PARTE PRIMA
ARTICOLI PRELIMINARI
AD UNA PACE PERPETUA FRA LE NAZIONI
ARTICOLO VI
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Nessuna Potenza in guerra deve permettersi atti di ostilità che rendano impossibile la fiducia reciproca nella pace futura. Come tali son da considerarsi: l’impiego di assassini (percussores) e di avvelenatori (venefici), il violare una capitolazione, l’istigare al tradimento (perduellio), ecc.
Questi sono stratagemmi disonesti. Anche in piena guerra deve poter esistere una certa fiducia nel modo di pensare del nemico; altrimenti non si potrebbe concluder pace di sorta e le ostilità si ridurrebbero ad
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una guerra di sterminio (bellum internecinum). Siccome però nello stato di natura (in cui non esiste alcun tribunale emanante giudicati validi) la guerra è solamente un mezzo doloroso, ma necessario, di affermare colla forza il proprio diritto; siccome nessuna delle parti può venir dichiarata nemica ingiusta (per farlo si presuppone una sentenza giuridica), ma il risultato solo decide da che parte sia il diritto (come nei così detti giudizi di Dio); siccome fra gli Stati non può esservi alcuna guerra di punizione (bellum punitivum), presupponendo questa un rapporto da inferiore a superiore: – così ne segue che una lotta di sterminio, in cui la distruzione può colpire ambo le parti, e con esse ogni diritto, darebbe luogo ad una pace perpetua fondata solamente sulla tomba del genere umano. Una tal guerra pertanto, e di conseguenza anche i mezzi che vi conducono, deve essere assolutamente proibita. E che i succitati mezzi conducano a un tal risultato inevitabilmente riesce manifesto da ciò che simili arti infernali, essendo in sé stesse abbiette, venute che siano in uso, non si limitano a lungo nei confini della guerra, come, ad esempio, l’uso delle spie (uti exploratoribus) con cui si utilizza puramente la bassezza di altri (la quale non è possibile estirpare), ma si estendono anche al tempo di pace, distruggendo in tal modo lo scopo di questa.
Quantunque le leggi suesposte siano, oggettivamente parlando (cioè nell’intenzione del sovrano), pure leggi proibitive, tuttavia alcune sono di diritto stretto (leges strictae), valide cioè senza distinzione di
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circostanze e che necessitano all’immediata osservanza (come i n. 1, 5, 6), ed altre (come i n. 2, 3, 4) non sono invero eccezioni alle regole di diritto ma, riguardo all’applicazione secondo le circostanze, sono soggettive per l’autorità loro discrezionale (leges latae), contenendo la facoltà di dilazionarne l’applicazione senza per altro perder di mira lo scopo di una tale sospensione col rimandare all’infinito (o ad calendas graecas, come soleva promettere Augusto) il ristabilimento della libertà tolta ad alcuni Stati (vedi n. 2). In conseguenza la dilazione non implica punto la non esecuzione, ma solo è un mezzo per far sì che questa non sia precipitata e pertanto contraria al suo stesso scopo. La proibizione difatti concerne, in questo caso, soltanto il modo di acquisto, che in avvenire non deve ammettersi, non già il possesso che, quantunque non abbia il voluto titolo legale, pure al suo tempo (dell’acquisto putativo), secondo l’opinione pubblica di allora, era tenuto valido da tutti gli Stati(1).
(1) Che oltre a leggi imperative (leges praeceptivae) e leggi proibitive possano esservi anche leggi facoltative (leges permissivae) di ragione pura è stato finora messo in dubbio, e non senza motivo. Una legge, in generale, contiene un fondamento di necessità pratica ed oggettiva, un permesso invece ne contiene uno di casualità pratica per taluni atti: una legge permissiva, in conseguenza, conterrebbe la necessità di un’azione cui nessuno può esser costretto, lo che sarebbe una contraddizione quando avesse un significato identico in ambo i rapporti. – Ora, nelle leggi facoltative, il presupposto divieto si riferisce solamente al modo futuro di acquistare un diritto (per esempio: per eredità), ma la liberazione da questo divieto, cioè la permissione, si riferisce al possesso presente che nel passaggio dallo stato di natura
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al civile, può continuare ancora (secondo una legge permissiva di diritto naturale) quale possesso di buona fede (ehrlich) quantunque illegittimo (possessio putativa); e ciò sebbene un possesso putativo, non appena riconosciuto per tale, sia proibito tanto nello stato di natura che nel susseguitogli di civiltà. Difatti, in questo, una tale facoltà di possesso continuato non avrebbe luogo, ma dovrebbe tosto cessare, quale lesione, dopo riconosciutane la illegittimità.
Ho qui voluto solo per incidenza ricordare agli insegnanti di diritto naturale l’idea di una lex permissiva (idea che si presenta da sé ad una ragione che distingua sistematicamente) dacché se ne fa spesso uso nelle leggi civili (dispositive, STATUARISCHEN), colla differenza però che la legge proibitiva sta da sé e per sé, e la permissione non vi è introdotta, come dovrebbe, quale condizione limitativa, ma viene posta fra le eccezioni. Si dice infatti: la tale o tal cosa vien proibita, fatta eccezione dei n. 1, 2, 3 e via di seguito all’infinito, venendo così i permessi a formar legge solo in modo incidentale, non secondo un principio, ma andando a tastoni pei casi che si presentano; altrimenti le condizioni avrebbero dovuto esser inserite nelle formule della legge proibitiva, con che sarebbe in pari tempo divenuta legge permissiva. È pertanto da rimpiangere che siasi abbandonato l’assennatissimo e rimasto insoluto concorso a premio testé aperto dall’altrettanto saggio quanto perspicace conte di Windischgraetz che insisteva precisamente sopra un tal punto. E invero la possibilità d’una siffatta formula (simile a quelle matematiche) è la vera pietra di paragone d’una legislazione coerente a sé stessa, senza di che rimarrà sempre un pio desiderio il così detto jus certum; si avranno soltanto leggi generali (generalmente valide), ma non leggi universali (valide in tutti i casi) come pare sia richiesto dal concetto di legge.