell’altro l’effetto; alla qual pugna rappresentarci, non incontriamo le necessarie condizioni altrove che nella sensibilità.
In terzo luogo, non poggia la monadologia di Leibnizio su altro fondamento che sul riporsi, da questo filosofo, unicamente nel rapporto coll’intelletto la differenza tra l’interno e l’esterno. Alle sostanze in generale debb’essere inerente qualche cosa d’interno, che sia quindi libero da qualunque rapporto esteriore, per conseguenza dalla stessa composizione. Il semplice dunque sarà la base principale dell’interno delle cose in sé stesse. Ma non può l’interno dello stato loro neppure
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consistere nel luogo, nella figura, nel contatto o nel movimento (come determinazioni tutte costituite da rapporti esteriori); e non possiamo conseguentemente alcun altro stato interno alle sostanze attribuire, tranne quello pel quale determiniamo il nostro intimo senso medesimo, lo stato, cioè, delle rappresentazioni. Ed ecco in qual modo si produssero e vennero in acconcio le monadi, destinate a come tutta fornire la materia fondamentale dell’universo, mentre la forza loro non consisteva che in rappresentazioni, per le quali esse propriamente non erano efficaci che in sé medesime.
Appunto perciò anche il di lui principio del mutuo commercio possibile delle sostanze fra loro non poteva consistere in alcuna fisica influenza, ma nella sol’armonia prestabilita. Nulla essendo in fatti
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che d’altro ci occupasse fuorché del proprio interno, vale a dire delle sue proprie rappresentazioni, lo stato di queste sostanze non poteva in veruna effettiva ed intima combinazione trovarsi collo stato di quelle; ma gli era mestieri di una certa causa, che, su tutte quante contemporaneamente influendo, rendesse a vicenda corrispondenti gli stati loro; non però precisamente mediante soccorso, in ispecial modo, apprestato, e giusta l’opportunità, ne’ singoli casi (sistema assistentiae), bensì mediante l’unità del concetto di una causa valevole per tutte; nella quale dovessero tutte quante acquistare l’esistenza e perseveranza loro, e quindi pure la corrispondenza vicendevole una coll’altra, in conformità di leggi universali.
In quarto ed ultimo luogo, la celebre teorica del medesimo autore
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sullo spazio e sul tempo, nella quale sono come rese intellettuali coteste forme della sensibilità, ebbe unicamente origine dalla stessa illusione della riflessione trascendentale. Se voglio rappresentarmi relazioni esteriori delle cose col solo intelletto, ciò non posso altrimenti ottenere che mediante un’idea della reciproca loro efficienza, e, se debbo lo stato di una e la stessa cosa congiungere con altri stati, ciò non può essere che nell’ordine delle cagioni e delle conseguenze. Quindi ne venne che Leibnizio si raffigurò lo spazio come un certo qual ordine nella comunanza delle sostanze, e come una conseguenza dinamica degli stati loro il tempo. Ciò che però paiono avere in sé di proprio ambidue, indipendentemente dalle cose, attribuì egli alla confusione di cotesti concetti; la quale operasse in maniera
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che quanto è mera forma di relazioni dinamiche venisse reputato visione propria, consistente per sé stessa ed anteriore alle cose medesime. Per conseguenza lo spazio ed il tempo erano la forma intelligibile della congiunzione delle cose (delle sostanze e dei loro stati) per sé medesime; le cose però erano sostanze intelligibili (substantiæ noumena). Ciò nondimeno, mirava egli a dar valore di apparizioni a questi concetti non accordando alcun genere proprio d’intuizione alla sensibilità, ma tutte cercando e persino le rappresentazioni empiriche nell’intelletto, ed altra non lasciando ai sensi che la spregevole bisogna di confondere e sformare le rappresentazioni dell’intendimento.
Quand’anche però ne fosse lecito (come gli è invece impossibile), mediante il puro intelletto, asserire sinteticamente alcunché delle cose
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in sé medesime, ciò non potrebbe tuttavia riferirsi alle apparizioni, come a quelle che le cose non rappresentano quali sono in sé stesse. In quest’ultimo caso adunque mi sarà sempre mestieri, nella riflessione trascendentale, confrontare i miei concetti sotto le sole condizioni della sensibilità; e così lo spazio ed il tempo divengono apparizioni, e non sono più determinazioni delle cose per sé. Ciò che possono essere queste per sé non mi consta, non mi è neppure bisogno il saperlo, non potendo altrimenti occorrermi alcuna cosa giammai ſuorché in apparizione(1).
(1) Con tutte le fatiche della filosofia critica nel campo delle speculazioni teoretiche, non essa toglie per altro le antiche dubbiezze, che ci rimangono pur sempre sui vincoli effettivi del nostro sapere colle cose
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In egual maniera procedo eziandio cogli altri concetti riflessi. La materia è sostanza fenomeno. Ciò, che le compete internamente, lo cerco in tutte le parti dello spazio per essa occupato, ed in tutti gli effetti, che, da essa prodotti, succedono e che certamente consistono sempre in apparizioni dei sensi esteriori.
in sé medesime. Perciocché, se non è bastevole a darne spiegazione, da un lato, l’idealismo volgare, la detta filosofia rovescia, per l’altro, da capo a fondo il sistema opposto, vale a dire il realismo, proclamando la nostra ignoranza rispetto a che possano essere in sé stesse le cose. Perciocché tal filosofia le ammette bensì come tali, però la nozione, cui ne concede averne in questo significato, è affatto vuota di senso, e viene anzi assolutamente annichilata dai principi del sapere, ammessi nello stesso tempo da Kant; di maniera, che sotto questo rapporto, il di lui sistema sarebbe in contraddizione con sé medesimo.
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Non ho dunque, nel vero, alcun interno assoluto è semplice, bensì un interno soltanto comparativo, e questo stesso, risolvesi di bel nuovo, o consiste, in rapporti esteriori. Ma il detto semplice assoluto, interno della materia, stando al puro intelletto, non è finalmente che un capriccio, non potendo essere a lui subordinato in veruna maniera (qual oggetto del puro intendimento); dove l’oggetto trascendentale, che servir potesse di fondamento a quest’apparizione, cui diamo nome di materia, è solo alcunché, di cui neppure comprenderemmo ciò ch’ei fosse, quand’anche bastasse l’animo a qualcheduno di significarcelo. Perciocché non possiamo nulla comprendere, tranne di ciò che porta seco nell’intuizione un correlativo alle nostre parole. Se le ordinarie lagnanze dei non riconoscersi assolutamente
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l’interno delle cose vogliono significare che non comprendiamo col puro intelletto ciò che potessero essere per sé medesime quelle, che ci appaiono, sono affatto irragionevoli ed indiscrete le dette lagnanze. Perciocché si pretenderebbe con esse di, anche a meno dei sensi, conoscere, quindi ravvisare, le cose; pretenderebbesi per conseguenza che fosse per noi posseduta una facoltà di conoscere tutt’altro che umana, rispetto non solo al grado, ina sì pure alla qualità e visione; che fossimo quindi non uomini, ma esseri, dei quali non possiamo né tampoco asserire se possibili, molto meno poi come sieno costituiti. Colle osservazioni e coll’analisi dei fenomeni penetriamo l’interno della natura e non è chi sappia sin dove potrà quinci arrivarsi col progresso del tempo. Ciò non di meno però e, quand’anche
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avessimo assolutamente allo scoperto quanta è la natura, non mai saremmo al caso di soddisfare a quelle quistioni trascendentali, che la natura oltrepassano; giacché neppure ci è concesso di osservare il proprio animo con intuizione diversa da quella del nostro senso interno. Perciocché nel senso interno sta riposto il mistero della origine di nostra sensibilità. Il di lei rapporto ad un oggetto, e cosa costituisca il perché trascendentale di cotesta unità, giace, non v’ha dubbio, si profondamente celato, che non conoscendo noi, se non mediante il senso interno e come fenomeno, per conseguenza, noi medesimi, sarebbe vano il giovarci di uno stromento sì male adatto alla nostra investigazione, trattandosi di scovrire qualche cosa, che non consistesse poi sempre in apparizioni; a tuttavia perscrutare
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la causa non sensitiva delle quali avressimo tanta vaghezza.
Ciò, che rende pertanto utilissima questa critica delle conclusioni dalle mere operazioni della riflessione, si è ch’ella dimostra manifestamente la nullità d’ogni raziocinio sull’intrinseco degli oggetti, quali si paragonano fra di loro unicamente nell’intelletto, e conferma nello stesso tempo quanto abbiamo soprattutto inculcato. Che, sebbene, cioè, le apparizioni comprese non sieno fra gli oggetti del puro intendimento, come cose in sé stesse, sono però le sole, nelle quali può dalla nostra cognizione ottenersi realtà obbiettiva, dove cioè l’apparizione corrisponde ai concetti(1).
(1) Ecco in succinto il dottrinale di Kant sulla realtà del nostro sapere. La materia
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Sempreché ci limitiamo a logicamente riflettere, non facciamo che
delle nostre percezioni sensibili, benchè offertaci dal di fuori, non ci rappresenta le proprietà degli oggetti, ma solamente le loro apparizioni; le quali costituiscono ciò che nel linguaggio filosofico diciamo fenomeni. Anzi non è per noi che fenomeno ed apparizione il nostro stesso individuo, considerato come oggetto; e nulla sappiamo, né siamo al caso di sapere, di ciò che potressimo essere per noi medesimi. Tutto si riduce dunque ad apparizioni, e sarebbero queste, se così piace, l’intermediario, il vincolo (di cui nella nota precedente) fra le nostre facoltà e gli oggetti, fra il saper nostro e le cose, quali ci appariscono e non quali effettivamente sono. Giacché né le apparizioni ci rappresenterebbero la realtà propria ed intrinseca, né sarebbero un prodotto assoluto delle nostre facoltà, riportandosi quelle agli oggetti, in qualità di effetti alle cause, non in qualità di attributo a soggetto. «Tutto il nostro sapere non si estende al di là del mondo sensibile, nella sua qualità di oggetto della
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unicamente paragonare fra di loro i nostri concetti nell’intelletto, onde
sperienza; né può essere da noi conosciuto quanto sollevisi esso al di sopra degli accennati confini. Non però conosciamo qual è in sé medesimo lo stesso mondo, sensibile, ma quale soltanto vien esso da noi percepito, sotto le condizioni della sensibilità, e come lo comprendiamo sotto le condizioni (forme) del nostro intelletto. Vero bensì che dalle proprietà costitutive dell’intendimento, come indispensabili alle nostre cognizioni, siamo atti a dedurre alcune regole universali e necessarie, alle quali devono a tutto rigore sottomettersi gli oggetti della sperienza; solché non possiamo queste leggi estendere al di là della sperienza medesima onde giungere alla cognizione delle cose per sé medesime. Sono in oltre inerenti alla nostra ragione delle idee; le quali, quantunque non producano alcun sapere, sono però atte a servire come di meta al nostro cammino nel campo delle gnizioni, e di favoreggiarne i progressi». Tale il riassunto, cui dà il Prof. Kiesewetter,
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rilevare se gli uni contengono la stessa cosa che gli altri, se contraddiconsi o no, se cape già nell’intrinseco del concetto, o gli si aggiunge dal di fuori, alcuna cosa quale sia fra le due la data, e quale che non abbia valore, se non dalla maniera con che ce la raffiguriamo e pensiamo. Ma se questi concetti vogliamo applicare a qualche oggetto in generale (in senso trascendentale), senza definire ulteriormente, se oggetto sia desso della visione sensitiva o della, intellettiva, eccoti sorgere tantosto limitazioni (proibitive del sortire da siffatto concetto), le quali travolgono qualunque caso empirico dei
nel già citato Versuch ecc. (pag. 193), dello scioglimento della prima quistione della filosofia critica: Cos’è, cui siamo in caso di conoscere?
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medesimi, e dimostrano, appunto con ciò, che la rappresentazione di un oggetto, come di cosa in generale, non è per avventura soltanto insufficiente, ma che senza determinazione sensitiva dello stesso, ed indipendentemente dalla condizione empirica, esso è contradditorio in sé medesimo; che o vuolsi, per conseguente, far astrazione da qualsivoglia oggetto (nella logica), o quando se ne ammette uno, lo si dee pensare sotto le condizioni della visione sensitiva. Il perché l’intelligibile richiederebbe una intuizione affatto particolare, onde non siamo capaci, ed, in cui mancanza esso non è nulla per noi. D’altra parte però anche le apparizioni non possono costituire oggetti per sé medesimi(1). Quando in fatti non
(1) «Secondo Kant spazio, tempo, grandezza, realtà, sostanza, contingenza,
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mi raffiguro nel pensiero se non cose in generale, certo che la differenza
efficienza, comunanza di parti nel formare il tutto, possibilità, impossibilità, realtà, non realtà, necessità, causalità, essenza, apparenza, forza, azione, passione, riposo, non sono che principi subbiettivi della nostra sensibilità e del nostro intelletto, i quali non appartengono obbiettivamente alle cose. Cosa è dunque la cosa in sé stessa, poiché ammessa da Kant, e sulla quale posano tante parti del suo sistema, come la realtà obbiettiva del sapere, la spiegazione della libertà, e lo scioglimento delle antinomie cosmologiche della ragione, se questa cosa non esiste mai obbiettivamente, né in alcun luogo; s’ella non ha né grandezza, né realtà; se non è sostanza né accidente, né causa né effetto, né tutto né parte, né possibile né impossibile, né positiva né negativa, né necessaria né accidentale; se non costituisce né assenza, né apparenza, se non fa nulla, non soffre nulla, e non si trova neppure in riposo?
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dei rapporti esteriori non può costituire diversità nelle cose medesime; ma questa è piuttosto presupposta da quella e, non differendo punto internamente il concetto dell’uno dal concetto dell’altro, allora non faccio che ammettere una e la stessa cosa in diversi rapporti. Coll’aggiungere inoltre una semplice affermazione (realtà) ad un’altra, non è già che nulla si detragga o scemi al positivo, giacché non si fa che accrescerlo; e perciò il reale nelle cose in generale non può ripugnare con sé stesso ecc.
* * *
È tanta l’influenza, cui esercitano sull’intelletto i concetti riflessi,
Non può farsi alcun riscontro a tale dimanda, e non si fa che iscartarla per vie surretizie». Buhle.
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mediante una certa qual sinistra interpretazione, siccome abbiamo indicato, ch’ei giunsero a tale da indurre uno dei più perspicaci, fra quanti furono i filosofi, ad immaginare un sistema intellettuale di cognizione, la quale imprendesse a determinare i propri oggetti senza l’intervenienza dei sensi. Ed è per ciò del massimo vantaggio la rivelazione della causa ingannatrice dell’anfibolia di siffatti concetti nella produzione di falsi principi; come quella, che stabilisce con sicurezza e guarentisce i confini dell’intendimento.
Deve bensì dirsi, qualmente ciò, che in generale ad un concetto compete o gli ripugna, ripugna pure o compete a quanto v’ha di particolarmente contenuto in quel concetto (dictum de omni et nullo). Ma sarebbe assurdo il travolgere questo principio fondamentale di logica,
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on maniera da quindi esprimere ciò, che non si comprende in un concetto universale, non comprendersi neppure ne’ particolari, subordinati al medesimo; essendo questi, appunto non per altro, concetti particolari, se non perché si contiene in essi di più che non è pensato nell’universale. Ora gli è precisamente e positivamente su quest’ultimo principio che venne costituito l’intiero sistema intellettuale di Leibnizio; il qual sistema si arrovescia, per conseguenza, col detto principio, e cade con esso lui ogni quindi emergente ambiguità nell’uso dell’intendimento.
Vedemmo, il principio del non discernibile fondarsi propriamente sulla premessa, che, ogni qualvolta non s’incontra una certa qual differenza nel concetto di una in generale, non sia tal differenza da neppure incontrarsi nelle particolari
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e che siano queste, per conseguenza, pienamente identiche (numero ea dem), tutta volta che più non si distinguono a vicenda nel concetto loro (in quanto alla quantità, o qualità). Ma, siccome nel mero concetto di questa o quella qualunque cosa fu già fatto astrazione da condizioni parecchie, fra le necessarie ad una intuizione, così gli è strano e quasi temerario il prendere quello, da cui si fece astrazione, per quello, che non fosse da ritrovarsi giammai, ed il volere accordare nient’altro alla cosa, tranne quanto già cape nel suo concetto.
Il concetto di un piede cubico di spazio posso pensarmelo dove che sia, e quante volte mi piace, che sarà in sé ognora ed assolutamente lo stesso. Due piedi cubici però nello spazio differiscono, quantunque solamente di luogo, fra loro (numero diversa). E queste sono condizioni
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della visione, in che vien presentata la cosa di questa nozione; condizioni, che allo stesso concetto non appartengono, ma sibbene all’intiera sensibilità. Non si dà parimenti ripugnanza nel concetto di una ogni qual volta non fu congiunto nulla di negativo con un affermativo; ché nulla può togliersi e sottrarsi da soli concetti affermativi, combinati fra loro. Ma nella visione sensitiva, come in quella, ov’è data la realtà (p. e. il moto), s’incontrano condizioni opposte (direzioni), onde si era fatto generalmente astrazione nel concetto (del moto), le quali condizioni rendono possibile una contraddizione, di vero non logica; rendono cioè possibile da non altro che positivi uno zero = 0. Né si poteva dire, che tutte le realtà costituissero vicendevolmente la convenienza, per ciò
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che fra i concetti loro non fosse incontrata contraddizione(1). Stando ai soli concetti, l’interno è il sottostrato di tutte le relazioni o determinazioni esterne. Se fai dunque astrazione da tutte le condizioni dell’intuizione, attenendoti unicamente al concetto di una cosa in
(1) Se costì cadesse a taluno in pensiero di mettere in campo il solito sutterfugio, del non potere né tampoco agire vicendevolmente una contro l’altra le realtà nomeni, dovrebbe quel tale addurre un qual che esempio di anche simili realtà, indipendenti dai sensi e pure, onde comprendere se queste rappresentino qualche cosa o nulla. Ma non può d’altronde un esempio derivarsi che dalla sperienza, la quale non offre mai più che fenomeni, e cos’altro non significa la detta proposizione tranne che nulla contiene di negativo di quel concetto, il quale non contiene se non affermazioni: ed è proposizione, della quale non è chi giammai dubitasse.
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generale, puoi far anche astrazione da ogni rapporto esterno, e dee rimanerti, ciò nondimeno, delle altre un concetto, il quale non significhi la minima relazione solo interne determinazioni. Del che pare, nel vero, conseguenza, esservi alcunché, in ogni cosa (sostanza), di assolutamente e semplicemente interno e che a tutte le determinazioni esteriori preceda, come ciò, che le rende finalmente possibili, e che tale sottostrato sia quindi un non so che di semplice, per conseguenza del niuno in esso contenersi esterno rapporto (giacché le cose corporee corporee consistono pur sempre unicamente in rapporti, per lo meno, colle parti estrinseche ad esso loro). E siccome, tranne quella, che ci è nota mediante il nostro intimo senso, non conosciamo alcun’altra determinazione semplicemente interna, così ne verrebbe,
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il ripetuto sottostrato non essere solamente semplice, ma sì eziandio determinato (giusta l’analogia col nostro senso interno), mediante rappresentazioni; vale a dire, che le cose tutte sarebbero propriamente monadi od esseri semplici, corredati di rappresentazioni. Il che sarebbe anche giusto, se non fosse d’uopo alcun che di più che la nozione di una cosa in genere alle condizioni, date le quali ci possono venire offerti gli oggetti d’esterna visione e dalle quali suole astenersi e fare astrazione il puro concetto. Perciocché in tal caso è manifesto che un’apparizione perseverante nello spazio (estensione impenetrabile) potrà non contenere che soli rapporti, senza il gran nulla di semplicemente interno, e costituire tuttavia il primo sottostrato a tutte l’esterne percezioni. Certamente che, la mercé di soli
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concetti, non mi è possibile il pensar nulla di esterno, senza qualche cosa d’interno, appunto per ciò che i concetti relativi suppongono mai sempre cose assolutamente date, né solo sensibili senza di queste. Ma, poiché l’intuizione contiene qualche cosa, che non è punto inerente al solo concetto di cosa in generale, e siccome questa fornisce il sottostrato, cui non si potrebbe assolutamente riconoscere col mezzo di meri concetti, offre cioè lo spazio, il quale, insieme a quanto cape in essolui, consiste in tutti formali od anche reali rapporti; così, per non potere, senza un assolutamente interno rappresentare nessuna cosa co’ soli concetti, non posso dire che né anche nelle medesime cose, contenute sotto questi concetti, o nell’apparizione loro, non vi sia nulla di esteriore, che non abbia sotto di sé, qual fondamento,
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alcunché di semplicemente interno. Conciossiaché, allorquando facemmo astrazione da tutte le condizioni della visione, certo è che nient’altro ci rimaneva nel solo concetto, fuorché l’interno in generale, non che il mutuo di lui rapporto con sé stesso; per cui, e non per altro, può essere l’esterno. Questa necessità però, la quale non è fondata che sull’astrazione non ha già luogo nelle cose, in quanto le sono date nell’intuizione, con determinazioni tali, che non esprimono se non rapporti, e non hanno alcun intrinseco fondamento; non essendo elleno cose per sé stesse, ma solo e schiettamente apparizioni. Tutto ciò, che noi mai conosciamo nella materia, consiste in soli rapporti (ciò, cui diamo nome di determinazioni interne, non è interno, se non comparativamente); ma fra questi rapporti se ne
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danno di per sé consistenti e perseveranti; ed è per questi che ne viene offerto un oggetto determinato. Ché, facendosi per me astrazione da cotesti rapporti, non mi resti più nulla da pensare, toglie il concetto di una cosa come apparizione, anzi neppur quello di un oggetto in astratto, bensì toglie sino la possibilità di oggetto, determinabile da soli concetti, voglio dire di un nomeno. Pare strano, in verità, l’udirsi dire che una cosa debba consistere tutta quanta in meri rapporti; ma tal cosa non è poi che mera apparizione, e non può essere nullamente pensata mediante le categorie pure; siccome quella che già consiste nella sola relazione di qualche cosa, in generale, coi sensi. Anche i rapporti delle cose in astratto, se ti fai a pensarle con soli concetti, non te li potrai raffigurare altrimenti, se
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non l’una essere causa delle determinazioni dell’altro consistendo appunto in ciò il nostro concetto intellettuale della relazione. Solché, siccome allora facciamo astrazione da qualunque visione, così cessa e svanisce, in tal caso, tutta la ragione, con che può il moltiplice stabilirsi a vicenda il proprio posto; manca, cioè, la forma della sensibilità (lo spazio), che va pure avanti ad ogni empirica efficienza (causalilà).
Se noi, sotto nome di oggetti meramente intelligibili, quelle cose intendiamo, che vengono pensate medianti le categorie pure, senza verun tipo (schema) di sensibilità, simili oggetti sono impossibili. Perciocché la condizione, per l’uso obbiettivo di tutti i nostri concetti intellettuali consiste unicamente nella maniera di nostra visione sensitiva, onde ne vengono porti gli
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oggetti: e, quando facciamo astrazione dall’ultimo, i primi non hanno il minimo significato pei qual che si voglia oggetto. Anzi quando pure si volesse ammettere altra maniera di visione, diversa dalla nostra, non avrebbono tuttavia significazione alcuna, rispetto alla medesima, le nostre funzioni del pensare. Se poi per cose intelligibili altro non intendiamo che oggetti d’intuizione non sensitiva, sui quali non hanno certo valore le nostre categorie, ed onde non potressimo quindi aver mai la menoma cognizione (né concetto né visione), sarà in questo senso meramente negativo, che debbonsi ammettere senza forse, i nomeni; giacché in tal caso essi dinotano, che la nostra maniera di visione, alle cose non già, ma risguarda unicamente agli oggetti de’ nostri sensi; che il di dei valore obbiettivo, per conseguenza,
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è circoscritto; che rimane quindi luogo ad una qualche altra specie d’intuizione, e conseguentemente anche a cose a tal maniera di visione soggette. Se non che diventa problematico, in cosiffatto supposto, il concetto del nomeno; diventa, cioè, rappresentazione di cosa, della quale non ci è lecito asserire né che sia possibile, né impossibile: non conoscendosi per noi altra maniera d’intuizione fuori della nostra sensitiva, né altra specie di concetti fuori che le categorie; non essendo però atta nessuna delle due per verun oggetto straniero ai sensi. Quindi è che non ci è permesso dilatare positivamente il campo degli oggetti del nostro pensare al di là delle condizioni della nostra sensibilità; né, oltre le apparizioni, possiamo ammettere oggetti nemmeno del puro pensiero, voglio dire i nomeni, per ciò appunto ch’ei non
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godono di significazione positiva; cui ne sia lecito ammettere. Perciocché, rispetto alle categorie, gli è giuoco forza convenire, che le non sono già bastevoli da sole alla cognizione delle cose per sé stesse, e che, senza i dati della sensibilità, le non sarebbono che forme subbiettive dell’unità intellettuale; ma forme, non aventi alcun soggetto. Il pensare non è punto, a dir vero, prodotto dei sensi e né da essi limitato più che tanto, ma non è perciò di uso assolutamente proprio e puro, a meno che vi concorra la sensibilità, senza la quale il pensare non avrebbe oggetto. Né può sotto la denominazione o classe dei nomeni comprendersi tale oggetto, come quello, cui appunto significa il concetto problematico summentovato, che a tutt’altra intuizione va soggetto ed a tutt’altro intelletto che il nostro e che perciò è
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già problema in sé medesimo. Il concetto del nomeno adunque non consiste nell’idea di un oggetto ma in quel postulato, inevitabile alle circoscrizioni della nostra sensibilità, con che si chiede se vi sieno per avventura oggetti alla costei visione stranieri e da essa indipendenti. Alla qual dimanda non si può rispondere che indeterminatamente; che, non riferendosi, cioè, la visione alle cose tutte indistintamente, rimanga luogo ad altri e parecchi oggetti. Quindi è che non vengono questi assolutamente impugnati; ma, in mancanza di un concetto determinato (poiché non v’è categoria bastevole a tanto), non si può guari asseverare, che oggetti sieno pel nostro intendimento.
Per la qual cosa ne viene che l’intelletto circoscrive la sensibilità, senza perciò allargare il proprio
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dominio; e, mentre le ricorda e l’ammonisce, perché la non si arroghi di riportarsi alle cose in sé stesse, ma si limiti alle apparizioni, lo stesso intendimento si raffigura con ciò un oggetto per sé, ma solo qual oggetto trascendentale; che sia causa dell’apparizione (non perciò l’apparizione medesima); che non può essere pensato come né grandezza, né realtà, né sostanza ecc. (poiché tali concetti richiedono sempre forme sensitive, nelle quali definiscono esse un oggetto); e di cui siamo, per consenguenza, pienamente ignari se ne avverrà d’incontrarlo in noi stessi, od anche fuori di noi, se lo si toglierebbe, togliendo la sensibilità, o se tale oggetto fosse per sopravanzare, in questo caso, alla medesima. Che se poi volessimo chiamarla nomeno, per ciò che non sensitiva la di lui rappresentazione, siamo
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liberi di farlo. Solché, non essendo egualmente liberi di applicare, a simile oggetto nomeno, alcuno de’ nostri concetti intellettuali, resterebbe sempre vuota per poi siffatta rappresentazione, come quella che ad altro non serve ch’ei ad indicare i confini del nostro sapere sensitivo ed a far sì che sopravanzi uno spazio, cui non siamo in grado di riempire né colla sperienza possibile, né col puro intendimenio.
La critica dunque di questo puro intelletto non acconsente né che gli procacciamo un nuovo campo di oggetti, oltre quelli che occorrere gli possono, come apparizioni, né ch’ei divaghi e si perda in mondi intelligibili, anzi neppure nell’idea dei medesimi. Il difetto, che a ciò seduce, e che può essere scusato bensì, non però giustificato, consiste nel rendersi trascendentale, contro il di lui destino, l’impiego
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dell’intelletto e nel far sì che gli oggetti, vale a dire le possibili apparizioni, debbano addattarsi ai concetti, anziché i concetti conformarsi alle possibili apparizioni (come a quelle, in che solo sta riposta la obbiettiva loro validità). Del che poi la ragione consiste nel precedere, cui fa il concepimento, e con esso il pensare, all’ordine determinato possibile delle rappresentazioni. Noi pensiamo dunque in generale qualche cosa, e la determiniamo sensitivamente in parte: ma da questa foggia di ravvisarlo distinguiamo tuttavia l’oggetto universale, non che rappresentato in astratto. Così, non ci rimane che una maniera di meramente col pensiero determinare l’oggetto; la qual maniera, nel vero, non è che una semplice forma logica, senza contenuto; ma ci sembra tuttavia di trovare in essa come l’oggetto esista
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per sé (noumenon), senza badare alla visione, poiché circoscritta la visione ai nostri sensi.
* * *
Prima che dipartirmi dall’analitica trascendentale, debbo ancora soggiungere qualche cosa; la quale, a malgrado che di non grave momento per sé stessa, potrebbe tuttavia necessaria sembrare alla perfezione del sistema. Il concetto supremo, dal quale suole aver principio una filosofia trascendentale, consiste ordinariamente nel dividere il possibile dall’impossibile. Ma, siccome ogni divisione presuppone un concetto diviso, così è mestieri ammetterne uno più ancora elevato, e questo è la nozione di un oggetto in generale (ricevuto in senso problematico e senza decidere se costituisca essa qualche cosa o nulla). Poiché le categorie sono le sole nozioni, che riferiscansi generalmente
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ad oggetti, così la distinzione di un oggetto, s’egli sia qual che cosa o niente, procederà coll’ordine delle categorie e come viene da esse indicato.
1) L’opposto ai concetti del tutto, del molto e dell’uno, è quello che toglie ogni cosa, quello, cioè, del niente. Così l’oggetto di un concetto, al quale non corrisponde alcuna visione allegabile, è = a nulla, vale a dire, idea senza oggetto, come i nomeni, che non si possono annoverare fra le possibilità, quantunque non sieno da né per ciò dichiararsi come impossibili (entia rationis), o come per avventura certe nuove forze primitive, quali se le pensasse alcuno, senza contraddizione bensì, ma senza eziandio esempli desunti dalla sperienza, e da perciò non potersi ascrivere fra le possibilità.
2) Realtà è qualche cosa; negazione
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è niente, l’idea cioè della mancanza di un oggetto, come l’ombra ed il freddo (nihil privativum).
3) La sola forma della visione, senza sostanza, non è per sé alcun oggetto, ma è mera di lui condizione formale (qual apparizione), come il puro spazio ed il puro tempo, che sono bensì qualche cosa, quali forme del vedere, ma oggetti non sono da vedersi (ens imaginarium).
4) L’oggetto di una nozione, la quale contraddice a sé stessa, è nullo, essendo nulla il concetto impossibile; come una figura quandomai rettilinea di non più che due lati (nihil negativum).
Il perché sarà da come segue disporsi una tavola di cotesto scompartimento del niente. (È quindi per sé desumibile una divisione, simile a questa, del qualche cosa).
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NIENTE,
come
1
Concetto vuoto, senza oggetto
(ens rationis)
2
Oggetto vuoto di un concetto
(nihil privativum)
3
Visione vuota, senza oggetto
(ens imaginarium)
4
Oggetto vuoto, senza concetto
(nihil negativum)
Quindi si comprende, che la cosa del pensiero (l’ente di ragione N. 1) distinguesi per ciò dalla non cosa (dal niente negativo N. 4) ché non può quella essere annoverata fra le possibilità, essendo essa mera finzione (quantunque non ripugnante), mentre questa è in opposizione colla possibilità, poiché toglie da sé medesima il concetto, che la esprimne. Sono però concetti vuoti ambedue; dove, per lo contrario, il nulla privativo (N 2) e l’ente
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immaginario (N. 3) consistono in dati vuoti, ad uso di concetti. Se non fosse data la luce ai sensi, non sarebbe possibile rappresentarsi le tenebre, come non potrebbe rappresentarsi lo spazio, quando gli esseri non fossero percepiti estesi. Tanto la negazione, quanto la mera forma della visione, mancano di realtà e non costituiscono oggetti.