DELLA DOTTRINA TRASCENDENTALE DELLA FACOLTÀ DI GIUDICARE
OVVERO
DELL’ANALITICA DEI PRINCIPI
Analitica trascendentale
Della dottrina trascendentale della facoltà di giudicare
Cap. III - Del fondamento della distinzione di quanti sono generalmente
gli oggetti in fenomeni e nomeni
Sezione prima - Del principio supremo di tutti i principi analitici
Sezione seconda - Del principio supremo di tutti i giudizi sintetici
Appendice all'analitica di principi
Sull'anfibolia dei concetti riflessi, atteso il confondersi l'uso empirico dell'intelletto
Scolio all'anfibolia de' concetti riflessi
Della logica trascendentale
Divisione II. Dialettica trascendentale
Introduzione
I. Della illusione trascendentale
II. Della ragione pura, come sede della ragione trascendentale
B. Dell'uso logico della ragione
C. Dell'uso puro della ragione
Libro I. Delle idee della ragione pura
Sezione prima. Delle idee in generale
Sezione seconda. Delle idee trascendentali
Sezione terza. Sistema delle idee trascendentali
Libro II. Delle conclusioni dialettiche della ragione pura
Cap. I. Dei paralogismi della ragione pura
Confutazione dell'argomento di Mendelsohn per la perseveranza (perpetuità) dell'anima
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Abbiamo finora percorso non solo il territorio del puro intendimento, e perlustratane con diligenza ogni parte, ma l’abbiamo eziandio misurato, ed assegnato il posto competente ad ogni cosa esistente nel medesimo. Ma il territorio dell’intelletto è un’isola, cui natura cinse di barriere immutabili; è paese di
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verità (nome lusinghiero), circondato da un oceano vasto e burrascoso; nel qual oceano ha propriamente sede l’illusione, che ora con banchi di ghiaccio, presti a liquefarsi, ora con massi di nebbie, mentisce altre isole od altri paesi; e che, mentre non ristà dall’adescare di vane speranze il vagabondo e di scoperte smanioso navigatore, lo inviluppa in portenti ed avventure, onde né sa esso liberarsi né trovarvi una meta. Prima però di commetterci a mare cosiffatto, e di tutte investigarne le dimensioni, per affidarci se pur siavi che sperare in esse, gioverà percorrere ancora dell’occhio la carta geografica del paese, onde saremmo per dipartirci, e vedere, in primo luogo, se fosse mai possibile accontentarci di quello che vi si trova, o se anzi non fossimo da necessità, costretti starcene ad esso contenti;
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caso che vana riescisse qualunque ricerca, o non esistesse altrove terreno, da per noi coltivarsi. E gioverà esaminare, in secondo luogo, a quali titoli già possediamo il paese in discorso, e come potressimo guarentircelo da ogni pretesa nemica. Quantunque, nel corso dell’analitica, siasi già bastevolmente soddisfatto a tali dimande, ciò non di meno un conto sommario del relativo scioglimento conforterà, se non altro, la persuasione, ch’esso riunisca, sotto un sol punto, i diversi articoli della quistione.
Vedemmo, cioè, che tutto quanto attinge, da sé medesimo, l’intelletto, senza prenderlo in prestito dalla sperienza, non può essere di altro aiuto e giovamento al primo, tranne assolutamente nell’uso della seconda. I principi fondamentali del puro intendimento, siano poi essi anticipatamente costitutivi (come i
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matematici), o siano semplicemente regolativi (come i dinamici), nulla in sé contengono, se non quasi unicamente lo schema puro per la possibile sperienza. Perciocché non tiene questa la propria unità, se non dalla unità sintetica della quale fa copia per sé stesso ed originariamente l’intelletto alla sintesi della forza immaginativa, nel concepimento, e colla quale debbono già trovarsi a priori d’accordo ed in relazione i fenomeni, come dati ad una possibile cognizione. Quantunque però vere, a priori non pure, queste regole dell’intelletto, che anzi d’ogni vero le sorgenti, vale a dire, dell’accordo fra il saper nostro e gli oggetti, come quelle che seco recano la base della possibilità della sperienza, qual complesso del sapere universale, poiché in essa ci si presentano gli oggetti, non pare tuttavia che ci basti la
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sola sposizione di quanto è vero, se non vi è pur quella di quanto siam vaghi di sapere. Se dunque, mediante questa indagine critica, non apparranno niente più di quanto, anche a manico di cosi fine investigazioni, avressimo appreso per noi stessi, nell’uso empirico ordinario dell’intelletto, non sembrerà degno di tanti preparativi e dispendio il profitto, che fosse per indi ridondarne. Al che sarebbe lecito rispondere che, trattandosi di estendere il nostro sapere, non è mai curiosità soverchia e nociva tanto, quanto quella che pretende, anticipata contezza dell’utilità, prima che alle ricerche abbandonarsi, e prima di potersi formare la minima idea di tale utilità, quand’anche fosse questa ostensibile all’occhio. Se non che vi è pure un vantaggio, cui può comprendersi ed apprezzarsi anche dal più tardo, svogliato e difficile
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allievo in cosiffatte indagini trascendentali; ed è vantaggio non sì tosto compreso che accetto. Perciocché, non d’altro occupandosi l’intelletto che del proprio uso empirico, e del proprio sapere non perscrutando le sorgenti, ben potrà far progressi, ma non potrà stabilirsi da sé i confini del proprio né mai scernere quanto è dentro e quanto fuori di sua sfera; essendo appunto perciò che si richiedono le profonde indagini, che imprese abbiamo. Ove poi l’intelletto non sappia distinguere se certe quistioni appartengono al proprio orizzonte o gli sono straniere, non sarà esso mai sicuro né di sue pretese né de’ suoi possedimenti, e non potrà che aspettarsi a copia di vergognose redarguzioni, trasmigrando (come non potrebbe a meno), senza essa, oltre i limiti del proprio dominio e smarrendosi fra capricci ed illusioni.
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Che dunque l’intelletto altro non possa fare impiego, se non empirico, e non mai trascendentale, di quanti sono i suoi principi a priori, anzi di tutte le proprie nozioni, questa è proposizione, che, ove si possa esserne consapevoli non pure che persuasi, conduce alle più rilevanti conseguenze. L’uso di un qualunque concetto è trascendentale, quando si riferisce per sé stesso alle cose in generale; se poi non si riferisce che alle apparizioni, vale a dire ad oggetti di sperienza possibile, in tal caso, l’uso di cui si tratta è soltanto empirico. Che non possa poi aver luogo generalmente se non quest’ultimo, lo si rileva da quanto segue. Prima di tutto a quel concetto si richiede la forma logica di un concetto (del pensare) in generale; in secondo luogo vi si ricerca eziandio di potergli offerire un oggetto, a cui
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esso risguardi. Senza quest’oggetto, il concetto non ha senso ed è affatto vuoto di contenuto; quantunque gli sia pur sempre inerente la forma logica, per costruire, da quandomai qualche dati, un concetto. Ora niun oggetto può essere altrimenti offerto ad un concetto che nella visione; e quand’anche sia possibile a priori una visione pura, che l’oggetto preceda, tuttavia non può questa conseguire né il proprio oggetto, né un valore obbiettivo con essolui, eccetto che per mezzo di un’empirica visione, come di quella, onde il concetto costituisce la forma. Dunque i concetti quanti sono e tutti con essi i principi, siano gli uni o gli altri a priori quanto si vuole, si riferiscono sempre ad intuizioni empiriche, voglio dire ai dati per quella che può mai aversi esperienza. Essi non godono, senza ciò, di alcun valore obbiettivo,
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ma consistono in mero giuoco dell’immaginazione o dell’intelletto; e così pure le rappresentazioni respettive. Prendi solo ad esempio i concetti matematici, anzi comincia dalle intuizioni pure della matematica: lo spazio ha tre dimensioni; fra due punti non può essere che una linea retta, e così di seguito. Quantunque vengano generate affatto a priori nell’animo, tutti questi principi, non che la rappresentazione dell’oggetto, onde si occupano le matematiche, essi non avrebbono tuttavia significazione, ove questa non potessero quelle scienze dimostrare ognora in apparizioni (oggetti empirici). Al che si richiede, in oltre, perché sensibile rendasi la separazione del concetto, si richiede, cioè, che venga esposto nella visione l’oggetto corrispondente al concetto, giacché rimarrebbe questi altrimenti, come
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dicono, privo di senso e senza significato. Adempie a questa bisogna e condizione la matematica, mediante la costruzione della figura, la quale von è altro che un’apparizione presente ai sensi (quantunque a priori prodotta). Il concetto della grandezza (quantità) cerca in tale scienza il suo senso e valore nel numero e questo lo cerca nelle cifre dell’abbacco, nelle dita, ovvero in punti o linee, che possano agli occhi sottoporsi. Il concetto rimane ognora prodotto a priori, unitamente ai principi sintetici, od alle formole indi provegnenti; ma l’uso ed il rapporto loro cogli oggetti supposti non possono altrove cercarsi finalmente, che nella sola sperienza; la cui possibilità (rispetto alla forma) è contenuta in quei concetti e principi.
Che lo stesso accada colle categorie, quante sono, e coi principi
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dalle medesime desunti, risulta manifesto, dacché non siamo in grado di neppure una definirne realmente, vale a dire di comprensibile rendere la possibilità dell’oggetto loro, senza tosto abbandonarci, non che ricorrere, alle condizioni della sensibilità, quindi alla forma delle apparizioni, a quella, cioè, cui, siccome all’oggetto unico delle dette categorie, debbono esse per conseguenza limitarsi: ché, togliendo altronde siffatte condizioni, cessa o si perde ogni significazione, ogni rapporto, cioè, coll’oggetto; quindi non rimane che di rendere comprensibile a sé stessi, per via d’esempi, ciò che, sotto siffatto concetto, è poscia immaginato propriamente come cosa.
Non è chi sia capace di spiegare il concetto della grandezza in generale, se non, per avventura, dicendo, esso consistere in quella tal determinazione di una cosa, per la
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quale può essere pensato quante volte possa l’uno capirvi, od esservi collocato. Questo quante volte però è fondato sulla ripetizione successiva, per conseguenza è fondato sul tempo e sulla sintesi (d’omogeneità) nel medesimo. La realtà non può, in contrapposto colla negazione, definirsi, tranne raffigurandosi un tempo (come il complesso di ogni essere), il qual tempo sia o riempiuto di qualche cosa o vuoto. Se ommetto la perseveranza (come quella che consiste nell’esistenza in ogni tempo), nulla mi rimane per la nozione della sostanza, fuorché la rappresentazione logica del soggetto, rappresentazione, cui suppongo di per ciò realizzare che alcuna cosa mi rappresento, la quale non può aver luogo, se non in qualità di soggetto (senza essere di nessun’altra predicato). Non è però che ignori soltanto le condizioni
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tutte quante, sotto le quali questa prerogativa logica potrà competere ad una qualsiasi cosa; ma essa non vale a niente altro e non se può cavare la menoma conseguenza, non essendo per essa determinato alcun oggetto ad uso di siffatto concetto: cosicché non si sa punto, né poco, se fosse mai per competergli un qualche significato. Sul concetto della causa, nulla più troverei (se ommetto il tempo, nel quale a qualche cosa ne succede qualche altra, conforme a qualche regola) nella pura categoria, tranne, darsi un certo non so che, onde potersi l’esistenza di un altro inferire; e con ciò rimarrebbero non solo indistinti, e da non potersi fra loro distinguere, causa ed effetto, ma, siccome a questa possibilità di conchiudere voglionsi prima di tutto condizioni, delle quali non saprei nulla, così quel
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concetto non avrebbe la minima determinazione del come quadrasse, o fosse per convenire, a qualche oggetto. Ben si presenta con gravità imponente, anzi che no, e quasi gonfio di merito proprio, il preteso principio, che stabilisce ogni cosa accidentale avere una causa. Ma io dimando: cosa intendete per accidentale? quello di cui è possibile il non essere, si risponde; ora sarei vago di sapere, a che si voglia mo riconoscere tale possibilità di non essere, a meno di una successione rappresentarsi nella serie delle apparizioni ed, in questa successione, un’esistenza, che succede al non essere (o viceversa), a meno, cioè, di rappresentarsi un’alternativa. Che non ripugni altronde in sé medesimo il non essere di una cosa, è meschina provocazione ad una condizione logica, necessaria bensì all’oggetto, ma lontanissima
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dal bastevolmente soddisfare alla possibilità reale. Perciocché, non ostante che possa togliermi dal pensiero una sostanza esistente, senza contraddire a me stesso, non posso però quindi né per ombra inferire l’accidentalità obbiettiva della medesima nella propria esistenza; vale a dire, la possibilità del suo non essere in sé medesima. Perciò che risguarda il concetto della comunanza, gli è ovvio il comprendere, che, siccome le categorie pure tanto della sostanza, quanto della causalità, non permettono veruna dichiarazione determinante l’oggetto, così anche l’efficienza reciproca, nella relazione delle sostanze tra di loro (nel commercio vicendevole), non sarà niente più suscettiva della mentovata dichiarazione. La possibilità, l’esistenza e la necessità non furono ancora dichiarate per nessuno, tranne con
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manifestissima tautologia (idem per idem), quantunque volte si avvisò di unicamente attingerne la definizione del puro intelletto. Perciocché l’inganno di scambiare o fare scomparire la possibilità logica del concetto (attesoché non ripugnante a sé medesimo), sotto la trascendentale possibilità delle cose (dove alla nozione corrisponde un oggetto), non può illudere, né imporre soddisfazione, che agl’inesperti(1).
(1) In una parola, se togli ogni visione sensitiva (la sola, che possediamo), tutti questi concetti non si possono appoggiare né può quindi provarsi la possibilità loro; e non rimane, per conseguenza, che la possibilità logica, essere, cioè, il concetto (il pensiero) possibile; del che ora non è quistione, ma si tratta, s’egli riferiscasi ad un oggetto e se abbia quindi una qualche significazione.
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Dal che risulta irrefragabilmente, non potere i concetti puri dell’intelletto essere giammai di uso trascendentale, ma soltanto empirico, ed il rapporto dei principi di ragione pura limitarsi unicamente alle condizioni universali di una sperrienza possibile, voglio dire, agli oggetti dei sensi, né mai esser eglino da riferirsi da riferirsi alle cose in generale. (senza rispetto al modo attenendoci al quale, fossimo per conseguirne intuizione).
È quindi risultamento importantissimo dell’analitica trascendentale, che non può mai l’intelletto fornire a priori nulla più che l’anticipazione in generale della forma della possibile sperienza e che, non potendo essere oggetto di questa ciò che non è apparizione, l’intelletto non può mai trascendere i cancelli, entro i quali solamente ci vengono
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offerti gli oggetti(1). I suoi principi non sono che principi della sposizione delle apparizioni; ed il nome altiero di un’Ontologia, la quale si arroga di fornire, in una dottrina sistematica, nozioni sintetiche delle cose in generale (p. e.
(1) Ma cosa è mai, cui possiamo sapere degli oggetti, secondo Kant? Che di fatto esistano al di là della sfera di nostre rappresentazioni, non lo sappiamo in maniera diretta ed immediata, ma in grazia di una deduzione, che l’autore ci offre qual risultamento della coscienza di noi stessi che non è ancora cognizione. Se vogliamo in seguito considerare questi oggetti, quali sono in sé medesimi, oltre la sfera di nostre percezioni e rappresentazioni, anche in tal caso non abbiamo, né possiamo avere, cognizione alcuna risguardo ad essi. Siamo dunque ridotti a non sapere ciò ch’ei sono, ma quello soltanto per cui ci appaiono attraverso la forma delle nostre proprie facoltà.
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il principio dell’efficienza), deve cedere il posto al nome assai più discreto e modesto di una semplice analitica del puro intendimento.
Il pensare consiste nell’operazione di riferire una data intuizione ad un oggetto. Se non è dato in verun modo il genere di cotesta visione, l’oggetto è solo trascendentale ed altro non hanno i concetti dell’intelletto trascendentale; vale a dire, l’unità del pensare il moltiplice in generale. Ora mediante una categoria pura, nella quale vien fatto astrazione da tutte condizioni dell’intuizione sensitiva, come della sola, che ci è possibile, non viene per conseguenza determinato alcun oggetto, ma viene soltanto espresso il pensare generalmente un oggetto ne’ diversi suoi modi. All’uso, per altro, di concetto si richiede inoltre un’altra funzione della facoltà giudicante,
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nella quale viene assunto un oggetto sotto quel concetto; quindi è necessaria per lo meno la condizione formale, data la quale, può essere anche dato alcunché nella visione. Mancando questa condizione della facoltà del giudizio (schema), manca e cessa ogni assunzione; giacché non è dato nulla, che si potesse assumere sotto il concetto. Non è dunque uso, nel fatto, il solo uso trascendentale delle categorie, né ha desso alcun oggetto determinato e né tampoco, determinabile secondo la forma. Quindi ne viene, che la pura categoria non è atta o non giunge nemmeno ad alcun principio sintetico a priori, che l’uso dei principi del puro intendimento è soltanto empirico, non mai trascendentale, e che, oltre il campo di quanta può essere l’esperienza, non è dove possano incontrarsi principi sintetici a priori.
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Potrà essere quindi opportuno l’esprimersi come segue: Le categorie pure, senza condizione formale della sensibilità, non hanno significazione, che non sia trascendentale: non sono tuttavia di alcun uso trascendentale; perciocché impossibile questo in sé stesso, mancando alle categorie tutte le condizioni, perché fossero comunque impiegate (ne’ giudizi), mancando, cioè, loro le condizioni formali per l’assunzione di qualunque oggetto supponibile a siffatti concetti. Non dovendo esse pertanto (come semplici categorie pure) servire ad alcan uso empirico e non potendo averne di trascendentale, rimangono di nessunuso, tuttavolta che vengano segregate da ogni sensibilità; voglio dire, non potersele applicare a verun oggetto supponibile. Esse consistono piuttosto nella sola forma pura dell’uso dell’intendimento,
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rispetto generalmente agli oggetti ed al pensare, senza che sia però lecito, la sola mercé di loro, né pensare, né determinare alcun oggetto.
Qui sotto però sta celato un’illusione, cui è difficilissimo evitare. Le categorie non sono fondate, rispetto all’origine loro, sulla sensibilità, come lo sono le forme della visione, spazio e tempo; e sembrano quindi permettere, perché vengano estesamente applicate a tutti gli oggetti dei sensi. D’altra parte però non son elle, per sé medesime, se non forme del pensare, alle quali è solo inerente la facoltà logica di riunire per anticipazione in una coscienza, il moltiplice dato nella visione. Quando, se leviamo alle categorie l’intuizione, che sola ci è possibile, hanno esse ancor meno significato che le dette forme sensitive pure, per le quali è,
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per lo meno, dato un oggetto; giacché non significa nulla del tutto una semplice maniera di congiungere il moltiplice, qual è la propria del nostro intelletto, se non vi si aggiunge la mentovata intuizione; come la sola, ove può essere dato quel moltiplice.
Ciò non di meno però, allorché diamo nome di apparizioni od esseri dei sensi (phaenomena) a certi oggetti, e dalla qualità loro, in sé stessi, distinguiamo il modo, con ch’ei sono per noi ravvisati, è già inerente al nostro concetto il perché a quelle apparizioni e cose dei sensi contrapponiano, e chiamiamo esseri o cose intellettuali (noumena), o gli stessi oggetti, secondo la dianzi accennata qualità, quando pure non ravvisata in essi, od anche altre cose possibili, che oggetti non sono dei nostri sensi, in verun modo, e vengono
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solo pensati, come tali, dall’intelletto. Ora si dimanda, se i nostri concetti intellettuali pari non abbiano forza e significazione, rispetto a questi ultimi esseri, e s’ei consistessero in una maniera di conoscere dei medesimi (in nomeni)(1).
(1) Allorché gli oggetti si pensano sotto le forme dell’intuizione, conformemente all’unità sintetica delle categorie, si chiamano fenomeni. È però possibile, secondo Kant, il concepire oggetti, che venissero forniti all’intelletto da altra intuizione che la sensitiva, e che l’intelletto avesse per conseguenza la facoltà di conoscere siffatti oggetti; e sarebbero i nomeni. Sopra un supposto analogo è fondata la distinzione ammessa in filosofia, da Platone in poi, tra le cose sensibili e le intelligibili; distinzione, alla quale Kant non fa che dare un significato alquanto diverso. Perciocché non le attribuisce una differenza meramente logica nella cognizione degli oggetti, risguardo alla maggiore o minore loro chiarezza, ma una diversità specifica negli oggetti medesimo.
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E nasce già da principio, su questo proposito, un’ambiguità, la quale può dar motivo a molto sinistra interpretazione; perciocché l’intendimento, chiamando fenomeno un oggetto, soltanto sotto, un rapporto, si fa nello stesso tempo, ed oltre questo rapporto, una seconda rappresentazione di oggetto per sé stesso, e quindi s’immagina poter essa in oltre, con tal rappresentazione, costituirsi concetti di simili
Oltre di che, non sono già da cercare i nomeni o gli enti intelligibili nelle cose in sé stesse; perciocché la cosa in sé medesima, come oggetto trascendentale, riducesi al nulla, ove sia mestieri concepirla senza verun carattere sensitivo. Tuttavia, siccome il fenomeno si riferisce via sempre a qualche cosa, che dalla sensibilità non dipende, così ne viene, potersi ammettere la cosa in sé stessa, ovvero il nomeno, come un oggetto, fornito bensì da un’intuizione, ma non sensitiva.
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oggetti: e, mentre non può fornire del proprio che le categorie, pare allo stesso intendimento, comeché, nell’ultima significazione, per lo meno, possa l’oggetto essere pensato, la mercé di questi concetti puri intellettuali. E così veniamo sedotti a considerare qual concetto determinato di cosa, cui non possiamo riconoscere in verun modo coll’intendimento, il concetto affatto indeterminato di un essere intellettuale, come di qualche cosa fuori della nostra sensibilità, in generale.
Quando, sotto la parola nomeno, intendiamo una cosa, in quanto non è dessa oggetto della nostra visione sensitiva, facendosi per noi astrazione dalla maniera di ravvisarla, in tal caso, la cosa è nomeno in senso negativo. Se però intendiamo, sotto questo nome, un oggetto di non sensitiva intuizione, veniamo quindi ad anmettere una
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specie particolare di visione, voglio dire, la intellettuale; la quale però non è nostra, che anzi non ci è neppure concesso rilevarne la possibilità: e ciò sarebbe il nomeno in significazione positiva.
Ora la dottrina della sensibilità è nello stesso tempo dottrina dei nomeni in senso negativo, delle cose, cioè, che deve raffigurarsi l’intelletto, senza il detto rapporto alla nostra maniera di vedere, quindi non come apparizioni soltanto, ma come cose in sé medesime. Sulle quali però, già in questa separazione, comprende l’intelletto, non poter egli fare alcun uso di sue categorie, considerate in questa maniera, come di quelle che non hanno significazione, tranne rispetto all’unità delle apparizioni nello spazio e nel tempo, e che tale unità non possono determinare a priori, se non mediante nozioni congiuntive
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universali, e per la sola idealità dello spazio e del tempo. Dove non s’incontra siffatta unità di tempo (né la si può incontrare nei nomeni), cessa del tutto qualunque uso, anzi ogni significazione, delle categorie; giacché non può allora in alcun modo rilevarsi la stessa possibilità delle cose, che debbono corrispondere agli oggetti. Su di che non posso che riportarmi a quanto fu avvertito sin dal principio dello scolio generale al capo antecedente. Solché la possibilità di una cosa non è mai dimostrabile dalla sola non ripugnanza del di lei concetto, ma perciò che tale concetto corredato venga e munito quasi da intuizione ad esso lui corrispondente. Se volessimo pertanto applicare le categorie ad oggetti, che non potessero essere osservati come apparizioni, ci sarebbe mestieri di sopra un’altra visione fondarci;
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ed allora l’oggetto diventerebbe nomeno in significato positivo. Ora, essendo affatto straniera una tal visione, voglio dire l’intellettuale, alla nostra facoltà di conoscere, anche l’uso delle categorie non può assolutamente oltrepassare i confini degli oggetti della sperienza: e le nature intelligibili (nomeni) corrispondono bensì alle sensitive, o vi saranno fors’anche dei nomeni, ai quali non avrà punto relazione la nostra facoltà intuitiva sensibile; ma non appartengono a questi, né per ombra tant’oltre protendono, le nostre nozioni dell’intelletto, nella qualità loro di mere forme del pensiero nella nostra visione sensitiva. Ciò cui dunque appelliamo nomeno dev’essere, come tale, ricevuto soltanto in significato negativo(1).
(1) Dietro i riportati argomenti non
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Non prima tolgo e distacco, da un’empirica nozione, ogni pensare
parrebbe rivocare in dubbio a possibilità di un’intuizione diversa dalla sensitiva, sebbene tale intuizione sarebbe impossibile all’uomo, siccome a quello, il cui sapere va inseparabilmente collegato colle condizioni della sensibilità. L’idea del nomeno, adunque, non potrà mai essere da noi realizzata, né mai si potrà conoscere un mondo intelligibile reale, che sia in opposizione col mondo fisico. La qual verità è già dimostrata per la stessa indole del mondo intelligibile di Platone; il qual mondo consta in gran parte di concetti universali, presi però in prestito, in quanto al materiale o contenuto, dalla sperienza, ed ai quali concetti non corrisponde assolutamente alcuna realtà intelligibile obbiettiva. Per conseguenza l’uso dei nomeni è soltanto negativo, e non sarà mai possibile acquistare per essi alcuna cognizione sensitiva degli oggetti. L’utilità loro consiste in circoscrivere, secondo Kant, le pretese della nostra sensibilità, come della sola facoltà, cui possediamo per conoscere gli oggetti
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(mediante categorie), che non vi sopravanza più la minima cognizione di un oggetto qualunque; si perché non si pensa il gran nulla colla sola visione, sì perché l’essere in me tale affezione della sensibilità non costituisce alcun rapporto di simili rappresentazioni con qualsivoglia oggetto. Se tolgo, per lo contrario e lascio da banda ogni visione, rimane pur sempre la forma del pensare; voglio dire la maniera, per la quale stabilire un oggetto al moltiplice di una visione possibile. Che se le categorie
reali. La detta circoscrizione poi risguarderebbe alla dai nomeni emergente possibilità di altra intuizione, oltre quella dei sensi, ed al farci quindi scorti che, per tale intuizione diversa dalla nostra, non che impossibile a noi, sarebbe quandomai possibile acquistare la cognizione positiva e reale, della quale si discorre.
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si estendono più oltre che la visione sensitiva, ciò è perch’esse raffigurano in generale oggetti, senza badare al modo speciale (alla sensibilità), in che possono questi esser dati. Ma non esse perciò stabiliscono una sfera più ampia di oggetti; giacché non si può ammettere venir questi offerti come tali, a meno di supporre possibile altra maniera di visione che la sensitiva: ed è supposizione, alla quale non siamo per verun conto autorizzati.
Chiamo problematico il concetto, nel quale non cape ripugnanza; che, in qualità di circoscrivente concetti dati, sia in oltre coerente con altre cognizioni; e del quale non sia riconoscibile in alcun modo la realtà obbiettiva(1). Non è
(1) Quando nella critica si ragiona di realtà, si allude sempre alla fenomenale o
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punto contraddicente il concetto di un nomeno, vale a dire, di cosa che,
delle apparizioni; giacché l’assoluta realtà, quella delle cose in sé stesse o dei nomeni, vi è dichiarata inarrivabile dall’umano intendimento. Così, parlandosi di proprietà obbiettive, non se intendono quelle degli oggetti per sé medesimi, o le proprietà intrinseche ad essi ed assolute; ma quelle soltanto, che in essoloro appariscono, e vi hanno perciò fondamento, quantunque se ne dichiari sconosciuto il principio. Imperocché la connessione dei fenomeni, la quale costituisce la sperienza, è il risultamento di leggi estranee agli oggetti (subbiettive); onde ne viene, che le così dette leggi di natura si risolverebbono in quelle regole, o leggi, alle quali è sottoposto il nostro animo, in virtù della propria costituzione.
La massima fra le difficoltà della dottrina di Kant risguarda ciò che possono essere gli oggetti per sé medesimi; né saprei se tale difficoltà venga resa maggiore, come avvisa Buble, dall’avere sostituito all’abitudine di attenerci a pensamenti profondi, ed esprimerli con sottigliezza e precisione
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né per ombra qual oggetto dei sensi, ma dev’essere pensata qual cosa
scientifica, l’abitudine di popolarizzare la filosofia. Ritenuto, essere idea vuota cosa per sé stessa come la suppongono i principi della critica, Boeck espose in un modo affatto nuovo questa filosofia; dichiarando essere assolutamente indeterminata la detta cosa in sé medesima (come quella che non esiste, se non in forza dell’animo, che determina l’esistenza e le qualità delle cose) e fondarsi ogni realtà di cognizione sulle nostre idee subbiettive primordiali e sulle leggi respettive. E, rendendo affatto idealistica la detta dottrina, mostrò non potere in veruna di lei parte riconoscersi opinione, che attribuisca un’assoluta esistenza, fuori del nostro pensiero, alla cosa per sé stessa, nemmeno come tale, che solo sfuggisse ai nostri sensi. Stando in fatti alla critica, nulla esiste realmente fuori di noi; ma tutto quanto ci pare a noi estrinseco è fondato unicamente sul nostro pensiero, non sussiste che in esso e per essolui. Il quale scolio del kantismo, se non corrisponde, a rigor di termini,
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in sé stessa (unicamente mediante il puro intelletto); conciossiaché non si può già pretendere, la sensibilità essere l’unica maniera possibile d’intuizione. È in oltre necessario tale concetto, sì perché la visione sensitiva non si estenda sin
alle relative dottrine, risponde però allo spirito delle medesime: e Fichte giudicò esattamente, allorché disse, Boeck essere stato il primo a colpire il vero senso del criticismo. Solché, facendolo, per tal modo, idealistico del tutto, venne ad, anche non volendo, condannarlo, per così dire, al tribunale della sana ragione; come di quella che non potrà mai acquetarsi ad un pretto idealismo. Le opere di Boeck, alle quali si allude sono: L’abozzo della filosofia critica (Grundriss der kritischen Philosophie) e L’unico punto di vista, da cui giudicarla (Einzegmöglicher Standpunct zur Beurtheilung der kritischen Philosophie). Il titolo di quest’ultima fu motivo, perché Reinhold la chiamasse filosofia del punto di vista (Standspunct-Philosophie).
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oltre le cose in sé medesime, sì per così circoscrivere il valore obbiettivo della cognizione dei sensi. (Perciocché si da nome di nomeni al rimanente, ove non giunge quella visione, appunto per quindi avvertire, non potere la detta cognizione il proprio dominio estendere sopra tutto quanto, cui pensa l’intendimento.) Ma non può finalmente rilevarsi la possibilità di siffatti nomeni e tutto è vuoto (per noi) al di là della sfera delle apparizioni, vale a dire, che un intelletto possediamo, il quale si dilata problematicamente oltre la detta sfera; ma non abbiamo intuizione, anzi neppure concetto di una visione possibile, per la quale potessero e venirne offerti oggetti, passato una volta il campo della sensibilità, ed ivi adoperarsi assertoriamente l’intelletto. Dunque il concetto del nomeno è concetto di limitazione, onde
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circoscrivere le pretese della sensibilità; e non sarà, per conseguenza, che negativo il di lui uso. Tuttavia non è desso immaginato ad arbitrio, ma concorda colla circoscrizione del senso; in modo però che non può alcuna cosa di positivo stabilirsi, oltre la periferia del medesimo.
Non è pertanto ammissibile assolutamente, in significazione positiva, né il riparto degli oggetti in nomeni e fenomeni, né quello del mondo in sensitivo ed intellettuale, quantunque ammissibile benissimo la distinzione dei concetti in intellettuali e sensitivi; giacché non può coi primi determinarsi alcun oggetto, né quindi attribuirgli valore obbiettivo. Come rendere mai concepibile, se abbandoniamo i sensi, qualmente abbiano ancora significato e forza dovunque le vostre categorie? (Le quali sarebbero i soli concetti
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che rimanessero per i nomeni). Onde in fatti le si possano riferire ad un qualche oggetto, richiedesi qualche cosa di più, che la sola unità del pensare; si richiede, cioè, una in oltre possibile visione, alla quale sia lecito quelle applicare. Cionnondimeno il concetto del nomeno, preso in senso unicamente problematico, è non pure ammissibile, ma sì eziandio indispensabile, come concetto che prescrive limiti e cancelli alla sensibilità. Frattanto però non solo non consiste (il nomeno) in un oggetto intelligibile, particolare al nostro intelletto; ma sarebbe problematico se lo stesso intelletto, cui esso appartenesse, fosse per conoscere il proprio oggetto, scorrevolmente non già, e mediante categorie, ma intuitivamente ed in altra visione che sensitiva, come oggetto, sulla possibilità del quale non ci fosse
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permessa la minima rappresentazione. È dunque negativa la dilatazione, che ridonda per tal modo, al nostro intendimento, voglio dire lui non essere dalla sensibilità circoscritto, ma limitarsi piuttosto questa per esso, quando ei chiama nomeni le cose per sé medesime (non considerate quali apparizioni). Ma, oltre ciò, l’intelletto stabilisce nello stesso tempo tali confini a sé stesso, da non poter egli conoscere i nomeni per mezzo di nessuna categoria, e da potere solamente pensarli, sotto nome di uno sconosciuto alcunché.
Trovo per altro, negli scritti dei moderni, usate in tutt’altro senso l’espressioni di mondo sensibile ed intelligibile(1): il qual senso è diverso
(1) Non dovrebbe a questa voce sostituirsi, come generalmente si pratica (in Germania massime), quella di mondo intellettuale;
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affatto da quello degli antichi; e, mentre non vi s’incontra veruna difficoltà, non vi si trova però altro che scambio e traffico di vane parole. Così piacque ad alcuni di chiamare mondo sensitivo il complesso delle intuizioni, in quanto le vengono ravvisate, e di chiamarlo intellettuale, in quanto è pensata la connessione delle medesime, giusta le leggi universali dell’intelletto. L’astronomia teoretica, siccome quella, che solo espone quanto si osserva nella volta stellata dei cieli, rap rappresenterebbe il mondo sensibile; la contemplativa
giacché non sono intellettuali o sensitive se non le cognizioni. Ma ciò che può essere unicamente soggetto all’una od all’altra maniera d’intuizione, quindi gli oggetti, voglionsi chiamare intelligibili, o sensibili, non ostante la qualche durezza di questi vocaboli (nell’idioma tedesco).
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per lo contrario (dichiarata o secondo forse il sistema di Copernico, o giusta fors’anche le leggi della neutoniana gravitazione), renderebbe rappresentabile il secondo, vale a dire il mondo intelligibile. Tale stravolgimento di parole però non è che un rifugio sofistico, affine di evitare una molesta quistione, accomodandone il senso a proprio beneplacito. Rispetto alle apparizioni, è sempre lecito l’uso, non vi ha dubbio, sì dell’intelletto che della ragione; ma si chiede se possa tal uso aver luogo allorché l’oggetto non è apparizione (ma nomeno) e che se lo prende in questo significato, benché solamente intelligibile, pensato, cioè dal solo intelletto, anzi che offerto per nulla dai sensi. La dimanda è dunque: Se, oltre il detto uso empirico dell’intelletto (nella stessa costruzione del mondo, rappresentata secondo
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Newton), ne sia possibile anche un uso trascendentale, che il nomeno risguardi, qual oggetto: ed è questa la dimanda, cui ho riscontrata, negando.
Allorché diciamo pertanto, i sensi rappresentarci gli oggetti, quali essi appaiono, e l’intelletto, com’ei sono, questo secondo non vuol essere preso in significazione trascendentale, ma soltanto empirica; vale a dire: com’essi deggiono rappresentarsi, quali oggetti della sperienza, in assoluta e costante connessione delle apparizioni e non secondo ciò ch’ei potrebbono essere, oltre ogni rapporto colla sperienza possibile, e, per conseguenza, coi sensi; quindi quali oggetti del puro intendimento. Ché ciò è quanto ne resterà sempre sconosciuto; e ci rimane ignoto persino se mai possibile sia generalmente cosiffatto sapere straordinario (trascendentale),
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almeno come tale, dove fosse alle ordinarie categorie subordinato. Solo quando congiunti, l’intelletto e la sensibilità possono in noi determinare oggetti. Tosto che l’uno dall’altra dividiamo e viceversa, ci rimangono apparizioni senza concetti, oppure concetti senz’apparizioni; ma, nell’un caso e nell’altro, abbiamo rappresentazioni da non potersi per noi riportare a verun oggetto determinato.
Se fosse chi, tutte non ostanti le fin qui esposte cose, dubitasse di rinunziare al semplice uso trascendentale delle categorie, ne faccia l’esperimento in una qualche asserzione sintetica. Imperocché le analitiche non fanno progredire l’intendimento; e, non egli allora occupandosi che di quanto è contenuto nel concetto, non decide se questo riferiscasi all’oggetto per sé medesimo, o non significhi se non
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generalmente l’unità del pensare (nella quale vien fatto astrazione dal come possa essere dato un oggetto). Conciossiaché gli basta sapere cosa è inerente al proprio concetto e gli è indifferente a qual oggetto, possa esso riportarsi. Ma si faccia la prova con un principio sintetico, cui si supponga trascendentale, come sarebbe: tutto quanto esiste, esiste come sostanza, o qual determinazione inerente alla medesima; oppure: ogni accidentale esiste qual effetto d’altra cosa, cioè, della sua causa, e così discorrendo. Ora, dimando io, donde si caveranno coteste proposizioni sintetiche poiché, non in rapporto colla sperienza possibile, ma debbono i concetti aver valore di cose per sé stesse (nomeni)? Dove sarà, in tal caso, il terzo, cui si richiede mai sempre in una proposizione sintetica, onde insieme congiungere concetti,
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non aventi fra loro alcuna logica affinità (analitica)? Non sarà mai caso che si provi la propria asserzione, anzi non si potrà, quel che più importa, neppure legittimarne la possibilità, come pura, senza riportarsi all’uso empirico dell’intelletto, abdicando con ciò pienamente ad un giudizio puro e libero dai sensi. Quindi è che la nozione di oggetti puri e meramente intelligibili è affatto priva d’ogni principio fondamentale alla di lei applicazione; poiché non è possibile immaginarsi la maniera, in ch’ei vengono dati. E, non ostante che il pensiero problematico lasci pure aperto un qualche posto a’ medesimi, esso non serve tuttavia che a limitare, quale spazio vuoto, i principi empirici, senza però in sé contenere, né accennare, altro qualunque oggetto di cognizione, oltre la sfera degli ultimi.