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Questo celebre filosofo e matematico tedesco nacque il 22 aprile 1724 in Königsberg e vi morì il 12 febbraio 1804. La sua vita non offre alcunché di notevole.
Suo padre, oriundo scozzese, era un povero sellaio, ma d’una gran probità, e sua madre spingeva i principi religiosi fino al più rigido puritanismo. A siffatti esempi Kant attinse i principi di quell’austera moralità che trapela da tutti i suoi scritti. La sua prima educazione la ebbe sotto il tetto paterno; poi fu mandato in collegio, ove il suo direttore, il dottor Schultz, s’accorse tosto del genio del suo allievo e ne avvertì la madre, la quale d’allora in poi prese la maggior cura dell’educazione di suo figlio.
Terminati gli studi collegiali, seguì i corsi universitari di filosofia; ma la matematica esercitava su lui una immensa attrattiva e influì potentemente sul suo avvenire.
Licenziato in filosofia, si dedicò all’insegnamento, e all’età di trentatre anni venne addetto all’Università di Königsberg come semplice ripetitore. Nel 1770 ottenne la cattedra di matematica, che poco dopo permutò con quella di logica e metafisica.
È in questa cattedra che Kant si illustrò come apostolo d’una nuova filosofia, la quale annovera
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discepoli numerosi e devoti. Da ogni parte della Germania affluirono a Königsberg giovani avidi di raccogliere le parole del maestro, e dopo che, affranto dalla vecchiaia, rinunziò nel 1793 all’insegnamento pubblico, gli statisti ed i diplomatici più celebri si recavano ad onore di far visita al gran filosofo nel suo appartato ritiro.
Il suo tenore era regolato come un orologio. Cinque minuti prima delle cinque antimeridiane, d’estate e d’inverno, si faceva destare dal suo domestico Martino Lampo, vecchio soldato prussiano. Alle cinque in punto, sedeva a tavola, prendeva una tazza o due di thè e fumava una pipa ripassando colla mente il programma che erasi tracciato la vigilia di quel giorno. Alle sette usciva per la passeggiata e, rincasato, si rimetteva al lavoro fino all’una. All’una si alzava dallo scrittoio, beveva un bicchier di vino d’Ungheria o del Reno per eccitare l’appetito e aspettava la compagnia invitata a pranzo, poiché non poteva soffrire di pranzare solo; tanto che un dì, non essendo potuto andarvi nessuno de’ suoi amici, invitò il primo che s’imbatté a passare nella via. Il pranzo durava dal tocco alle tre e talvolta anche più. Dopo il pranzo faceva un’altra passeggiata.
«Io credo, disse Heine, che l’orologio della cattedrale di Königsberg non sia stato mai così puntuale nel suo movimento come il suo compatriota Kant. I vicini sapevano essere le tre e mezzo in punto, allorquando Kant, col suo abito grigio e la sua canna d’India in mano, usciva da casa sua e s’avviava verso il viale dei tigli,
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che ancora, in memoria di lui, si chiama viale del Filosofo».
Egli lo faceva su e giù otto volte al giorno, in qualunque stagione. Ritornato dalla passeggiata, leggeva i giornali ed alle sei si rimetteva al lavoro. D’estate e d’inverno sedeva sempre accanto alla stufa, d’onde poteva vedere attraverso i vetri della finestra la torre dell’antico castello di Königsberg; i suoi occhi vi si riposavano con piacere, mentre la sua mente faceva le sue riflessioni. Scriveva su foglietti di carta le idee più notevoli che gli venivano e terminava la serata con letture. Alle dieci si coricava senza mai cenare. Un quarto d’ora prima di coricarsi scacciava via da sé ogni pensiero che potesse disturbargli il sonno, poiché la minima insonnia gli era assai penosa. Nei più gran freddi dormiva in una camera non riscaldata, le cui finestre erano sempre chiuse d’estate e d’inverno e dove non penetrava mai un raggio di luce.
Verso la fine del 1801, in seguito ad una caduta, Kant troncò le sue passeggiate e da quel momento la sua salute andò rapidamente deperendo. L’8 ottobre 1803 cadde per la prima volta in vita sua gravemente malato, in seguito ad una indigestione, e il 12 febbraio 1804, spirò nell’età di quasi ottant’anni.
L’università ed il municipio di Königsberg gli fecero magnifici funerali, e tutti gli oggetti che avevano appartenuto al gran filosofo furono considerati come reliquie; un vecchio berretto, che gli aveva servito più di vent’anni e non valeva che pochi soldi, fu venduto per trentacinque lire;
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ed ancora si mostra in Dresda un paio di scarpe di Kant.
Nato povero, le sue lezioni ed i suoi scritti gli procacciarono a poco a poco un’esistenza agiata. Alla sua morte il suo patrimonio era di circa 64.000 lire, somma considerevole per quei tempi e quel paese in cui egli visse.
Kant era di statura bassa, esile, magro, asciuttissimo. Nel suo gabinetto manteneva costante la temperatura di quattordici gradi centigradi e crucciavasi quando il termometro ne segnava uno di meno. Portava sempre calze di seta che sorreggeva, non già coi legacci, ma con bretelle elastiche attaccate al panciotto, perché, diceva egli, così manteneva libera la circolazione del sangue.
Egli non distingueva la musica buona dalla cattiva; gli piaceva la musica strepitosa. Aveva adottato il paradosso d’Aristotile: «Amici miei, non ci sono amici»; ma quando, insieme coll’età, gli diventarono necessarie continue cure e le trovò in alcuni amici, abbandonò il suo tristo paradosso e convenne che l’amicizia non è una chimera.
Facciamo precedere il lavoro di Kant da una prefazione di Carlo Lemonnier, il fondatore e il presidente della Lega internazionale di Pace e Libertà, residente in Ginevra, l’apostolo più operoso nei nostri tempi delle idee di fratellanza e di umanità.