DELLA LOGICA TRASCENDENTALE
DIVISIIONE II
DIALETTICA TRASCENDENTALE
LIBRO SECONDO
DELLA DIALETTICA TRASCENDENTALE
Analitica trascendentale
Della dottrina trascendentale della facoltà di giudicare
Cap. III - Del fondamento della distinzione di quanti sono generalmente
gli oggetti in fenomeni e nomeni
Sezione prima - Del principio supremo di tutti i principi analitici
Sezione seconda - Del principio supremo di tutti i giudizi sintetici
Appendice all'analitica di principi
Sull'anfibolia dei concetti riflessi, atteso il confondersi l'uso empirico dell'intelletto
Scolio all'anfibolia de' concetti riflessi
Della logica trascendentale
Divisione II. Dialettica trascendentale
Introduzione
I. Della illusione trascendentale
II. Della ragione pura, come sede della ragione trascendentale
B. Dell'uso logico della ragione
C. Dell'uso puro della ragione
Libro I. Delle idee della ragione pura
Sezione prima. Delle idee in generale
Sezione seconda. Delle idee trascendentali
Sezione terza. Sistema delle idee trascendentali
Libro II. Delle conclusioni dialettiche della ragione pura
Cap. I. Dei paralogismi della ragione pura
Confutazione dell'argomento di Mendelsohn per la perseveranza (perpetuità) dell'anima
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Nel consueto argomento, pel quale si pretende provare, non potere, mediante divisione (benché divisibile), cessare di esistere l’anima (sempreché la si ammetta per un essere semplice), non tardò, acuto veggente qual era, il citato filosofo rilevare un difetto di sufficienza nello scopo di assicurare all’anima la sua perpetuità; stanteché possibile, tuttavia, che se ne ammetta il cessare (fine), mediante svanimento. Nel suo Fedone si studiò egli pertanto a guarentirla ed allontanarla da questo stato passeggiero, che sarebbe un vero passaggio all’annientamento; ed avviso riuscirvi, ripromettendosi di convincere,
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qualmente un essere semplice, come l’anima, non può guari cessare di esistere. Perciocché, non potendo essa punto scemare, né perciò perdere mano mano qualche cosa di sua esistenza ed essere così trasmutata insensibilmente in nulla (dato, non aver l’anima parti, quindi neppure moltiplicità), fra il momento, in cui essa fosse, e l’altro momento in cui la non fosse più, non verrebbe ad incontrarsi alcun tempo; il che sarebbe impossibile.
Solché non ha posto mente quell’autore a che, accordando eziandio questa natura semplice all’anima, siccome a quella nella quale non cape alcun moltiplice (di parti fra loro distinte), quindi nessuna grandezza o quantità estensiva, non le si può tuttavia, come neppure a qualunque cosa esistente, ricusare la quantità intensiva,
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un grado, cioè, di realtà, rispetto a tutte le di lei forze, anzi rispetto generalmente a quanto costituisce l’esistenza. Il qual grado potrebbe via via menomarsi per tutti gl’infinitamente molti gradi minori e venire così, quand’anche non mediante divisione; annichilita, non di meno, mediante insensibile declinazione (remissio) delle forze (quindi mediante languidezza o svanimento, se gli è lecito prevalersi di questi vocaboli), quella pretesa sostanza, quella cosa, cioè, onde non è altronde per anco ben ferma e decisa la perseveranza. Ché alla stessa coscienza finalmente compete pure un grado, suscettivo di via sempre diminuire;(*) il perché
(*) La chiarezza non consiste, siccome insegnano i logici, nella coscienza di una rappresentazione. Perciocché un certo grado d’intima coscienza, il quale però non è bastevole alla memoria si deve riscontrare anche in
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sarà egualmente suscettiva di diminuzione la facoltà di essere a sé consapevoli di sé medesimi e così lo saranno tutte le altre facoltà.
Rimane dunque non provata la costanza e perpetuità dell’anima, qual semplice oggetto del senso interno,
parecchie rappresentazioni oscure. Ché altrimenti, senza coscienza di sorta, nell’accoppiamento delle dette rappresentazioni oscure, non faressimo alcuna distinzione, come siamo tuttavia capaci di farne co’ vocaboli distintivi di certi concetti affini (come quelli del giusto e dell’equo, e così pure nella musica, eseguendo molte e diverse note nello stesso tempo). Ma è chiara una rappresentazione, dove la conoscenza giunge od è bastevole alla coscienza del distinguere quella rappresentazione da un’altra. Perciocché, se quella, che basta e giunge a distinguere, non però basta né giunge alla coscienza della distinzione, la rappresentazione dovrà dirsi tuttavia oscura. Dunque si danno infinitamente molti gradi di coscienza, fino allo svanire della medesima.
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e non è anzi fattibile il provarla, non ostante che manifesta per sé stessa la di lei perseveranza nella vita, quando l’essere pensante (come uomo) è già oggetto a sé medesimo dei sensi esteriori. Il che però non basta soddisfare il psicologo razionale, che imprende a convincere, in forza di soli concetti, anche al di là della vita, l’assoluta perseveranza dell’anima(*).
(*) Quellino che, mirando a mettere in campo una nuova possibilità, credono aver già fatto quanto basta, se giungono a sfidare altrui, non che insolentire, comeché non sia chi nelle premesse loro valga discoprire contraddizioni (come sono tutti quanti avvisano rilevare la possibilità del pensare, anche dappoi cessata la vita umana, quantunque ne abbiano soltanto la prova nelle visioni empiriche della vita medesima), questi tali diceva, si possono ridurre alle strette del maggiore imbarazzo per mezzo
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Ora se prendiamo, ridotte ad un insieme sintetico, le nostre proposizioni
di altre niente meno audaci possibilità. Tale sarebbe la possibilità di dividere in più sostanze una sostanza semplice o, viceversa, del confluire (coalitio) di parecchie in una semplice. Perciocché, sebbene la divisibilità presupponga un composto, essa tuttavia non richiede un composto di sostanze, ma solo dei gradi (delle varie facoltà) di una medesima sostanza. Ora in quel modo, con che si possono pensare, come svanite per metà, quante sono le facoltà e forze dell’anima e sinanche della coscienza, in guisa però che vi sia sempre qualche sostanza residua, potrà egualmente rappresentarsi e senza contraddizione questa metà già svanita, come se conservata, non in essa pero, ma fuori di lei; e, siccome qui fu dimezzato tutto ciò, che v’ha nell’anima di sempre ed unicamente reale ed ha, per conseguenza un grado, quindi sì compiuta la di lei esistenza, che non vi manchi nulla, così potrà rappresentarsi, che fuori di lei nascerebbe, in tal caso, una sostanza particolare.
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antecedenti (in quel modo, in che già le si deggiono prendere
Conciossiaché la moltitudine, che fu divisa, esisteva già prima, non però qual moltitudine di sostanze, ma di ogni realtà, come il quanto, cioè, dell’esistenza in esso lei; e l’unità della sostanza era puramente una maniera di esistere, che solo mediante questa divisione fu trasmutata in una pluralità di sussistenze. Ma così anche parecchie sostanze semplici potrebbero confluire vicendevolmente in una, senza che nulla vi si perdesse perciò, eccetto la sola pluralità della sussistenza; poiché l’una conterrebbe in sé le realtà di tutte insieme le antecedenti. E chi sa mai, se le sostanze semplici, la mercé delle quali abbiamo l’apparizione della materia (non certo mediante influenza vicendevole meccanica o chimica, ma tuttavia mediante una per noi sconosciuta influenza, onde sarebbe soltanto apparizione quell’altra), in grazia di consimile divisione di dinamica delle anime dei padri come di grandezze intensive, non producessero le anime dei figli, e che le prime
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nella psicologia razionale sistematica), siccome aventi valore
intanto non risarcissero di bel nuovo la perdita fatta (per una quasi coalizione) con nuovo materiale dello stesso genere. Ben son lontano dall’accordare a siffatte fantasie chimeriche il menomo valore o la menoma autorità; oltreché i premessi dell’analitica principi hanno abbastanza inculcato, perché delle categorie (qual si è quella della sostanza) non venga fatto alcun caso, che sperimentale non sia. Se però il razionalista, dalla sola facoltà di pensare, una qualche visione perseverante, come quella, onde potrebbe un oggetto esser dato, osa farne tuttavia un essere consistente per sé medesimo, non per altro, non perché l’unità dell’appercezione (concepimento) nel pensare non gli permette imprendere spiegazione alcuna del composto (in vece che gli tornerebbe assai meglio il confessare, non egli essere al caso di dichiarare la possibilità di una natura pensante), perché non dovrà il materialista, quantunque altrettanto poco in grado egli pure di provocare, a favore delle sue possibilità,
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per tutti gli esseri pensanti; e se, incominciando per la categoria dei rapporti, colla proposizione: Tutti gli esseri pensanti, come tali, sono sostanze, percorriamo a ritroso la serie delle categorie, sino alla chiusa del circolo, ci abbatteremo finalmente alla esistenza delle medesime. Della qual esistenza, in cotesto sistema, sono esse (sostanze) non solo consapevoli a sé medesime, indipendentemente dall’esterne cose, ma sono in grado eziandio di per sé stesse determinarla (rispetto alla perseveranza, come a quella, che appartiene di necessità al carattere della sostanza). Dal che però ne segue, non potersi evitare, in siffatto
il soccorso della sperienza, essere autorizzato ad eguale ardimento, giovandosi del proprio principio fondamentale e l’unità formale del competitore conservando, ad uso e sostegno di tutto l’opposto?
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sistema razionale, l’idealismo il problematico, per lo meno: e, se non fosse punto necessaria l’esistenza dell’esterne cose alla determinazione di sé medesimo nel tempo, anche l’idealismo verrebbe ammesso in darno e senza poterne avanzare giammai una prova.
Che se, per lo contrario, seguitassimo il sentiero analitico, dove serve già di base l’io penso, in qualità di proposizione, la quale inchiude in sé l’esistenza, come data, inchiude, per conseguente, la modalità, e se analizzassimo tal proposizione, affine di conoscerne il contenuto, se ed in qual modo, cioè, questo io, nello spazio e nel tempo, determini, con ciò solamente, la propria esistenza in tal caso le proposizioni della psicologia razionale non prenderebbero lor mosse da un concetto di un essere pensante in genere, ma incomincierebbono
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da una effettività (realtà); e, dalla maniera, in che viene questa pensata, dopo averne segregato quanto vi fosse di empirico, tutto quanto generalmente compete ad un essere pensante verrebbe conchiuso nel modo, cui dinota il seguente quadro.
1.
Io penso
2.
come soggetto
3.
come soggetto semplice
4.
come soggetto identico,
in qualche stato del mio pensare
Ora, siccome non è quivi determinato, nella seconda proposizione, se io esistere possa ed essere pensato, solamente come soggetto e non eziandio qual predicato di un altro, così non è preso che logicamente, in questo luogo, il
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concetto di un soggetto e rimane indeterminato, se vi si debba sottintendere o no la sostanza. Solché, nella terza proposizione, diventa per sé rilevante l’assoluta unità dell’appercezione, il semplice io, nella rappresentazione, alla quale si riferisce ogni congiunzione o separamento, che costituisce il pensare; non ostante che non sia stato per me deciso ancor nulla intorno alla qualità o sussistenza del soggetto. L’appercezione consiste in qualche cosa di reale e la semplicità della medesima è già inerente alla di lei possibilità. Ora non v’è cosa di reale nello spazio, la quale semplice fosse; giacché i punti (come quelli che costituiscono l’unico semplice nello spazio) non sono che limiti, non però cosa, che valesse a dello spazio far parti. Ne segue dunque la impossibilità di una spiegazione
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di me, qual mero essere pensante (qualità fondamentale del materialismo). Essendo però che la mia esistenza, nella prima proposizione, si considera come data; giacché non vi è detto, che ogni essere pensante esiste (con che verrebbe ad eziandio esprimersi necessità assoluta e sarebbe troppo, risguardo a quegli esseri), ma solo è detto, ch’io esisto, pensando; quindi è che l’asserzione diventa empirica e contiene solamente la determinabilità di mia esistenza, rispetto alle rappresentazioni mie nel tempo. Ma siccome, d’altra parte, mi è perciò d’uopo finalmente alcunché di perseverante in siffatta esistenza che, in quanto io penso me stesso, non c’è assolutamente verso che mi sia dato altrettanto nell’interna visione, così riesce assolutamente impossibile, anche mediante questa semplice coscienza
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di me stesso a determinarsi la maniera, con che io esisto; se come sostanza, cioè cioè, o come accidente. Dunque se il materialismo non è atto co’ suoi modi a spiegare la mia, esistenza, vi è ugualmente inetto ed insufficiente lo spiritualismo; e la conseguenza finale si è, che, qualunque fosse la maniera di spiegarla, non sarà mai che ci faccia positivamente conoscere qualche cosa intorno alla natura dell’anima nostra, risguardo generalmente alla possibilità di sua separata esistenza.
Come sarebbe altronde fattibile, mediante l’unità della coscienza, unità, cui già non conosciamo altrimenti che in quanto costretti ad indispensabilmente giovarcene per la possibilità della sperienza, come, dico, sortire col detto mezzo da questa, e persino ampliare il nostro sapere, intorno la natura di
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quanti generalmente sono esseri pensanti, coll’empirica non solo, ma, rispetto ad ogni specie di visione, indeterminata proposizione: io penso?
Non vi è dunque alcuna psicologia razionale, come dottrina, che sia capace di aggiungere qualche cosa, risguardo all’intima nostra cognizione. Il che potrà essa unicamente in qualità di magistero (disciplina), che alla ragione speculativa insuperabili prescriva in questo campo i confini; da un lato, per non in grembo gettarsi ad un inanimato materialismo, e dall’altro, per non ismarrirsi da vagabondi nell’oceano di uno spiritualismo che non ha fondamento per noi nella vita. Anzi tal magistero ne rammenterà e farà scorti, qualmente il rifiuto di nostra ragione a riscontrare con parole soddisfacenti le curiose inchieste, che vanno ai di là di questa nostra vita, sia da
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per noi risguardarsi quasi un di lei cenno, perché dalla sterile contemplazione trascendentale rivolgiamo la cognizione di voi medesimi all’ubertoso esercizio pratico. Il qual esercizio, non ostante che sempre diretto ai soli oggetti della sperienza, trae però i suoi principi da sfera più elevata e determina in modo il contegno dell’uomo, comeché i di lui destini arrivino e spazino infinitamente più lontano che la sperienza, quindi al di là di questa vita.
Da tutto questo si comprende, avere la psicologia razionale origine da una mera sinistra interpretazione. L’unità di coscienza, la quale serve di fondamento alle categorie, viene presa costà per la visione del soggetto, in qualità di oggetto, e vi si applica la categoria della sostanza. Ma essa non è che l’unità nel pensare, per la qual sola unità
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non è dato alcun oggetto ed alla quale non può quindi essere applicata la categoria della sostanza; come quella che presuppone ognora una data visione: per conseguenza, non può tal soggetto essere per verun modo riconosciuto. Dunque il soggetto delle categorie, per ciò solo che da lui pensate coteste, non può acquistare un concetto di sé medesimo, come di un oggetto delle categorie; giacché per pensarle bisogna, che sia posta qual fondamento la coscienza pura di sé stesso; il che gli è pur quanto importava necessariamente spiegare. Per egual ragione, il soggetto, in cui è fondata originariamente la rappresentazione del tempo, non è perciò in caso di stabilire la propria esistenza nel tempo; e, se non è possibile il secondo (esistenza), non potrà essere luogo, mediante categorie neppure al primo, come determinazione
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di sé medesimo (qual essere pensante in genere)(*).
***
(*) L’io penso è, come già dissi, proposizione empirica, e contiene in sé la proposizione: io esisto. Ma non posso dire: Tutto ciò che pensa esiste; perciocché, in tal caso, la proprietà di pensare renderebbe necessari tutti gli enti, che la posseggono. Quindi è che nemmeno la mia esistenza può essere considerata quasi consecutiva della proposizione, io penso, come avvisava Cartesio (giacché altrimenti sarebbe necessario che precedesse la maggiore: Tutto quanto pensa esiste); ma è, con essa, identica. Tal proposizione esprime una visione empirica indeterminata, vale a dire, un’appercezione (con che dimostra, essere già fondamento a siffatta esistenza la sensazione, che appartiene conseguentemente alla sensibilità); ma le precede la sprienza, la quale deve, mediante la categoria, determinare l’oggetto della percezione, rispetto al tempo. Né la esistenza costituisce quivi ancora categoria, come
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Or ecco dunque svanita, non ostante che si conducente al massimo interesse dell’umanità, una
quella, che si riferisce ad un dato oggetto, indeterminato non già, bensì ad oggetto, del quale si ha qualche concetto e di cui si vuol sapere, se, anche oltre tale concetto, sia esso dato o no. Costì una percezione indeterminata significa una qualche cosa di reale, che fu già data, benché solo al pensiero in generale, per conseguenza, non come visione e nemmeno come cosa in sé stessa (nomeno); ma come qualche cosa che nel fatto esiste e viene indicata, come tale, nella proposizione: io penso. Perciocché bisogna notare, che, denominando empirica una tal proposizione, non volli già dire che l’io della medesima fosse rappresentazione empirica; che anzi essa è intellettuale pura, come quella, che generalmente appartiene al pensare. Ma senza l’empirica rappresentazione, che offre il materiale al pensiero, non avrebbe lungo il di lui atto, io penso, ed è solo empirica la condizione o circostanza dell’applicazione, ovvero, dell’uso della facoltà pura intellettuale.
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cognizione cercata oltre i confini della sperienza possibile, in grazia della filosofia speculativa, per quanto può aver essa contribuito a deluderne le speranze. Nel che sebbene severa la critica, mentre osa persino convincere l’impossibilità di alcuna cosa decidere dogmaticamente, oltre i confini della sperienza, intorno agli oggetti della medesima, essa presta però servigio di non lieve prezzo alla ragione in questa sua bisogna, per ciò che la pone ugualmente al sicuro contro quante potessero sorgere asserzioni del contrario. Il che non è da ottenersi altrimenti che provando apoditticamente il proprio assunto o cercando, se ciò non riesce, le sorgenti di siffatta impotenza. Ove le quali fonti fossero inerenti ai cancelli necessari dell’umana ragione, richiameranno esse medesime, in tal caso, qualunque
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si fosse avversario alla stessa legge di abdicazione ad ogni pretesa per mezzo di asserzioni dogmatiche.
Non ha con ciò luogo, tuttavia, il minimo scapito, rispetto alla ragione, anzi, alla necessità di ammettere una vita futura, giusta i principi dell’uso pratico della ragione, combinato col di lei uso contemplativo; giacché altronde von è mai che i soli argomenti speculativi abbiano influenza particolare sulla ordinaria umana ragione. Tali argomenti sono posti, come dice il proverbio, sulle punte dei peli, per modo, che anche la scuola non sa mantenerveli, se non fino a tanto che le fa essa girare incessantemente attorno a sé medesimi, come trottole, così ch’ei non lasciano agli stessi occhi di lei travedere alcun basamento, su cui potesse qualche cosa edificarsi. A quelli fra questi
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argomenti, che possono essere utili al mondo, rimane frattanto inalterato il valore, che loro compete, anzi essi acquistano in chiarezza e non artificiosa persuasione, a misura che spogliati vengono delle presunzioni dogmatiche e che ne’ suoi propri possedimenti rimettono la ragione, vale a dire, nell’ordine degli scopi, nei quali consiste anche l’ordine della natura. Ché allora la ragione, come facoltà pratica per sé stessa anzi che lasciarsi limitare dalle condizioni di natura; viene autorizzata estendere i detti scopi e, con essi, la nostra propria esistenza, ben oltre i termini della sperienza, e della vita. Giusta l’analogia colla natura degli esseri aventi vita in questo mondo, nei quali deve la ragione ammettere di necessità, per principio, che niun organo, niuna facoltà, niuna tendenza, niente, in somma, si trova, che potesse mai
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superfluo giudicarsi o sproporzionato al proprio uso, nulla, per conseguente, che alla propria meta non corrisponda, ma che tutto anzi conviene col destino, che gli fu assegnato, l’uomo, che può solo finalmente contenere in sé stesso la suprema ed ultima ragione finale di tutto questo, l’uomo dovrebb’essere la sola creatura, che si trovasse da tutto questo eccettuata. Perciocché le disposizioni a lui naturali, non solo secondo i talenti e le inclinazioni, ond’egli gode per giovarsene, ma specialmente attesa la legge morale, ad esse inerente, oltrepassano di tanto qualunque, utilità o profitto, ch’ei potesse cavarne in questa vita, che la detta legge insegna persino ad apprezzare sopra tutto la coscienza dell’onesta e proba intenzione, in difetto d’ogni vantaggio e dello stesso prestigio di futura fama; e che l’uomo
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si sente intimamente chiamato a rendersi, mediante il suo contegno in questo mondo e mediante ripudio e sacrificio di parecchi vantaggi, degno cittadino di un mondo migliore, ch’egli ha nella propria idea. Questo possente, né mai confutabile, argomento, cui accompagnano la di continuo crescente cognizione della conformità, di tutto quanto ci si offre, agli scopi, la penetrazione entro l’immensità della creazione, quindi eziandio la coscienza di certa quale illimitabilità nell’estensione possibile del nostro sapere, con corrispondente vaghezza di estenderlo, il detto argomento, diceva, rimane pur sempre, quand’anche dovessimo rinunziare ad ogni speranza di penetrare, colla sola cognizione teoretica di noi stessi, la necessaria continuazione di nostra esistenza.