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Se faccio astrazione dal contenuto del diritto pubblico (quale è secondo i varii rapporti empirici di fatto esistenti fra gli uomini in uno Stato e fra gli Stati), come generalmente lo concepiscono i giuristi, me ne rimane ancora la forma della pubblicità; in questa è contenuta ogni possibilità di richiamo al diritto, e senza di essa non potrebbe esistere alcuna giustizia, che solo è concepibile come resa pubblicamente, né, pertanto, alcun diritto.
Ogni pretesa giuridica deve aver la facoltà di esser pubblica, e siccome agevolmente si può giudicare, in un dato caso, se questa facoltà vi si trovi conforme ai principii dell’agente, essa può valere di criterio a priori per riconoscere subito la falsità (illegittimità, Rechtswidrigkeit) della pretesa accampata.
Fatta, dunque, astrazione da tutto ciò che l’Idea di diritto pubblico ed internazionale contiene d’empirico (come, ad esempio, la massima che la coazione sia resa necessaria dalla malvagità insita nella natura umana), avremo la formola seguente, che potremo chiamare Formola trascendentale del diritto pubblico:
«Tutte le azioni relative al diritto altrui, le cui massime non comportino la pubblicità, sono ingiuste».
Questo principio non è da considerarsi soltanto proprio all’Etica, ma bensì anche pertinente ai diritti dell’uomo, cioè giuridico.
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Poiché una massima che non si osa procalmare, senza render vana con ciò la mia pretesa, che dev’esser completamente occulta se vuol riuscire, e che io non posso professare in pubblico, senza eccitare l’incessante opposizione degli altri, una tale massima non può attirarsi questa contrarietà di tutti, contrarietà necessaria e prevedibile, che a causa dell’ingiustizia di cui li minaccia.
Un tal principio, inoltre, è puramente negativo, cioè serve soltanto per riconoscere ciò che non è diritto contro altrui.
È simile ad un assioma inflessibilmente certo e di facile applicazione, come risulterà dai seguenti esempi di diritto pubblico.
In quanto riguarda il diritto pubblico (jus civitatis) interno, si presenta la questione, che molti ritengono difficile a sciogliere, e che il principio trascendentale della pubblicità risolve d’un tratto: è la ribellione un mezzo legittimo, per un popolo, di liberarsi dal giogo opprimente di un tiranno (non titulo, sed exercitio talis»(1)? I diritti del popolo sono violati e non si commette ingiustizia verso il tiranno, detronizzandolo; ciò è fuori d’ogni dubbio. Ciò non pertanto è pur sempre ingiusto da parte dei sudditi il far valere in tal guisa i propri diritti, né potrebbero lagnarsi d’ingiustizia qualora, soggiacendo nella lotta, fossero colpiti colle punizioni più dure.
Se vorremo decidere tal quistione con deduzioni dogmatiche dai principii del diritto, andremo argomentando a lungo il pro e il contro: ma il nostro
(1) Non tale di nome, ma di fatto.
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principio trascendentale ci risparmia tutte queste lungaggini.
Che un popolo domandi a se stesso, prima che si istituisca il contratto sociale, se oserebbe pubblicar la massima, di riservarsi il diritto all’insurrezione in un dato caso. È evidente che se, fondando una Costituzione, il popolo stipulasse la condizione di potere, in talune circostanze, impiegare la forza contro il Capo, si arrogherebbe su di lui un potere legittimo. Ma allora il Capo non sarebbe tale, e volendo fare di quella riserva una clausola della Costituzione, questa non sarebbe possibile, ed il popolo non conseguirebbe i suoi intenti. L’ingiustizia della ribellione si manifesta in quanto che professandola pubblicamente si renderebbe frustranea la massima che la permette. Bisognerebbe, adunque, tenerla segreta.
Così non avviene però da parte del Capo. Egli può liberamente dichiarare che punirà colla morte ogni istigatore di rivolta, quando anche questi credessero aver egli pel primo violata la legge fondamentale. Il Capo, difatti, deve possedere un’autorità irresistibile, poiché altrimenti non avrebbe il diritto di comandare, né il potere di proteggere i cittadini gli uni contro gli altri; e sentendosi egli investito di tale facoltà, non può temere di agire contro le proprie mire, facendo conoscere la sua massima.
Altra conseguenza, conforme e coerente al principio stabilito, si è che, ove il popolo riesca nella sua ribellione, ritornando quel Capo ad essere un semplice suddito, non debba ripetere le sommosse per riacquistare il potere, e neppure essere molestato o reso responsabile del precedente suo governo.
Per quanto riguarda il diritto
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internazionale. – Questo presuppone necessariamente uno stato di cose giuridico, nel quale solo può, invero, farsi parola di un dirittopubblico: poiché nell’esistenza di esso comprendesi la proclamazione della volontà generale determinante il diritto di ognuno. Questo Stato giuridico deve provenire da qualche patto anteriore fondato, non su leggi coattive, ma sopra un’associazione permanentemente libera, come la Federazione menzionata più sopra. Poiché, in assenza di qualsiasi condizione giuridica che unisca efficacemente le varie persone, fisiche o morali, cioè nello stato di natura, non vi può esser altro che un diritto privato.
E qui pure si palesa, fra la politica e la morale, considerando questa come dottrina giuridica, un dissidio facile a comporsi; naturalmente, nella sola ipotesi che la federazione degli Stati si stabilisca per mantenere la pace e, in verun modo, per far conquiste.
Si presentano ora i seguenti casi di antinomia fra politica e morale, colle soluzioni loro:
a) «Allorché uno Stato ha promesso ad un altro dei soccorsi, la cessione di qualche provincia, o sussidi, ecc., si chiede se il Capo di quello Stato può sciogliersi dalla parola data, qualora la salute del paese ne sia compromessa, attesoché egli deve esser considerato come rivestito di due caratteri; primo, qual sovrano che nel suo Stato non è responsabile verso alcuno, e secondo qual supremo finzionario che deve render conto ai suoi concittadini; di guisa che nella seconda sua qualità possa disimpegnarsi dagli obblighi contratti nella prima».
Si scorge subito che se uno Stato o il suo Capo
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rendessero pubblica una tal massima, naturalmente tutti gli altri eviterebbero di trattare con lui, o si coalizzerebbero per opporsi alle sue pretese; lo che prova che la politica nonostante la sua astuzia, rovescierebbe da sé stessa il suo proprio scopo, ove agisse francamente, e in conseguenza quella massima dev’essere ingiusta.
b) «Se una potenza divenuta formidabile (potentia tremenda) è oggetto di preoccupazione da parte di vicini, si può egli ammettere che essa vorrà opprimere, perché lo può, ed hanno pertanto, le Potenze minori, diritto di allearsi per aggredirla, anche senza una previa offesa»? Uno Stato che professasse pubblicamente una tal massima si attirerebbe, anche più presto e sicuro, il male che vuol evitare. Poiché la Potenza maggiore saprebbe prevenir le più piccole, e, per quanto riguarda una loro coalizione, è questo un ben magro appoggio contro chi sa ben impiegare il divide et impera.
Una tal massima, adunque, se resa pubblica, sconcerta necessariamente il proprio scopo ed è, pertanto, ingiusta.
c) «Allorché un piccolo Stato, a causa della sua posizione, impedisce la coesione necessaria alla conservazione di uno maggiore, nonè questi autorizzato ad assoggettarsi l’altro»? È facile scorgere che lo Stato più grande non può palesare fin da prima una massima simile, giacché o gli Stati minori si unirebbero in tempo, od altri maggiori gli contesterebbero questa preda, talché questa massima, col divenir pubblica, si rende ineffettuabile, segno che è ingiusta in sommo grado, né importa che l’oggetto dell’ingiustizia sia piccolo, quando questa è grande.
3. Per ciò che riguarda il diritto cosmopolitico
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taccio, essendo facile di formularne ed apprezzarne le massime, attesa l’affinità sua col diritto internazionale.
Nel principio dell’incompatibilità delle massime del diritto pubblico colla pubblicità, abbiamo dunque un contrassegno da cui possiamo distinguere la non conformità della politica colla morale (qual fondamento del diritto). Trattasi ora di conoscere le condizioni sotto cui tali massime si trovano d’accordo col diritto delle genti, giacché non si può, reciprocamente, conchiudere della giustizia di una massima dalla sua notorietà possibile, non essendo costretto a nascondere le proprie idee chi possiede una forza decisivamente superiore.
La prima condizione pella esistenza di un diritto delle genti è, anzitutto, che vi sia l’ordine giuridico. All’infuori di questo, nello Stato di natura, ogni diritto è meramente privato. Orbane, abbiamo visto più sopra che non vi è altro ordine giuridico compatibile colla libertà di uno Stato, all’infuori di una federazione pel mantenimento della pace. L’accordo della politica colla morale non può dunque aver luogo che per mezzo d’una associazione siffatta, fondata sui principii razionali del diritto: Ogni politica deve avere per base giuridica lo stabilirla, dandole la massima estensione, altrimenti che insipienza e dissimulata ingiustizia!
Questa tale politica doppia ha, però, una casuistica che, pel numero e la sottigliezza delle distinzioni, può rivaleggiare con quella dei gesuiti. Anzitutto la restrizione mentale, reservatio mentalis, nel redigere i
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trattati con espressioni tali che si prestino a doppio senso, per poterli poscia interpretare a proprio vantaggio; per esempio, la distinzione fra lo status quo di fatto e quello di diritto: il probabilismo, che attribuisce ad altri delle intenzioni ostili, od anche una loro verosimile preponderanza, e se ne fa pretesto per tramare la rovina di Stati pacifici; e, finalmente, il peccatum philosophicum (peccatillum, bagatella), che permette di considerare come perdonabile inezia, che uno Stato grande assorba un altro piccolo sotto lo specioso pretesto di un maggior bene per l’uman genere(1).
Un appoggio a tutte queste massime, la politica doppia lo trova nella morale medesima, di cui sa impiegare una parte o l’altra a suo profitto. Benevolenza e rispetto ai diritti degli uomini sono doverosi; ma l’una è dovere solamente condizionale, l’altro è incondizionale e imperativo. Bisogna assicurarsi di non aver mancato al secondo per potersi abbandonare al dolce sentimento del beneficare.
La politica si accorda facilmente colla morale (come Etica dei costumi) nel dare in balia i diritti degli uomini ai loro superiori, ma non appena la morale (quale
(1) Esempi dell’applicazione di tutte queste massime di troveranno nella dissertazione del signor cons. Garve: Sull’unione della politica colla morale, 1788. Questo rispettabile scienziato confessa, fin da bel principio, di non poter risolvere, in modo soddisfacente, tale questione. Ma l’approvare questa unione, senza credere di poter confutare le obbiezioni che vi si oppongono, è un concedere più di quanto si deva a coloro che son già troppo disposti ad abusare d’una simile concessione.
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fondamento dei diritti), determina questi, in allora la politica, anziché prostrarsi ad essa, come dovrebbe, reputa conveniente di combatterla, negandole ogni realtà, e riducendo tutti i doveri alla benevolenza. Questa doppiezza, però, di una politica tenebrosa verrebbe tosto smascherata dalla pubblicità delle sue massime, che la filosofia metterebbe a nudo, se quella avesse il coraggio di permettere che i suoi principii fossero manifestati in piena luce.
A questo fine propongo un altro principio, trascendente ed affermativo, di diritto pubblico, la cui formula sarebbe:
«Tutte le massime che, per raggiungere il loro scopo, abbisognano di pubblicità, concordano colla morale e la politica unite».
Difatti se esse possano conseguire i loro fini soltanto colla pubblicità, devono essere conformi al fine generale del pubblico, la felicità, e il compito proprio della politica è di accordarsi con questo, di rendere, cioè, ognuno contento del proprio stato. Ma se tale scopo non può ottenersi che col render pubbliche le massime che si propongono, coll’eliminare, cioè, da esse ogni motivo di diffidenza, bisogna che siano pure conformi ai diritti del pubblico, solo punto in cui si uniscano i fini di tutti.
Rimando ad altra occasione lo sviluppo ulteriore e la trattazione di questo principio. Che sia poi una formula trascendente risulta da non contenere essa alcuna condizione empirica relativa alla dottrina della felicità o alla sostanza delle leggi; essa non mira che alla forma universale, che dà forza di legge alle massime.
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Se è dovere, se v’è speranza fondata di realizzare il regno del diritto pubblico, benché con una approssimazione progrediente all’infinito, in allora la pace perpetua, che succederà alle tregue, chiamate falsamente trattati di pace, non è un’idea priva di senso, ma un compito che, risolto poco a poco, si avvicina costantemente al suo fine, poiché i progressi dell’umanità seguono un moto che diviene, col tempo, sempre più veloce.
FINE