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Dall’ordine con cui queste montagne sono situate colle antecedenti, non possiamo ancora dedurre alcuna regola. Troviamo tracce chiare, le quali ci fanno conoscere che i vulcani hanno rotto non solamente le montagne nettuniche, ma pure le montagne di argilla e de’ filoni, e le hanno coperte dei loro prodotti; al contrario però non v’è esempio che abbiano scomposto le montagne
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originarie di granito. Piuttosto possiamo supporre che il fondo del loro focolare esista sotto le montagne a filoni, e che riposi sempre sopra il piede delle montagne originarie di granito(1).
Alli prodotti vulcanici appartengono la lava, le masse vitrose, la selce ossidiana, il basalto, forse anche il porfido, scorie, pietra pomice, sorlo, sabbia, cenere, tufo, tritume di tufo ec. Tutt’i prodotti vulcanici fin’ora esaminati contengono molte parti silicee e molto allume; alcuni anche della terra calcare, della terra di sale amaro, e del ferro.
I minerali di queste montagne si possono dividere in PRODOTTI, gettati come produzioni vulcaniche dal seno della terra, ed in EDOTTI, cioè produzioni più recenti nate da’ prodotti ed in essi, come le palle di calcedonia che contengono l’acqua. Il vulcano
(1) La forma generale de’ vulcani ancora attivi, il loro cangiamento e vestimento esteriore è descritto benissimo da Beroldingen, trattando de’ vulcani moderni ed antichi. Manheim 1791 in 2 tomi in 8 (in lettere). L’opera è per questo articolo altrettanto istruttiva quanto piacevole.
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non è altro che un ammassamento di materie gettate sulla parte più sottile e più debole della superficie della terra; e ciò non incomincia sulla cima di una montagna, ma dapprima nelle pianure e nelle valli ; e mentre cadono molte di queste materie, intorno al cratere s’innalza una montagna considerabile di lava, di scorie, di cenere ec. Così nella notte dal 19 fino al 20 di settembre 1538 nacque il MONTE DI CENERE ovvero MONTE NUOVO presso Napoli, mentre un fuoco sotterraneo innalzò per un buco terra, cenere e pietre, gettando l’une sopra l’altre. Il monte è alto di 2400 piedi, ed ha tre miglia italiane di circonferenza. Ancora al presente si vede sulla di lui cima il margine del cratere che, a motivo della vicinanza di altri, si è estinto.
Allora quando si scoprirono le isole del Capo Verde, la così detta ISOLA DEL FUOCO ad esse appartenente, non ebbe alcuna montagna. Trezier, passandovi nel febbraio del 1712, scoprì quivi per la prima volta il fuoco(1), e facendosi giorno ravvisò egli una
(1) Relation du voyage de la mer du Sud pag. 23 e 84.
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terra alta, dalla di cui cima s’innalzava il fumo, e credette perciò essere questa l’isola di Brava, ma poi si avvide trovarsi presso l’isola del fuoco, una volta piatta; presentemente ha essa nel centro un alto vulcano che si vede in molta distanza, e che getta continuamente fiamme e fumo, e talvolta anche torrenti di zolfo, o quantità considerabile di cenere, di pietre e di rocce, fino ad un’altezza incredibile. Lo strepito che producono, cadendo sull’isola, si sente in distanza di 8 fino a 9 miglia, come viene asserito da Roberto, il quale vi ha soggiornato per qualche tempo(1).
Inoltre, le pianure accese cosa sì rara; basta rammentarci i CAMPI FLEGREI degli antichi, de’ quali ne conobbero due, in Macedonia, ove, come si dice, i giganti furono fulminati in terra, in un luogo in appresso chiamato Pallene; ed in Campania presso Puzzuolo; l’ultimo si chiama in oggidì la Zolfatara. Quivi prorompono in molti luoghi del piano alcuni vortici di vapore e di calore: allargando poi una tale apertura
(1) Storia generale de’ viaggi tom. 3. p. 189.
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e scavandovi la terra, cresce maggiormente il calore. Tenendo sopra uno di questi vortici, per esempio, una spada, vedesi gocciolarne frequentemente un’acqua dolce. Le pietre poste intorno all’apertura sono in continuo moto, e gettandovene dentro, sono respinte subito fino all’altezza di 10 ed 11 piedi. In alcuni luoghi si osserva come, per mezzo de’ vapori che sortono della terra senza fumo, la sabbia è continuamente gettata in aria, saltando continuamente, simile alla fermentazione del vino di Sciampagna. Un pezzo di carta tenuta sopra una tale apertura non si accende, nemmeno diventa umida, ma piuttosto rigida e secca(1). Il vapore di zolfo spesso si estende fino a Napoli, ove talvolta l’argento n’è appannato. Il terreno è vuoto quasi dappertutto, ed appena atto a portare cavalli.
Keyssler fece cavarvi un buco della profondità di un piede e mezzo, e gettar dentro una pietra di 20 libbre circa, locché produsse un tuono nella regione, come se alcune armi da fuoco ivi si scaricassero. Il
(1) Viaggi di Keyssler tom. 2 lett. 60 p. 846. 847.
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suono diverso, ripetuto e continuo, indicò abbastanza di passare per diverse caverne. Per lo passato era in questa valle un piccolo lago bollente di acqua nera, veduto ancora da Kircher, sul quale si raccoglieva molto zolfo(1). Se questa regione non avesse una comunicazione assai sensibile col Vesuvio, l’eruzione vi sarebbe maggiore, e vi si sarebbe formato un vulcano. Il monte Secco di questi contorni, piccola montagna vestita di arboscelli, è un antico vulcano estinto. Sulla di lui sommità trovasi ancora la cavità ovale, cioè il cratere antico, largo 1000 piedi e lungo 1246.
Bianchini, nel viaggio da Bologna a Firenze, ha veduto un piano acceso da lui chiamato il fuoco di Pietra Mala; quivi battendo il suolo, sorte il fuoco, e gettandovi paglia, carta o cose simili, si accendono(2). Questo luogo è lungo 9 tese e largo due. Il fuoco che passa attraverso una sabbia grossa e fredda a poca profondità, monta
(1) Kircher Mundus subter. t. I. J. 4. Sect: I. cap. 4 p. 178.
(2) Lulof. cognizione del globo, da Kaestner §. 230 pag. 221.
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fino a 4 piedi. In tempo di pioggia si vede tutto il campo in fiamme. Roberto More ha riacceso con propria mano una regione ove il fuoco si era estinto(1).
Nel Delfinato esiste una pianura di simile natura(2).
Dal modo con cui nascono i vulcani possiamo spiegare non solamente gli strati irregolari e confusi di essi, ma pure i fenomeni di vederli situati ordinariamente isolati nelle pianure, è non appartenenti alle catena di monti.
Trovandosi nella loro vicinanza una catena di montagne, allora il vulcano è per lo più separato da essa, come il Vesuvio dagli Appennini.
La prima eruzione de’ vulcani consiste ordinariamente in sabbia e cenere. I vapori elastici di acqua rinchiusi nell’interno possono operare nell’istesso modo che nella macchina Papiniana, come hanno fatto vedere alcuni esperimenti, benché imperfetti, che si sono fatti colla detta macchina. Per
(1) Magazzino di Amburgo vol. 9 p. 71.
(2) Mémoires de l’acad. roy. des Sciences de Paris: L’an 1706 p. 433.
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esempio, la BRECCIA SILICEA mista coll’ocra, esposta per una mezz’ora sola all’effetto della macchina con fuoco lento, si era interamente disfatta. La pietra arenaria assai dura, dopo un simile esperimento, diviene spungosa e corrosa. Un altro esperimento sulla þreccia aveva dato la pura arena. In tal guisa possiamo spiegare la produzione dell’immensa quantità di cenere vulcanica che più o meno copre una gran parte dell’Italia, fino a 70 piedi. La cenere dell’Ecla è caduta sopra bastimenti distanti ancora per tre giorni di viaggio.
Si vuole che nel 79 dopo Cristo, la cenere del Vesuvio sia stata gettata fino in Africa ed in Siria, e che abbia oscurato il sole in Roma. Nel 472 deve essere giunta fino a Costantinopoli(1). Dicesi che nel 1631, in tempo della grande eruzione, sia piovuta la cenere a Lecce (distante nove giorni di viaggio da questo monte), mentre il cielo era sereno; il sole ne fu oscurato e la terra coperta fino a tre pollici di altezza. La cenere dell’Etna è caduta spesso in Italia, e sopra isole ben distanti dalla Sicilia.
(1) Procop. de Bello Gothico II. 4.
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Nella cenere vulcanica al piede del Vesuvio nasce l’eccellente vino detto LACRIMA CHRISTI e MALATESTA. Tra Niedermennich e Neuwied sono considerabili strati compatti di cenere vulcanica, e regolari a segno, che secondo de Luc(1). si potrebbero paragonare ad un taffetà rigato se fossero più sottili. Questi strati regolari indicano che per molto tempo furono coperti di acqua, oppure l’eruzione essere accaduta sotto l’acqua.
La cenere, che per mezzo dell’umidità e della compressione si è incrostata ed indurita, è dagli Italiani chiamata TUFO; e di tal natura sono il PEPERINO sui campi flegrei(2), la POZZOLANA che si trova a Pozzuolo, parte in polvere e parte in pezzi, e il TARRAS che assomiglia molto al peperino, e che contiene spesso della pietra pomice, e talvolta rami o piccoli tronchi di legno carbonizzato, della grandezza di un pollice fino alla grandezza del braccio di un fanciullo, ordinariamente di forma cilindrica e lunghi un palmo. Malgrado l’antichità, sono questi carboni
(1) De Luc, lettere sulla storia della terra e dell’uomo tom. II.
(2) Campi Phlegraei di Hamilton tab. 40 n. 3.
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intatti, di un bel nero, fragili, e tingono come il carbone di legno comune; essi si accendono nel fuoco e bruciano, e si scoprono in essi le fibre del legno. Sul Reno presso Andernach, Altbreysach, e Niedermennich, e nell’Asia esistono molte cave di tarras(1) del quale se ne trasporta una quantità, particolarmente in Olanda. Il tarras si cava in pezzi de’ quali i più grossi pesano da 5 in 6 libbre, ed indi è trasportato a Dortrecht ov’è macinato in molini a vento d’invenzione ingegnosa(2). Il tarras, come la pozzolana, fornisce un’ottima marna per le costruzioni di acqua, che mista colla calce si lega in guisa, che l’acqua non la scioglie più(3): per ciò converrebbe impiegarla per
(1) De Luc L. c., particolarmente Annali del museo nazionale della storia naturale pubbl. da Gio. Bernhardi, quint. prim. p. 9-16. pl. 2.
(2) Una rappresentazione di questi molini a vento e di tutt’i preparativi necessari per macinare il tarras trovasi nel Desmarets, journal de physique et d’histoire naturelle. Année 1779 par. I. p. 199 planche I.
(3) Vitruv. Architect. II. 6. Nascitur genus pulveris in regionibus Bajanis et sin agris circa Vesuvium montem, quod commixtum cum calce et cemento, non modo caeteris aedificiis praestat firmitatis, sed etiam [237] moles, quae construuntur, sub acqua solidescunt. Sopratutto dobbiamo considerare la descrizione delle cave vulcaniche sotterranee di Niedermennich, tre leghe da Andernach, fatta da Faujas s. Fond negli annali del museo nazionale della storia naturale, quint 3 con rami 13.
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costruire i letti de’ canali. L’arco del così detto ponte Caligola, legato da questa massa, resiste ancora, benché sia crepata la chiave della volta. Ai tempi di Nerone fu costruita una via tra Pozzuoli e Baja, e le pietre furono legate col tarras e colla calce. La pioggia ed il tempo vi hanno corroso le pietre, ma la marna è ancora intatta.
Sembra ancora che masse più dure di queste, come la pietra molinaria del Reno, oppure il quarzo traforato, il mennicherstein, appartengano a questa cenere indurita dalla compressione e dall’umidità. Essa è nera oppure cenerina, piena di buchi maggiori o minori, e battendola coll’acciaio, dà fuoco. Se ne trova presso il Flekla, presso Lauen, sull’Eger nella Boemia, presso Padova in Italia, presso Altbreysach nel Brisgau, ma particolarmente abbondante presso Niedermennich nel vescovato di Treveri, da dove
moles, quae construuntur, sub acqua solidescunt. Sopratutto dobbiamo considerare la descrizione delle cave vulcaniche sotterranee di Niedermennich, tre leghe da Andernach, fatta da Faujas s. Fond negli annali del museo nazionale della storia naturale, quint 3 con rami 13.
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se ne fa gran commercio nel Brandeburghese, ne’ Paesi Bassi, nell’Inghilterra e ne’ regni del settentrione. Per quanto tempo anche si adoprino queste pietre, restano ciò non ostante ruvide come una raspa. Queste pietre di mulino sono da preferisi di molto a quelle di granito e di breccia essendo buone e grandi, costano 50 scudi sul luogo.
Questa pietra giace alla profondità di 24 tese sotto la superficie, sopra un letto di lava molto dura e compatta che serve unicamente per lastricare le strade. De Luc intanto conta questa pietra tra le specie di lava porosa(1). Lo strato di terra e di sabbia posta sopra di essa contiene molta pietra pomice ed altri prodotti vulcanici.
La lava non è gettata in aria come le pietre e la cenere(2), ma trabocca solamente dal margine del cratere, e spesso non giunge fin là, mentre prorompe sul lato della montagna in un luogo meno compatto; assomiglia al ferro fuso, è tenace, e corre
(1) Lettere sulla storia della terra e dell’uomo tom. II. lettera 94. 95.
(2) Un’eccezione da ciò vedi più basso, ove parla del Vesuvio del 1779.
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lentamente (però un poco più in principio) circa un miglio italiano in due ore, poi cola sempre più adagio, di modo che in fine percorre appena un miglio in alcuni giorni. Durante ciò, è ordinariamente sì calda da non potersi avvicinare ad essa per la distanza di 10 piedi; ed in tempo di notte rappresenta un fiume infuocato. In essa nuotano masse di pietra, che comprimendole, tornano alla superficie come pezzi di legno sull’acqua. Essa depone su ambedue i lati in grandi masse, e lascia indietro pietre e scorie, per cui si formano dighe; resiste all’impressione fatta da stanghe lunghe; spesso forma un canale coperto, e passa sotto di esso, e spesso lo distrugge di nuovo, conducendo seco i frammenti(1). Hamilton arrischiossi nel mese di agosto del 1779, quando si cambiò il vento che fin’allora aveva allontanato da lui il calore ed il fumo e che minacciava di attuffarlo, di passare sopra la corrente di lava per guadagnare il lato del vento. La crosta superiore della lava era compatta e piena di scorie,
(1) Supplementi per la geografia fisica II. p. 40. Horrebow.
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di modo che il suo peso e quello de’ suoi compagni non vi fecero la minima impressione; inoltre avanzò la lava si lentamente, che non vi fu il minimo pericolo di perdere l’equilibrio. Il gran calore fu l’unico incomodo(1).
In fine, perde la lava totalmente la sua fluidità, ed assomiglia ad un mucchio di carboni accesi, finché col tempo si raffredda. La lava sortita dal Vesuvio ai 25 ottobre del 1531, si arrestò nel 29 novembre, ed era ancor calda al 23 di maggio del 1532; dalle fessure sorti un vapore caldo e denso che impediva il respiro e sentiva di salnitro e di vitriuolo(2). Una tal corrente di lava raffreddata rappresenta monti e valli, e figure assai singolari, come la fantasia più fervida può crearle.
La quantità di lava che gettano i vulcani sorpassa quasi l’immaginazione; così ai 20 di maggio 1737 proruppe dal Vesuvio una corrente, che nella larghezza di 150 piedi
(1) Voigt physik. Magazin. tom. I. quint. I p. 116.
(2) Volkmann Kritische Nachrichten von Italien III p. 307. Secondo della Torre.
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e nell’altezza di 24 si era estesa per 3800 tese, e conteneva 1213 tese cubiche.
L’Etna, le di cui operazioni sono maggiori, getta molto di più. Le correnti di lava di questa montagna sono ordinariamente di 15 in 20 miglia italiane lunghe, 6 in 7 larghe(1), e profonde sopra 50. Una sola eruzione, formandone una montagna, dovrebbe superare quattro volte il Vesuvio. La lava che nel 1669 proruppe in una vigna presso S. Nicola, corse per lo più in una larghezza di 6 miglia verso Catanea, distante 14 miglia da quel luogo, rovesciò parte delle mura della città, coprì un anfiteatro, un condotto di acqua e molti altri monumenti insigni di questa città, ed indi seguì per gran tratto il corso dentro mare, ove avrebbe formato un bel porto se la lava non vi avesse riempito lo spazio interno. Nell’istesso tempo s’innalzò un monte di pietre e di cenere dell’altezza di un mezzo miglio in linea perpendicolare, e di tre miglia di circonferenza al piede. Secondo il
(1) Secondo Hamilton ne’ Supplementi fisici I. 109-208.
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calcolo di Ray(1), si potrebbe formare da una sola eruzione dell’Etna una cintura intorno al globo larga ed alta di 6 piedi. Anche Kircher calcola la massa che ha gettato l’Etna venti volte maggiore della stessa montagna.
La lava varia assai in colore, in peso, densità, grana e tessitura, ed è sopra ciascun vulcano di diversa natura, come possiamo vedere ne’ gabinetti di storia naturale. Differisce non solamente la lava de’ due monti vicini, che probabilmente hanno una comunicazione sotterranea, cioè dell’Etna e del Vesuvio, mentre quella dell’Etna è più spungosa e più nera di quella del Vesuvio(2); ma pure varia la lava di una desima montagna; anzi Ferber conta 16 specie di lava compatta sulla sola montagna del Vesuvio(3).
La lava può essere divisa in compatta
(1) Betrachtungen uber der Welt Anfang. Veraenderung und Untergang p. 29.
(2) Osservazioni recenti sopra i vulcani dell’Italia e del Reno, in lettere di Hamilton, con osservazioni dell’abate Giraud Soulavic, tradotte dal francese p. 107. f.
(3) Ved. Briese aus Welschland p. 175 ec.
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e spungosa. La lava compatta che si trova sul Vesuvio e sull’Etna, e più sovente ancora ne’ vulcani esistenti, come sopra Salim, sopra le isole Lipari, sul Reno presso Niedermennich ec., è per lo più nera, come il ferro luccica nella rottura; qualche volta è bruna o rossa, ed è pesante. Diverse specie della così detta lava compatta del Vesuvio sembrano essere piuttosto una pietra primitiva, dalla quale la lava si è formata una specie di TRAPEZUM-WACCA, piuttosto che lava. La lava spungosa e porosa è per lo più di un rosso bruno, ruvida sulla rottura, e molto più leggere.
La lava compatta spesso è porosa da un lato, poiché raffreddandosi alla superficie, dovette formare de’ vuoti nell’interno ed al di sotto, mentre la crosta superiore non poté più restringersi.
Si serve della lava ordinariamente per lastricare le strade, e per fabbricare chiese ed altri edifici; ed essendo dura, riceve la politura, per cui se ne fabbricano a Napoli tavole, camini, scatole e cose simili; ma è difficile di lavorarla, poiché resiste allo scarpello.
La lava essendo durissima ed assai compatta,
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particolarmente alla parte superiore, difficilmente si scompone e riceve la terra fruttifera. Hamilton trovò la lava del 1669 senza il minimo indizio di fruttificazione(1); ed anzi Recupero crede di poter provare per mezzo di iscrizioni, che un letto di lava presso il mare, sortito dall’Etna, e ch’è leggermente coperto di terra, provenga da una eruzione descritta da Diodoro(2), la quale caderebbe 400 anni avanti la nostra cronologia. Egli fece riflettere a Brydon sopra questa lentezza dello scomponimento di lava nominando un fosso presso Jaci(3), ove si trovano sette strati di lava coperti altamente di terra fruttifera, e ne tirò la conseguenza, che la terra debba almeno aver esistito quattordici mila anni; ma cosa non fu da lui creduta degna di essere notata, poiché quello che ordinariamente procede lentamente, può per alcune circostanze essere ritardato, oppure essere accelerato per mezzo di rivoluzioni; un tremuoto
(1) Tratto dal philos. transact. ne’ supplementi fisici vol. I. p. 208.
(2) Biblioth. histor. XIV. c. 59.
(3) Il viaggio di Brydon in Sicilia e Malta.
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solo può mescolare vari strati di lava e di terra, coprire la lava corrente di cenere, gettarvi nuovamente sopra la lava, e produrre così in pochi giorni strati di lava misti di terra e di sabbia. Inoltre coprendo la burasca uno strato di lava con sabbia, polvere e semenza di muschio, può ivi generarsi la terra vegetabile. Se, giusta la testimonianza di Hamilton(1) e di altri uomini di vaglia, Ercolano (sommerso nel 79 dopo l’era cristiana) è coperto di sette strati diversi di lava e di materia combustibile, tramezzo ai quali giace sempre uno strato di terra vegetabile, dovremo forse congetturarne che Ercolano sia stato sommerso quattordici o sedici mila anni addietro? Nel 1683 fu sepolta Catania da un tremuoto, e gli abitanti di Catania nuova l’hanno ritrovata nella profondità di 68 piedi, coperta egualmente di tre strati di lava, che probabilmente saranno stati cagionati dalle eruzioni più recenti, come del 1693 ec. Anche Serao(2) narra che i Domenicani del convento della Madonna dell’Arco, sulla parte
(1) Ved. Philos. transact. vol. 61 p. 7.
(2) Tomo 10 p. 313.
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settentrionale del Vesuvio, scavandovi un pozzo fino alla profondità di 240 piedi, abbiano trovato tre strati di lava frammisti di terra vegetabile. Lo strato inferiore potrebbe essere del 1304, il secondo del 1500, ed il terzo del 1631. Questo basta per persuaderci di non giudicare tanto precipitosamente su questo proposito. Quest’oggetto è stato trattato con estensione, precisione e chiarezza da Zoellner nel giornale di Berlino.
Condamine non ravvisò la lava sul monte Pitchinca, Cotopaxi e Chimborasso nel Perù. Quivi, come sull’isola Ascensione e su quella di Pasqua, si trova il VETRO VULCANICO, e LO SMALTO. Anche Humbold dice: questi immensi vulcani, le di cui fiamme s’innalzano talvolta fino a 500 tese, non hanno potuto mai produrre una goccia di lava corrente. Essi gettano acqua, un gas infiammabile di zolfo, polvere, ed un’argilla di acido carbonico(1). Tutt’i vulcani che ivi si trovano contengono rocce abbruciate e scoriate, miste di pietre pomici(2). La lava vitrosa si trova
(1) Ved. Annali del Museo nazionale della storia naturale quint. 8 p. 147. 148.
(2) Ibidem quint. 10 p. 288.
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forse frequentemente sulle isole di Lipari, ove Spallanzani ne vide coperto il suolo per la circonferenza di 18 miglia. Sopra Onomaco presso Taiti; in Montbrule, e nel Vivarais in Francia; presso Eger, e Niedermennich sul Reno; presso Boll nella podesteria Würtemberghese di Goeppingen, e di particolare bellezza sopra l’Islanda. Questa specie di lava dell’Islanda si suole chiamare agata d’Islanda, agata di vetro, ed anche ossidiano(1). Per lo più è di colore di fumo o di carbone, più o meno trasparente, meno però su gli angoli; e contiene grani di quarzo e di feldspato misti tra loro. Il non trasparente è propriamente chiamato smalto, e partecipa del cenerognolo, oppure del turchiniccio.
Alcune specie sono leggeri come la pietra pomice, ed anche della stessa fragilità. Altre sono più pesanti, e la superficie di
(1) Crist. Aug. Schwarze nella sua opera DE THEOPHRASTI LIPAREO LAPIDE rende molto verosimile che il Αιπαραιος descritto nel Teofrasto non sia altro che il LAPIS OBSIDIANUS di Plinio. Anche Werner lo porta sotto questo nome nel suo registro de’ fossili simplici.
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ciascuno strato è coperta di una crosta sottile di terra o di polvere. Molte hanno una tessitura cellulosa, e negli spazi si trovano fili sottili della grossezza di un capello, i quali sono aggomitolati tal volta insieme come la lana fina. Queste specie di vetri sono i più rari. Presso Francfort sul Meno si trova vetro bianchiccio più o meno trasparente, spesso in forma di gruppi o in gocce, e del colore e forma simile alla gomma degli alberi. Per lo più si trova come vestimento sopra la waca di tufo, ed è conosciuto sotto il nome di Jalito o vetro di Mueller. Nello stesso modo sono vetri vulcanici il cristallo nericcio, PIEDRA DE GALLINACO, sul Pitchinca, ed il Chimborasso; le SCORIAE PERLARUM, che consistono in grani di vetro bianchiccio e verdastro, della grandezza di un pisello fino a quella della nocciuola, che giacciono come granelli in un involto fogliaceo dentro un guscio concentrico, vitroso e fragile, e che si trovano frequentemente allo sbocco del Marckanka nel mare di Ochotsk; l’AUGIL, ovvero pietra di colofonia, che partecipa del verdastro cupo e del brunastro oscuro ch’è poco trasparente, che luccica molio, e ch’è spesso cresciuto insieme
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col basalto (questa si trova di particolare bellezza nella waca di tufo presso Fulda); e l’OLIVIN di colore olivastro trasparente, e che luccica come il vetro. Il signor de Beroldingen ne ha una collezione completa.
Il vetro vulcanico, o almeno alcune specie di esso, sono da molti naturalisti contate tra le specie di lava; essi ancora parlano di una terza specie principale di lava vitrosa. Forse il vetro non è diverso dalla lava riguardo alla materia primitiva; ma questa si cangiò e si formò in vetro pel sommo grado di fuoco al quale fu esposto, e per la lunga durata di tempo che vi fu esposta.
Alcune specie di lava si formano a guisa di basalto, e probabilmente tutto il BASALTO è lava che fu spinta innanzi sotto terra, e non avendovi alcuna sortita ed alcuno spazio, non poté formar bolle; il seno della terra dunque l’abbracciò strettamente, e quasi s’indurì, finché tardi, dopo diverse decomposizioni che sofferse coll’andar del tempo, fu esposta all’aria atmosferica; oppure proruppe sul fondo del mare, ove per mezzo di una condensazione subitanea sotto la gran massa di acqua, dalla quale fu compressa su tutt’i lati, le impresse il carattere attuale delle
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sue parti. Se la lava, esposta bollente all’aria aperta, può estendersi maggiormente, ricevere una tessitura più leggera e diventare più porosa e di grana grossa; e se sopravvenendo un raffreddamento alquanto variabile, oppure se essendo disuguale la compressione della colonna di aria, può spezzarsi in masse disuguali e senza forma; la lava che si trova sott’acqua essendo compressa egualmente su tutt’i punti, e congelandosi, deve costringersi regolarmente e simmetricamente, e dividersi per tal cagione in pilastri prismatici di 3, 4 e 9 lati; ed indi, dopo essere stati per secoli coperti di acqua i monti di basalto, mediante de’ fuochi sotterranei o vapori, o per mezzo di qualunque altra rivoluzione, furono innalzati sino all’aria aperta. I due viaggiatori Banks e Solander dicono aver veduto in Islanda, che la lava fresca sortendo dal Vulcano, si formi in pilastri di basalto.
Troviamo ancora ne’ monti di basalto tutti gli altri prodotti vulcanici. Così trovò Leske sopra un monte di basalto (chiamato il monte di Sassi), presso Lauban, strati distinti di lava, di tarras ec., e nel
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Hlochwalde(1) i segni chiari di un’antica corrente di lava. De Luc osservò lungo il Reno, particolarmente presso Andernach, Remagen ed Unkel, monti di basalto, mentre le sponde erano dappertutto coperte di frammenti di pietra pomice, di tarras lava porosa, e la forma de monti indicava l’origine vulcanica.
Dopo quello che Beroldingen ha detto sul basalto, forse nessuno dubiterà più dell’origine di esso. Il basalto si scopre sempre in forma di grandi colonne regolari cristallizzate o prismatiche, con quattro fino a 9 lati lucidi, che sulle punte hanno una piramide di due, tre o sei lati, perlocché è anche chiamato PIETRA COLONNALE; esso è di vari colori, nero, verde chiaro, turchiniccio, rosso come il cinabro, bigio e bianco. Le colonne, del diametro di alcuni pollici fino alla grossezza di alcuni piedi, e dell’altezza di qualche pollice fino a 70 piedi, che ora sono piegate o messe in ordine
(1) Magazin zur Naturkunde, Mathematik und Oekonomie di Lipsia pubblicato da Funk, Leske, Hindenburg nel 1782, 3 quint.
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più regolare, stanno insieme a migliaia; per lo più sono inclinate come se fossero appoggiate, e parte sta dritta, e parte giace confusamente una sopra l’altra. Il suolo che coprono, o sul quale, per così dire, sono imballate, è ora di granito, ora di petroselce, di pietra calcare, ed ora uno strato di crostacei. Il peso specifico di esse, il contenuto, la grana e la durezza sono assai diversi. Esse agiscono fortemente sopra la calamita, ed esposte al fuoco, si cangiano facilmente in vetro nero. Il basalto conosciuto sotto il nome di PIETRA DI PARAGONE appartiene fra quelle che hanno la grana più fina.
Intorno al Vesuvio, per quanto sappiamo, non si trova alcun basalto, e pochissimo intorno all’Etna; ma presso Bolsena, nello Stato ecclesiastico, v'è un monte di basalto posto sopra cenere vulcanica, ed il vulcano precipitato vi forma un lago. Anche il monte Diavolo, ed il monte Rosso nel Veneziano sono di basalto. Più frequentemente si trova in Francia nelle montagne di Auvergne e di Linguadocca: in Irlanda ed in Islanda, però non vicino all’Hekla; in Isvezia, Russia, Ungheria, Boemia, Slesia (presso Liegnitz), in Lusazia presso Lauban, nel circolo delle
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miniere, in Misnia presso Stolpenstein, nella vicinanza del Karlsberg nell’Assia, e presso il Reno.
Le mura della città di Remagen e di Colonia sono interamente costruite di basalto. La lunghezza delle colonne forma la grossezza del muro, e perciò si distinguono benissimo su ambedue i lati le basi di esse ed i lati de’ quali su ciascuna colonna si contano 5 fino a 6, e qualche volta solamente 4. In ambedue i paesi, ma particolarmente in Colonia, ne sono lastricate le strade, ciocché dà alla città un aspetto singolare e tristo. De Luc osserva che queste mura meritano essere conosciute nella storia naturale, come la VIA DE’ GIGANTI in Irlanda(1).
Twiss ne’ suoi viaggi per l’Irlanda dice(2) che quivi si trovino insieme più di 30000 pilastri di basalto di 15 in 36 piedi d’altezza, e di 15 in 26 pollici di diametro, occupando sulle sponde una distanza di due miglia. Secondo la figura, sono di 5 o di
(1) Lettere sulla storia della terra e dell’uomo vol. I. lett. 82 vol. 2 lett. 92-97 e lettera 100.
(2) Pag. 62.
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6 lati, ed i membri hanno un’altezza di 8 in 12 pollici. Là ove i pezzi si combaciano è uno convesso e l’altro concavo(1). Dell’ANTRO DI FINGAL sull’isola di Staffa si è fatto menzione di sopra(2): i pilastri di quest’antro hanno diversi lati; sono lisci, acuti sugli angoli, di color nero, e divisi in membri; hanno 8 pollici fino a 4 piedi e mezzo di diametro, e fino a 70 piedi d’altezza. La maggior parte di essi sta perpendicolarmente, e spesso sono misti tra di loro.
La PIETRA POMICE è bianca, bigia, giallastra, rossa, del lucido di seta, spungosa, per lo più di tessitura sottile irregolare, aspra, di grana forte, e sì leggera che nuota(3) colle scorie. Una cattiva miniera di carbone accesa presso Datweiler produce una scoria assai simile alla pomice. Quindi
(1) Una descrizione assai istruttiva della via de’ Giganti trovasi nella geografia elementare di Fabbri tom. III. ediz. 3 p. 442: ed un disegno accuratissimo e bello di quattro divisioni di questo rimarcabile basalto, il quale rende chiara l’articolazione assai regolare delle colonne, sono contenuti nelle rappresentazioni di storia naturale di Blumenbach tav. 18.
(2) Ved. l’articolo degli antri rimarchevoli.
(3) Ved. Geografia fis. tom. II.
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conclude Beroldingen che le miniere di carbon fossile mantengano il fuoco delle montagne, e che in quel sito ove non sono le pietre pomici i carboni fossili debbano bruciare benissimo. Essendo la pietra pomice quasi un prodotto necessario per molte arti, e servendosene particolarmente per nettare i vasi di metallo, per polire il cuoio, per lisciare la pergamena, e per impedire la fermentazione del vino; così è diventata per Lipari un importantissimo articolo di esportazione. Quivi si sono aperte cave considerabili sulle montagne e nelle valli, e, malgrado la quantità che continuamente si esporta, la diminuzione è insensibile. Dolomieu distingue quivi quattro specie di essa, e tutte gli sembrano aver corso come la lava. Nella Germania se ne trova presso Hochheim, Andernach, Altenbreysach, nel Habichstwald, e nell’Asia; anche l’Islanda ne contiene, ma in poca quantità; egualmente ne contiene poco il Vesuvio; l’Etna non ne produce. Migliaia di altri vulcani estinti in Italia, Francia, Portogallo, Spagna ed America, nemmeno ne contengono, de modo che sembra appartenere esclusivamente in quantità all’isole di Lipari, Vulcano, Santorini ed
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al mare del sud, e fa credere che la produzione di questa sostanza richiegga una materia particolare non troppo comune a tutt’i vulcani.
Le SCORIE hanno molta somiglianza colle lave, ma esse hanno sofferto maggior cangiamento, e sono nere, bigie, bianche, gialle, rosse e violette. Alcune contengono sorli neri e feldspati bianchi; danno la scintilla, ed attraggono l’ago magnetico.
Le specie di scorie nere prismatiche sono egualmente un prodotto vulcanico; esse sono opache, hanno la rottura vitrosa per lo più si trovano come colonne lunghe di 3, 6 e 9 lati, rigate alla lunga e con una punta corta di tre lati. Talvolta s’incontrano formate in colonne corte e grosse.
Gli edotti vulcanici possono essere scomposti per mezzo di scioglimento e separazione, ma non essere formati e prodotti.
1. GLI EDOTTI PETROSI CONSISTONO a) nello spato di calce che per lo più è bianco, qualche volta di colore molto lucido, quasi chiaro come l’acqua, ma poco trasparente; esso ha una figura romboidale, si trova parte difforme, parte a guisa di stalattite e parte
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come ammassato a verghe; più sovente è cristallizzato, e forma colonne di sei lati, e spesso con una punta triangolare ottusa, e con tavole di sei lati; oppure formarsi in piramidi triangolari semplici o doppi ec. Di tale specie è il CRISTALLO D’ISLANDA, o pietra doppia, ch’è trasparente, e rappresenta doppiamente gli oggetti che con esso si contemplano.
b) Nelle specie di calcedonia che si producono nelle spaccature, e nelle bolle di aria de’ prodotti vulcanici, particolarmente in que’ dell’Islanda, di Vicenza e di Padova.
c) Nello zeolito che si trova sull’Islanda e sulle isole Faroe, dentro il basalto o, ancora più spesso, nella waca a trapezio; e nello zeolito vesuviano ch’è granito (carbunculus). Il primo per lo più è bruno come la pece, oppure partecipa dell’olivastro scuro, è poco trasparente, il lucido esteriore è appannato, e l’interno vitroso; ed il secondo si trova sempre cristallizzato in colonne corte di quattro lati coi margini ottusi, tra i fossili primordiali del Vesuvio, ma particolarmente però in bellissimi cristalli della grossezza del pollice, all’imboccatura dell’Achlaragdas che si getta nel Wiluj.
2. I sali medi ed il sale ammoniaco.
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diversi sali medi, come zolfo, allume, vitriuolo e gesso, si trovano frequentemente ne’ Vulcani e sopra di essi.
3. Per mezzo de’ Vulcani si sviluppano diversi gaz che sono trasportati nell’atmosfera nostra, come dimostrano le mofete dell’Italia, le quali tramandano ora una specie di gaz, ora un’altra. L’aria fissa, infiammabile, acido-zolforica, epatica e finalmente l’acida muriatica sembrano essere la cosa di mezzo tra i mezzi di soluzione e l’edotto vulcanico.
Possiamo domandare se il laboratoio di questi prodotti vulcanici giaccia vicino alla superficie, ed alla sommità de’ monti, come vogliono Buffon e Borelli, oppure vicino al centro della terra. Forse non è ancor giunto il tempo da decidere su questa quistione: sembrami però, che volendo mettere tal fornace in alto, doverlo collocare sopra del granito. Che nella profondità il fuoco non possa accendersi, non forma ciò un’opposizione, poiché quivi non è necessario che il fuoco produca fiamme, ma basta che sia rovente, e che i metalli dal calore interno restino fluidi, giacché questo può aver luogo anche senza l’accesso dell’aria esterna. Inoltre Bernoulli e Du Hamel hanno provato, che la polvere da schioppo
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si accende tanto nell’aria rinchiusa quanto nello spazio vuoto. Tutti i fenomeni vulcanici possono essere spiegati chimicamente e meccanicamente.
CHIMICAMENTE; poiché una fermentazione minerale è infatti possibile, benché pochi metalli ne siano capaci. La fermentazione minerale suppone sempre l’esistenza di parti infiammabili, che per mezzo di essa svaniscono e si consumano.
Possiamo nominare qui l’esperimento di Lemery(1), che formò una pasta di 25 libbre di limatura di ferro e di altrettanto di zolfo ben pestato, la mischiò con acqua in una pignatta e la pose un piede e mezzo sotto la terra, la quale compresse fortemente sopra di essa; dopo 8 ore circa incominciò la terra ad alzarsi ed a spaccarsi, tramandando il fumo, ed in ultimo una fiamma. La limatura di ferro non si trova dentro terra, ma bensì il ferro fuso; ed è probabile che questo giaccia profondamente.
(1) Mém. de l’acad. A. 1700, pag. 132. Boerhawe Elem, Chemiae, T. 1, pag. 40.
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Il maggior effetto su tale oggetto dovrebbe prodursi dalla pirite, alla quale ordinariamente sono uniti diversi metalli, come la pirite di ferro, di rame ec. Spesso giacciono profondamente, e si accendono all’approssimarsi dell’umidità. Il rame fuso si disperge giungendovi dell’acqua; ogni altro metallo però resta invariabile, ma scompone subito in aria l’acqua gettatavi, e per mezzo di cui altera le parti sue.
MECCANICAMENTE; per mezzo di quelle leggi secondo le quali la terra ha incominciato la sua formazione, e le continua tutt’ora. La terra, una volta totalmente fluida ed in conseguenza bollente, ebbe un volume maggiore; ma siccome si raffreddò naturalmente sulla superficie, così questa immensa volta, continuando a diseccarsi verso l’interno ed a costringersi, dovette tratto tratto perdere l’appoggio e l’equilibrio, e perciò rompersi e precipitarsi. Questo diede alla superficie della terra la presente circonferenza e la figura lacerata(1). Essa nell’interno è ancora
(1) Ved. geograf, fis. Vol. III ove si potrebbe aggiungere, che la Natolia corrisponde nella figura colla costa opposta del mar Nero, che la Sicilia riempi la gran
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in piena attività e in flusso; e le acque atmosferiche che vi giungono, trovando questa materia forse per attrazione compatta e ciò non ostante bollente, dovrebbero essere capaci di produrre non solamente i tremuoti più violenti, ma pure di spezzare l’intero pianeta.
Per persuaderci di questa proposizione abbiamo da riflettere che la terra, a motivo che quivi si è diseccata più tardi, deve racchiudere sotto la crosta una quantità di aria condensata. L’aria atmosferica, presa solamente per un settimo del semidiametro della terra, compressa dal suo proprio peso, dovrebbe essere compatta come l’oro. Se quest’aria è riscaldata ed estesa violentemente, qual effetto non può e deve produrre? Un caso simile avrà forse diviso la luna dalla terra; ed essendo ciò verosimile, potremo comprendere, come gli altri pianeti abbiano diversi satelliti. Questi pianeti che
sirte; l’Italia la Baia tra Tunisi ed il capo Razat. La Svezia coi promontori il seno della Pomerania e della Prussia. Il Jutland il seno di Cristiansand fino a Cristiania. La Gran Brettagna, le coste dell’Olanda o della Germania.
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contengono masse più considerabili, e che sono situati più distanti dal sole, essendo le loro orbite maggiori, è più accelerata la loro rotazione, formarono troppo presto il circuito, e si romperono più di una volta. Il numero de’ loro satelliti potrebbe essere forse il numero delle loro epoche.
Secondo ciò, l’interno della terra dovrebbe per lo passato aver fortemente bollito, ed esservi stato maggior numero di vulcani accesi, e l’eruzioni di fuoco devono essere state più frequenti: infatti la terra è coperta di vulcani estinti. La Germania n’è piena come il Kaiserstuhl nella Brisgovia, il Brocken, il di cui cratere è ancora assai conoscibile, in Lamsberg nel Waldek; il Weisener nell’Asia inferiore; in 50 luoghi tra Gottinga e Remagen; presso Niedermennich nell’arcivescovato di Trevere, presso Coblenza Bonn, Bingen, ed Andernach; presso Bol nel Vürtemberghese, presso Eger e Laun in Boemia. Il Volvic nell’Auvergne(1), il Puy du Dome, il Mont d’Or, le
(1) Le Grand nel suo Voyage d’Auvergne, Paris 3 vol. anno III repubb., ci ha dato una istruttiva descrizione delle montagne di questa provincia: essa fu nuovamente
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montagne Coiron nel Dipartimento Ardeche(1) ec. ed altri simili sono vulcani estinti.
Il numero di questi vulcani estinti si aumenterà per l’avvenire. Se la terra dovesse indurirsi totalmente, perderebbe il suo calore, la fruttificazione ed il comodo di abitarvi. I vapori che sortono dalla terra contribuiscono non poco alla di lei fruttificazione; e ciò possiamo dedurlo dall’effetto de’ vulcani, senza i quali l’Islanda appena sarebbe abitabile, e l’Italia non abbonderebbe tanto in vegetazione. Anche le cagioni DEL CALORE DELLA TERRA (che alla profondità di 300 piedi abbiamo quasi sempre trovata eguale) come le cagioni del[l]a forza vitale della terra, e quelle dell’ATMOSFERA, che senza la continua affluenza dall’interno si consumerebbe da uomini ed animali; e le cagioni dell’acqua, della pioggia, della temperatura, dobbiamo
fatta in tedesco, ed aumentata di osservazioni da Arrigo Fed. Link professore a Rostok. Gottinga 1803. 8. Il Puy de Dome è stato descritto con molta accuratezza da Le Grand fin dal 1788. Un estratto è nel Magazzino di Gotha, o in quello di Voigt. Vol. V. quint. 4. pag. 1-9.
(1) Ved. Annali del museo nazionale della storia nazionale quint. 7. pag. 23-26 tom. 33.
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cercarle principalmente nella fermentazione interna.
Per questo motivo non abbiamo ancora potuto fissare alcuna regola sulla temperatura, e per questo la temperatura ed il calore corrispondono sì poco col corso del sole e della luna: ma ciò si cambiarebbe se la terra fosse interamente formata e raffreddata.
Anche l’effetto del sole, il quale riscaldandoci, non isviluppa che il calore della terra, diminuirà considerabilmente, almeno riguardo al riscaldamento; o cesserà, e forse non avrà più tanta influenza la luce, la quale richiede molta elettricità, che ha molta relazione colla fermentazione interna della terra. La luna sembra essere più vicina allo stato di maturità, e quindi la mancanza della sua atmosfera e dell’acqua; quindi le alte montagne sproporzionate, formatesi coll’ultimo costringimento delle masse; e gli spaventevoli precipizi, a motivo de’ mari diseccati.
In tali rivoluzioni perirono naturalmente tutti gli abitanti della terra, ed il presente genere umano deve esistere non prima che dopo l’ultimo sconvolgimento. Il primo cenno
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degli annali porta una rivoluzione ignea della natura, che obbligherà gli uomini ad abbandonare la loro prima dimora(1); ed i primi racconti della storia profana fanno egualmente menzione di effetti vulcanici. Anche gli annali Greci e Romani incominciano col fuoco sotterraneo. La mitologia più rimota di queste nazioni seppellisce Tifone sotto l’Etna(2).
Gli scrittori storici più antichi non poterono rimontare fino al cominciamento delle eruzioni dell’Etna. Beroso narra che i discendenti di Jano, andando in Sicilia per ivi stabilirvisi, siano stati sgomentati da una violenta eruzione di questa montagna. Orfeo fa menzione dell’eruzioni di essa ai tempi degli Argonauti(3).
Tucidide, alla fine del secondo libro parla di una eruzione dell’Etna accaduta nel 6° anno della guerra del Peloponneso, 450 anni avanti Cristo; e vi aggiunge espressamente che questa eruzione sia stata ai tempi
(1) Mos. 3.23.24.
(2) Pindar. Olymp. IV. Str. 1. Of 11. Pyth. 1, Str. 1, 7.
(3) Kircheri mund. subter. T. 1. lib. 4. pag. 202.
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suoi, 50 anni dopo l’ultima preceduta; e che la montagna avanti questa eruzione, sino al primo stabilimento de’ Greci in Sicilia, 750 anni circa avanti Cristo, dunque nello spazio di 300 anni, abbia gettato tre volte il fuoco. Empedocle, accurato osservatore del vulcano, perì ai tempi di Jerone durante una eruzione di esso, come attestano tutti gli Antichi. Questa eruzione è probabilmente la stessa descritta da Tucidide, e così s’accorda il numero delle grandi eruzioni col calcolo de’ Romani, che fino al termine del regno Consolare contarono egualmente quattro incendi dell’Etna(1).
Le sopraccennate eruzioni saranno state naturalmente simili a quella accaduta sotto Giulio Cesare, ove l’incendio e la corrente di lava dicesi essere state sì violente, che fecero bollire il mare fino alle isole Lipariche, uccisero i pesci, ed incendiarono le navi(2). Sembrò in allora che la montagna non potesse più tranquillizzarsi, e nello spazio di 24 anni
(1) Come vediamo in Diod. Sicil., in Polibio ed in Livio.
(2) Le testimonianze degli Antichi sopra questi incendi, ed i seguenti le ha raccolte Kircher I. c.
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infuriò almeno 4 volte. Circa 49 anni dopo Cristo fece tanto strepito che l’Imperator Caligola fuggì dalla Sicilia, come anche Carlo Magno nell’812. Adriano al contrario ebbe bastantemente coraggio di visitarlo durante un forte parosismo, e, come narra Sparziano, per godere della bella veduta. Dal 1160 fino al 1169 la montagna distrusse tutta la regione circonvicina. Catania fu distrutta, è tutta l’isola riscossa.
Particolarmente sono da notarsi l’eruzioni del 1175, 1284, 1329 sino al 1333; 1408, 1444, sino al 1447; 1530, 1536, 1540, 1566, 1579, 1614, 1633 sino al 1639. Nel 1637 cagionò un tremuoto di 12 giorni, produsse diverse altre aperture, e la lava che ne sortì abbruciò tutto nella circonferenza di 5 miglia. La cenere cadde fino in Italia: egualmente sensibile fu l’eruzione del 1650. Nel 1669 distrusse 14 città e villaggi, alcuni de’ quali contenevano 3 fino a 4000 abitanti. Esso gettò pietre di 3 fino a 400 libbre, in distanza di alcune miglia.
Nel 1683 cagionò un tremuoto per cui fu sotterrata Catania, che per l’eruzioni seguenti fu situata a poco a poco 68 piedi
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sotto terra. In questa città sola, senza contare i villaggi, perirono 6000 persone. Dieci anni dopo, nel mese di febbraio, scosse l’intera Sicilia ed il mare vicino; distrusse 15 città, 18 castelli, ed attuffò coi vapori 6000 persone, che a cagione d’inondazione si erano rifugiate sopra di esso; ed uccise in tutto 93000 anime. Nel secolo decimottavo infuriò 8 volte, cioè nel 1702, 1747, 1755, 1766, 1769, 1780, 1787(1), 1792(2). In quest’ultimo anno, il dì 27 di febbraio, diede l’Etna i segni di una vicina eruzione, e le scosse di terra inquietarono l’intera regione; agli 11 di maggio gettò durante la giornata un fumo nero denso che nel 22 detto, si aumentò, e proruppe con gran violenza in forma di palle e di fiocchi. Verso il mezzogiorno si osservò la corrente di lava che si
(1) La miglior descrizione sull’eruzione del 1787 ce l’ha data Giuseppe Mirone, inserita dall’Accademia Fiorentina nelle novelle letterarie di Firenze. Un estratto v’è nel Magazzino di Gotha. Vol. V. quint. 4. pag. 9-20.
(2) Sopra l’eruzione di quest’anno si è fatto un racconto da Lalleman indirizzato a Dolomieu, inserito poi in diversi Giornali Francesi e Tedeschi.
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annunciò per un rumore sotterraneo come una cannonata. La lava sorti dal cratere, si volse all’ovest, e non fu molto abbondante. Dopo le 5 di sera, durante un fortissimo strepito sotterraneo, si videro per diverse ore e senza interruzione sortire da varie aperture grandi vortici di fiamme, ed una colonna di vapori accesa fino alla metà dell’altezza; indi l’eruzione di lava diventò più considerabile, divise in due colline una piccola montagna che incontrò, corse poi nella valle detta l’acqua di Giacobbe, sui di cui lati sono due vulcani estinti, cioè Finocchio e S. Nicolò; e dopo aver percorso 5 miglia in 14 ore, discese finalmente sino a Zappinelli. La larghezza della lava fu considerabile, e vario secondo la disuguaglianza del suolo. Ne’ dì 14 e 15 piovette moltissimo, e fino al 23 si osservò poco fumo e fiamma. Ai 24 fino a mezzo giorno si videro per ripetute volte prorompere dalla sommità fiocchi e vortici di vapore nero e bianco, ed innalzarsi all’altezza di 3 miglia. A mezzo giorno incominciò a piovere. Il monte fu coperto di nebbia e di grossi nuvoli fino al 30. La corrente di lava si era innoltrata fino alla
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valle di Trefogietti e di Civazzo, dopo aver coperto uno spazio di 10 miglia.
Al primo di giugno verso sera si osserva una nuvola di vapore, chiamata dai nazionali fumarolo, sulla sommità del Solfizio, 6 miglia circa sotto il cratere, ove la lava proruppe di notte e si gettò nella valle di acqua nuova. Dal 2 sino al 5 sorti tratto tratto il vapore dal cratere e dalla nuova apertura. Ai 5 si scoprì un altro fumarolo, ovvero una seconda apertura più vicino alla sommità. Ai 6 di sera si vide un terzo sulla parte meridionale, un poco sopra il Solfizio; esso passò serpeggiando lo spazio di un miglio e si estinse verso mezza notte. La prima corrente di fuoco era giunta nel dì 7 presso il monte Arcimissa, ove si divise in 2 rami, minacciando la valle di s. Gioachino. La massa infuocata che proruppe come nuvole dense, e percorse in un minuto 8 tese circa, a poco a poco sì lenta che dopo una mezz’ora non corse più d’una tesa. Le tre correnti di lava presero per tre giorni un corso assai irregolare. La meridionale scacciò i pastori cogli armenti, abbruciò le selve e le vigne, diseccò i campi e si precipitò in una valle profonda, ove si rotolò innanzi fino al piede
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dell’Arione. La larghezza fu di 10 tese, e l’altezza 6 in 7. Il braccio del medio fu il più debole, e si arrestò presso la prima vigna che incontrò. La terza che discese sulla SCALA DI SAN GIACOMO proveniente dalla parte dell’Arione, e che minacciò la regione di tre Castagne, si volse più al settentrione verso la valle cava ficca, distrusse Zafarano, e penetrò in un luogo chiamato Piano grande. Finalmente dopo aver percorso 15 miglia di terreno, e cagionato molto danno, si avvicinò al mare presso Riposto, due miglia francesi distante da Taormina.
L’Etna contasi tra i monti più alti del mondo antico, benché Schukburg e Brydone l’hanno trovato più basso di Clavio, che, secondo Kircher, gli diede l’altezza di 30000 passi. Esso è alto di 10600 piedi, e da Catania, ove il monte incomincia ad alzarsi sino alla sommità, vi è una distanza di 8 miglia e mezzo geografiche. La circonferenza del di lui piede si calcola a 18 miglia geografiche. Sopra di esso riposano quasi 20 vulcani piccoli(1), de’ quali alcuni
(1) Da ciò viene probabilmente, perché gl’Italiani lo chiamano Monte Gibello.
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hanno una circonferenza di 8 miglia italiane, mille piedi di altezza perpendicolare.
Il Vesuvio, 8 miglia distante da Napoli, sembra essere meno antico dell’Etna. Esso ha 6 miglia e mezzo italiane di circonferenza, e la prima volta che fece una eruzione distruggente fu nel 79 dopo Cristo. Esso incominciò nel dì 24 d’agosto con un tremuoto, e seppellì sotto la cenere 6 villaggi vicini, cioè Ercolano e Pompejano, che avevano sofferto molto da un tremuoto sotto Nerone(1): Stabia distrutto sotto Sulla(2) Paestum, Taurania, Cora ovvero Thora. La cenere ottenebrò il sole fino a Roma, e dicesi essere stata anche fino in Africa. I pesci nel mare morirono di calore, e gli uccelli in aria soffocaronsi. Plinio il Seniore esaminando questo avvenimento della natura,
(1) Senec. nat. quaest. VI, 1. Pompeios, celebrem Campaniae urbem desedisse terrae motu, vexatis quaecumque adjacebant regionibus, audivimus. – Etiam Herculanensis oppidi pars ruit dubieque. Stant etiam quae relicta sunt. – Tacit. an. 15, 22. Eo motu terrae, celebre Campaniae oppidum Pompej, magna ex parte proruit.
(2) Nella guerra de’ confederati. Plin. hist. nat. III 8 post med. Plin. jun. epist. VI, 16.
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vi perì, probabilmente fu soffocato gettandosi in terra(1).
Da queste città sommerse si sono cavati vari oggetti, particolarmente sino dal 1706, alloraquando il principe d’Elboeuf fece la prima scoperta di Ercolano, e dopo che nel 1738 la corte comprò le terre ove giacciono sepolte; ma fino al giorno d’oggi non vi è stato impiegato quello zelo e quella cura che a ciò si richiedono.
Benché, secondo Dione Cassio, la città di Ercolano fu sorpresa da questa disgrazia mentre il popolo si trovò al teatro; ciò non ostante, né in questo luogo(2) né in città, non si è trovato alcun uomo perito. Le genti devono aver avuto il tempo necessario di salvare non solamente i figli, gli ammalati ed i vecchi, ma pure tutte le cose preziose, come medaglie, pietre incise, libri e molti
(1) Il suo nipote descrive la di lui morte e la storia della di lui disgrazia. VI, 16, 20. Dione Cassio, 66, 21-23. secondo Riphilin, il di cui estratto, incominciando dal libro sessantesimo, è solo venuto sino a noi.
(2) Il teatro di Ercolano fu scoperto nel 1750. Esso è uno de’ più interessanti monumenti antichi, poiché abbiamo avuto l’idra più esatta intorno al teatro degli
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utensili di cucina, poiché quivi poco o niente se ne trovano. Sembra che Pompejano sia stato sorpreso più rapidamente da questa disgrazia. Quivi si è trovato ancora un ferraio nella sua fucina. Il vento condusse lentamente per tre giorni sopra la città una cenere, che però deve essere stata bollente, poiché le travi, i tavoloni, il grano ed il pane sono abbruciati, ed indi dev’essere caduta la pioggia; perlocché le masse sono patte e indurite nella maggior parte de’ luoghi: in fine poi sopraggiunse la lava che rovesciò alcune mura, e ne contorse diverse altre. In pochissime case si scorgono le aperture di finestre; il maggior numero riceve la luce per la porta, che a tal motivo è alta e larga. Sembra che le aperture delle finestre fossero chiuse da sportelli o da inferriate, e con vetro; e questo
antichi, della scena, del proscenium ec. Varrebbe la pena di scavare interamente questo teatro, mentre la piazza sopra di esso non è abitata, e le spese, secondo il calcolo fatto, importerebbero solamente 25000 piastre. Nel 1765 si trovò il teatro di Pompejano ch’è ancora più grande. Anche a Pesto si vedono alcuni frammenti di un teatro, ed in mezzo alla città è collocato un anfiteatro grande.
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di cattiva qualità. Alcune finestre erano fornite di lastre sottili di una pietra poco trasparente. Altre forse erano coperte di stoffe di bambagia, come ancora si vedono oggidì nell’Italia le finestre coperte di carta in vece di vetri; usanza particolarmente quivi praticata fino dal secolo decimo ottavo. De’ vasi da bere e fiaschi di vetro se ne sono trovati in quantità; ma, per gli umori corrosivi, privi di splendore e sfogliati come il talco.
Le pareti delle abitazioni erano per lo più dipinte di diverse figure, di festoni, uccelli, fanciulli, paesetti, colonne, o almeno di strisce di vari colori. Il maggior numero è dipinto a tempra; il resto a buon fresco. I colori si sono conservati freschi, ma i dipinti a tempra esponendosi all’aria, s’impallidiscono; la vernice colla quale si è voluto coprirli ha loro recato qualche danno, ed i colori si dividono e si distaccano. Da questi dipinti levati con attenzione veggiamo, che gli antichi sapevano trattar bene i colori, ma non così egualmente la prospettiva. Le figure sono poste sopra un fondo scuro o rosso, scuro o bruno, senza indizio di chiaroscuro.
In una villa di Ercolano si è trovata
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una biblioteca di mille ottocento rotoli e più, ma tutti abbruciati; e per isvolgerli vi vuole molto tempo. Finora nulla si è trovato d’interessante, come le opere di un Epicureo Filodemo(1), di cui fa menzione Orazio nelle sue satire(2). Da che però questo lavoro è caduto fra le mani dell’Inglese Haiter, l’operazione si spiega con maggior zelo. La prima opera ch’egli trovò fu quella di Epicuro sopra la Natura delle Cose.
È difficile a credersi che questa eruzione del Vesuvio sia stata la prima; e siccome nulla sappiamo d’altra anteriore, perciò la montagna dev’essere stata tranquilla per molto tempo. Seneca, che nel 6 libro delle sue ricerche fisiche non parla che del tremuoto, particolarmente di quello che ai tempi suoi proruppe in Campania, non fa punto menzione del Vesuvio. Plinio il seniore parla delle sue viti, ma non del suo fuoco. Egli nomina i monti fumanti e gli accesi (II.
(1) Esse riguardano, la rettorica, la virtù, il vizio, l’influenza dell’eloquenza sullo stato, ed il danno della musica sopra i costumi.
(2) Orazio, 1. Sat. 2, V. 5, 121.
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105, 6, 7): descrive e spiega i tremuoti (II, 83, 84, 91, 93); ma quanto a questo nulla dice del Vesuvio. Supposto anche che questo monte non abbia fatta alcuna eruzione fino dal suo nascere, dobbiamo non ostante supporre, che il suo nascimento era vulcanico; questa verità riconobbero anche molti antichi che scrissero prima del 79. Strabone, che visse nel principio della nostra era, descrive il Vesuvio come, assai fruttifero e coltivato fino alla sommità. «La sommità però, continua egli(1), forma un piano sterile a guisa di cenere, coperto di caverne e di pietre bruciate, in guisa da poter supporre esservi stato per l’addietro il fuoco, che fu estinto alloraquando mancarono le materie». Diodoro di Sicilia, in occasione de’ viaggi di Ercole, narra che questo sia giunto nella regione Cumana, anche chiamata i CAMPI FLEGREI, a cagione di UN MONTE che per lo passato vi gettò molto fuoco; questo monte, aggiunge egli(2), è presentemente chiamato Vesuvio, sul quale
(1) Lib. V. ed. Casaub. 3. p. 247.
(2) Lib. IV. c. 24.
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si osservano ancora le tracce di un antico incendio. Egli parla egualmente del Timeo della Sicilia(1), che visse 300 anni circa avanti la nostra cronologia. La disfatta de’ Giganti sembra essere un’allegoria che indica tremuoto e vulcani, oppure un totale rovescio del monte. Per ciò Dione Cassio, descrivendo l’eruzione del 79, fa sortire i Giganti dalla montagna, e gli fa rimanere sospesi in aria, o comparire nelle città giacenti nella vicinanza del monte(2). Nell’istesso tempo assicura egli che per l’addietro il monte sia stato dapertutto di un eguale altezza, e che la fiamma sia sortita dal centro della superficie, e che le eruzioni laterali non abbiano esistito fino al 29(3). A questa supposizione possiamo ancora aggiungere che le
(1) Uno degli autori più stimabili, intorno al quale gli antichi non seppero criticare nulla, fuori che esso criticasse troppo, e perciò gli diedero il sopranome επιτητής (il critico) Diod. V., Longin. nel terzo secolo l’aveva ancora. Sarebbe da desiderarsi che fosse tra i tesori di Ercolano.
(2) Lib. 66, 22.
(3) Nell’opera accennata cap. 21.
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strade di Ercolano erano lastricate di lava, ed in Pompejano edificate molte abitazioni di questo prodotto; cosa che non avrebbe potuto esistere se il monte alcune eruzioni anteriori all’epoca indicata. Possiamo maggiormente andare d’accordo col Cavaliere Hamilton, che prende il Vesuvio per null’altro che per un vulcanello di una montagna vulcanica precipitata ed assai più grande, del di cui margine il monte Somma o monte Ottojano sono frammenti. Egli crede di aver trovato l’antico cratere negli Astruni, parco d'animali del re di Napoli.
Resta però sicuro che, siccome gli antichi da 300 anni prima di Cristo parlano delle sue eruzioni per supposizione, o per tradizione intorno ad un tale fenomeno; si debba calcolare essere accaduta la nascita oppure un’eruzione notabile di esso, settecento anni avanti la nostra era, ovvero prima dell’edificazione di Roma. Come sarebbe stato altrimenti possibile che un tal avvenimento avesse potuto sfuggire alla memoria degli uomini, ed alle osservazioni accurate degli scrittori e de’ naturalisti?
Anche dopo questa eruzione terribile il Vesuvio si è quietato per molto tempo, e
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spesso per 200 anni è più; e ne’ primi 16 secoli dell’era nostra non ha gettato il fuoco che 13 volte. Durante questa epoca sono notabili, per la quantità di pietre e di cenere che furono gettate fuori, le eruzioni del 203 (Dione Cassio 96. 2.), alloraquando il rumore fu sentito a Capua; quella del 472, quando la cenere deve aver coperto tutta l’Europa, ed a Costantinopoli si fecero i giorni di penitenza(1); e quelle del 512(2), 685(3) e 993(4). Sembra però che queste eruzioni non fossero accompagnate da correnti di lava; almeno non se n’è fatta menzione. Non prima del 1036, accadendo
(1) Indict. X Marciano et Festo, Cosso, Marcellinus Comes dice, che tutta l’Europa fu coperta di cenere minuta. Vesuvius mons Campaniae torridus intestinis ignibus aestuans, exusta vomiti viscera, nocturnis que in die tenebris, omnem Europae faciem minuto contexit pulvere. Hujus metuendi memoriam cineris Byzantii annue celebrant VIII. Idus Novemb. Con ciò va d’accordo Procop. de bello Gothio II. 4.
(2) Cassiodor. Variar. IV, ep. 50 ed. Brossei pag. 158 seqq.
(3) Paulus Diac. de gestis Longobardis. VI. cap. 9.
(4) Barronius Annal. ad h. n.
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nuovamente una eruzione terribile, si è veduto una quantità di lava. Se ciò fosse tanto sicuro quanto lo crediamo, allora sei strati di lava che coprono Ercolano, e che sono interrotti da terra vegetabile, dovrebbero essere nati solamente negli ultimi 750 anni.
Le eruzioni seguenti(1) del Vesuvio, incominciando dal 1049, 1138, 1139, 1304 e 1500, sono state tutte violenti, particolarmente quella del 1631, dopo che la montagna era stata quieta per 100 anni e più, ed in diversi luoghi erano stati piantati alberi, e cresciuti altri vegetabili. Teodoro Valla, che ha osservato egli stesso questa eruzione, la descrive accuratamente. Essa è la tredicesima,
(1) Abbiamo molti scritti intorno al Vesuvio. Recupitus ha scritto un’opera particolare sulle sue distruzioni. Firenze 1632. Roma 1644. 4. L’opera migliore però, oltre quella recente di Hamilton inserita in parte nel magazzino universale del 1769, settembre, parte nel Philosophal Transaction, ed in estratti nelle vermischte Beytraege zur physikal Erdbeschreibung, è quella di Della Torre, storia e fenomeni del Vesuvio, in Napoli 1755 in 4 maj. La descrizione dell’eruzione nel 1767 fu stampata separatamente come supplimento.
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prendendo per prima quella accaduta ai tempi di Vespasiano. Dopo un tremuoto di 20 colpi incominciò il monte ad infuriare il dì 16 di dicembre. Il golfo di Napoli, e la città furono di cenere, che cadde anche fino a Lecce. Il sole fu oscurato a mezzogiorno. Una corrente di lava divisa in 7 rami distrusse l’intera regione. Resina e diversi altri paesi, furono quasi interamente incendiati. Vi perirono più di trentamila persone. Correnti di acqua bollente, sortite nell’istesso tempo dal monte, fecero perire cinquecento persone in processione. Il mare in tal occasione si ritirò in guisa che i bastimenti stettero a secco. Questo strepito continuò fino al febbraio del 1682, e non fu che allora che si arrischiarono gli abitanti di ritornare alle loro abitazioni(1). Meno violenta fu l’eruzione del 1660; sensibilissima quella del 1682. Il fumo nella circonferenza di 12 miglia italiane oscurò il sole per 2 giorni di seguito(2). La fiamma dell’incendio del 1685
(1) Valkmanus Nachrichten von Italien. Vol. 3. p. 305, 306.
(2) Misson voyage d’Italie. Amst. 1743 tom. II , pa 117-125 tom. IV, pag. 205–226.
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diede, nella circonferenza di 20 miglia, uno splendore più chiaro di quello della luna. Nel 1689, dal 9 di dicembre sino al 1 di gennaio, il Vesuvio fu in fiamme per 22 giorni di seguito; ed a Napoli si sentì un rumore dentro il monte, come se bollisse dentro un caldaio(1). Nel 1694 il dì 6 d’aprile, infuriò di nuovo, ed il fuoco cadde fino a Benevento, distante 13 miglia italiane. Meno considerabili furono gl’incendi del 1696, e 1697. Quello del 1698 fu notabile per la quantità di cenere che coprì tutte le regioni circonvicine, e che in Napoli stesso era alta 9 in 10 pollici.
Durante i primi 37 anni del secolo decimo ottavo il Vesuvio ha gettato annualmente del fuoco, ma senza recar molto danno, o produrre accidenti straordinari(2), fuori nell’ultimo anno, quando, secondo Della Torre, accadde il 22° incendio. La lava larga 50 in 60 passi, e alta 25 in 30
(1) Misson 1. c. Lulof introduzione alle cognizioni del globo, in tedesco da Kaestner, §. 227, pag. 215-220.
(2) Lulof rapporta alcuni accidenti del 1717, 1730 e 1732.
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palmi, ed in alcuni luoghi 130, corse per 6 in 7 miglia italiane. La cenere mista di acqua, portata dal vento sulla pianura fruttifera di Nola, ed i vapori perniciosissimi fecero diseccare gli alberi e le frutta.
Nel mese di maggio 1749 e nell’ottobre 1751 cagionò questo monte molto spavento e distruzione. Nell’ultimo anno si spaccò l’antica lava sopra l’atrio del Cavallo, ove sortì una nuova corrente di lava.
Nel 1754 sorsero verso Ottajano due correnti di lava: l’una formò un lago, l’altra una caduta alta di 100 piedi, formando con ciò un aspetto singolarmente magnifico e terribile. Durante questo tempo il monte gettò pietre che stavano 8 secondi in aria prima di cadere. Sul dorso del monte vecchio s’innalzò una montagnuola nuova alta di 80 piedi. Nel dì 6 marzo 1759 si precipitò una parte del monticello nuovo, traendo seco al precipizio una monte vecchio.
Nel dicembre 1760 si aprì il monte tutt’ad un tratto in 12 luoghi presso Monticelli, dopo aver gettato durante l’anno pietre, ed anche lava, le quali però non erano giunte fino ai campi fruttiferi. La lava alta
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di 15 piedi passò la strada maestra, occupando una larghezza di 300 piedi, e si arrestò nel 25 dell’istesso mese distante dal mare, dopo aver rovesciato molte case sulla strada da Portici a Pompejano.
Della Torre osservava durante ciò che la lava, avvicinandosi in distanza di un piede ad una muraglia, si arrestava e si gonfiava (probabilmente a motivo de’ vapori che tra la lava ed il muro si scomponevano e facevano resistenza), girando in questa distanza intorno alla casa fino a che le porte non erano abbruciate; ma appena successo questo, prendeva aria e penetrava nella casa, distruggendovi tutto.
Dal 1765 sino al 1767 il monte fu continuamente agitato, ma non recò alcun danno se non che nell’ultimo anno. La scossa si fece sentire per 14 miglia nella circonferenza; Napoli fu coperto di sabbia, di cenere e di piccoli carboni fino all’altezza di un piede e più, ed i bastimenti in mare alla distanza di 20 miglia italiane risentirono di questa pioggia. I campi soffrirono molto; la lava, che sembrava minacciare Portici, prese la direzione verso una gran fossa profonda di duecento
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piedi, e la riempì interamente. La lava in alcuni luoghi era larga di due miglia, e per lo più profonda di 60 in 70 piedi; il corso si estese a 6 miglia.
Da questo tempo sino al 1779 il monte fumò continuamente, e gettò quasi tutti i mesi scorie roventi e lava. Si contano in questo tempo 9 incendi, alcuni de’ quali, particolarmente nel 1770 e 1777, erano molto sensibili. Tra i più rimarchevoli appartiene quello del 1779, che tra tutti gli altri si distinse per una colonna di lava innalzatasi in linea retta fino all’altezza di diecimila piedi, dunque tre volte più alta del Vesuvio stesso; ciò sembrerebbe passare al di là di ogni credenza, se non fosse stato narrato dall’accurato osservatore del Vesuvio Hamilton. Dopo questo la colonna ricadde fluida e rovente, quasi perpendicolarmente sulla montagna; coprì la di lei sommità cuneoforme una parte del monte Somma, e la valle posta tra ambedue. Quello che in tal guisa ricadde acceso e rovente, e che dal cratere sortì immediatamente, formò una gran massa di fuoco, che occupò uno spazio di 3 miglia di circonferenza, e sparse un calore insoffribile
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per sei miglia d’intorno. Una nuvola elettrica di vapore, che incessantemente lampeggiava, formava il fondo, ed avanti v’era il bosco acceso di Somma, ciocché produsse un contrasto particolare, rispetto alla lava corrente e furibonda di un colore rosso cupo. Lo splendore della colonna ammirabile di fuoco rese sì chiara la regione circonvicina, che nella distanza di 10 miglia d’intorno il Vesuvio si riconobbero anche gli oggetti più piccoli, e distante 12 miglia dal monte si lesse il titolo di un libro. Dopo che la colonna di fuoco era stata elevata con tutta la sua forza quasi una mezz’ora, cessò tutto ad un tratto l’eruzione, ed il Vesuvio si tranquillizzò(1).
Più terribile ancora fu l’incendio di esso nel 1794; simile quello del 1631(2). Dopo che alcuni mesi di seguito non si era veduto sul monte né fumo né fiamme, spaventò esso nel dì 12 di giugno a undici ore
(1) Secondo le Lettere di Hamilton nel magazzino di Voigt. Vol. 1 quint. 1, pag. 114.126.
(2) Ved. Magazzino di Voigt. X vol. quint. I, pag. 19, ed una relazione accurata della eruzione del Vesuvio del 15 di giugno 1794, annessavi una storia delle [288] eruzioni antecedenti; come anche le osservazioni sulle cagioni de’ tremuoti da A. D. O.: inoltre lo scritto del Romita sul Vesuvio, e due lettere di Della Torre sullo stesso oggetto, come supplimento alla relazione di Hamilton intorno al Vesuvio, con rami.
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di notte, per una triplice scossa di un mezzo minuto, la città di Napoli e la regione circonvicina, la terra di Lavoro e la Calabria; e questa scossa fu replicata ai 13 ad un’ora. Essendosi tranquillizzata la terra, ed il cielo diventato sereno, si precipitò tutt’ad un tratto, dopo 2 scosse fortissime, l’antico cratere del Vesuvio, e ne comparve un nuovo, 400 piedi sotto la di lui sommità, da dove proruppe ad un tempo in quattro luoghi la lava. Il fracasso di essa, lo strepito della montagna minacciante la distruzione, unito alla continua oscillazione delle case; il fumo, la cenere cadente, l’atmosfera accesa, lo spavento e il grido degli uomini formarono il quadro del finale giudizio. La lava si divise in due rami; uno si diresse verso la valle Ottajano, e la piccola città di Torre del Greco che distrusse a metà, precipitandosi poi fino a 40 passi nel mare, e formandovi una specie di molo alto 20 palmi; l’altro
eruzioni antecedenti; come anche le osservazioni sulle cagioni de’ tremuoti da A. D. O.: inoltre lo scritto del Romita sul Vesuvio, e due lettere di Della Torre sullo stesso oggetto, come supplimento alla relazione di Hamilton intorno al Vesuvio, con rami.
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grosso 10 braccia e largo un mezzo miglio circa, si precipitò con tanta rapidità, che addì 16 a ore e mezza di mattina, giunse a Napoli dopo avere scorso 8 miglia e mezzo italiane. Quivi distrusse diversi quartieri della città, coprì strade, rovinò fabbriche, e corse finalmente nel mare, la di cui acqua bollì due giorni consecutivi. Ne’ giorni 16 e 17 la eruzione fu interrotta, ma le scosse di terra, il fumo ed il fracasso del monte continuarono. L’atmosfera, accesa lampeggiò sempre; ai 18 le scosse di terra furono terribili, ed il Vesuvio fu involto nel fumo e nella pioggia di cenere che si estese fino a Caserta.
Ai 19 ricomparve il Vesuvio, la di cui sommità, era diminuita di 200 passi; l’antica forma si era cangiata in un piano semicircolare e pendente, alto quanto il monte Somma. Un’eruzione di acqua marina dié fine allo spettacolo. In diversi luoghi era caduta la cenere fino all’altezza di 4 braccia. Sulla parte di S. Giorgio cadde la cenere mista di pietre pomici, e di gran quantità di acqua bollente, rappresentando così un quadro terribile della distruzione di Ercolano. Si contarono 30 persone perite, ed il danno prodotto fu calcolato a 4 milioni di scudi.
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Non possiamo passare sotto silenzio il fuoco di Pietra mala, mentre spiega i vulcani ed i tremuoti. Il luogo ove questo fuoco si trova, giace due miglia italiane distante delle Filicare, quasi in mezzo alle città di Bologna e Firenze. Gli abitanti lo chiamano il Vulcano, benché non si ravvisi né cratere né lava. Il sito non molto spazioso è fangoso, e rappresenta una caldaia rinchiusa tra montagne. Laddove incessantemente è acceso, scopresi una quantità di sassi, frammenti delle vicine rocce; ma tra le montagne e questo focolare vedonsi bellissimi prati. Il terreno abbruciato, come anche il suolo vicino, sono composti di terra nera paludosa. Esaminando con attenzione ciò che vi depone il fuoco si conosce subito ch’esso per lo passato ha agito tanto sulla piazza intera, quanto presentemente in quel piccolo luogo della circonferenza di un piede e mezzo. Il calore che ancora si conserva, nel terreno abbruciato, diminuisce sensibilmente in proporzione che si allontana dalla fiamma. Il nutrimento dunque di questo fuoco sembra diminuirsi, e forse si estinguerà in breve. Il suolo, quale specie di torba o terra vegetabile, consistente in argilla
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in parti oleose, flogistiche, saline e marziali, è di un genere che per cagione del fuoco dovrebbe aver sofferto un cangiamento considerabile; ma non è così; e nella superficie si vede un induramento leggero di composizione fragile. Gli strati vegetabili inferiori sono come ogni altra materia vegetabile, che per qualche tempo è stata in un suolo paludoso. Quanto meno però questo fuoco agisce sopra questa terra, tanto più agisce sulle masse di pietre. Alcune le cangia in calce, altre in vetro, e dà loro la qualità di essere attratte dalla calamita. Il fuoco dunque produce effetti vulcanici senza forza e violenza. Potremo supporre, che gli effetti immensi de’ vulcani nascono da simili cagioni interiori, e da fuochi sì piccoli, cha essendovi rinchiusi i vapori ed il calore, agiscono maggiormente, perché quivi si dividono nell’aria, e si indeboliscono. La somiglianza che si osserva tra le parti consistenti della lava, ed i prodotti di questo fuoco, cioè le materie sassose, conferma la supposizione che quivi la natura agisce come ne’ vulcani(1).
(1) Volta nelle Memorie della Società Italiana tom.
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È molto probabile che le piriti sulfuree, che in piccolissimi pezzi si trovano miste tra gli strati di pietra giacenti sotto il suolo ardente, abbiano sofferto una qualche decomposizione per mezzo dell’umidità che ad esse si è unita, d’onde nasce il gas infiammabile che si sviluppa, e l’incendio. Possiamo riguardare questo sito acceso come un vulcano piano. Dolomieu dice: accade in questi fenomeni come colla grandezza degli uomini; basta contemplarli da vicino per estinguere lo spavento o l’ammirazione che ci hanno prodotto da lontano. Humbold narra in una lettera del 23 settembre 1803, di essere disceso a Torcello nel cratere di un vulcano ancora acceso, fino alla profondità di 70 tese, ove non gli restavano
2 ha raccolto le opinioni sulla natura e le cause di questo fuoco. Nelle notizie critiche sull’Italia vol. 1. p. 444 ec. di Volkmann si trova la descrizione e la spiegazione di La Lande. Anche il Bernoulli vide questo fuoco e l’esaminò. Anche nelle lettere di Ferber sull’Italia se ne fa un esatto esame. Il trattato migliore e più recente fin’ora è quello del conte Razumowski nel Journ. de Phys. 1786 settembre; ed un estratto da ciò trovasi nell’antico Magaz. di Gotha, fuer das neueste aus der Phys. vol. 5 quint. 4 p. 99-105.
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che 15 tese per andare al fondo. Egli assicura che le ricerche fatte intorno a questo vulcano sussistente dal 1759, lo metteranno in istato di dare molti schiarimenti su questi fenomeni terribili.
L’intera Islanda sembra essere la volta di uno spaventevole focolare sotterraneo. Sono quivi più di 6 montagne che continuamente gettano fuoco, e forse non v’ha monte su quest’isola che non sia stato un vulcano acceso. Da ciascuna collina di neve (Jockel) si può attendere una eruzione di fuoco, mentre diverse si sono cangiate in vulcani. L’Hekla o Heklu nella parte meridionale, circa quattro miglia distante dalla sponda forma tre sommità, delle quali la più alta sta 4600 piedi sopra al livello del mare; la sua circonferenza è di 3 sino a 4 miglia geografiche. Probabilmente sussistettero le sue eruzioni prima che l’isola fosse abitata. Gli abitanti notano per la prima eruzione quella del 1004: a questa seguirono quelle del 1029, del 1105, 1157, 1222, 1300; in quest’ultima la montagna si spaccò dalla sommità sino al fondo in guisa, che si osserva ancora la spaccatura sulla parte meridionale, malgrado della sabbia e della cenere
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gettatevi. Altre eruzioni accaddero nel 1341; 1362, 1389, 1554, 1588, 1636 e 1693. Dal mese d’agosto dell’ultimo anno sino al 1766 egli restò tranquillo, e poi ricominciò a infuriare con una forza che superò tutte le eruzioni passate. L’inverno antecedente era sì dolce, che il gelo nacque solamente due volte avanti Pasqua. Tutte le sorgenti ed i ruscelli, ed anche il lago di Selsveten diminuirono sensibilmente, ed il calore sotterraneo fece disseccare il pascolo intorno al monte.
Addì 5 d’aprile, la mattina alle 3 e mezza, accompagnata da continuo tuono, strepito e frequente tremuoto, s’innalzò dal cratere una colonna di sabbia grande e nera, nella quale si osservarono pietre roventi e fuoco. Le pietre pomici e le magnetiche caddero a due sino a tre miglia geografiche distanti dalla montagna. Le prime ebbero sino a tre braccia di circonferenza, ed una delle pietre magnetiche del peso di sette libbre e mezza, gettata 3 miglia distante, cadde in modo dentro la terra gelata da non poterla levare senza il piccone. I campi per la distanza di 30 miglia furono coperti di sabbia alta un palmo; i fiumi Romgaa e Thiorsa s’ingorgano,
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e produssero un’inondazione. Alla distanza di 30 miglia dall’Hekla non si poté vedere a motivo della oscurità. Accompagnato da tremuoto e da strepito terribile, che in distanza di 9 miglia dall’Hekla si sentì come de’ colpi di un tuono veemente, il monte bruciò addì 9, e 12, e dal 15 sino al 21 d’aprile, dal 1 sino all’8 di maggio, il 23 e 31, il 1, 8, 14, 20, e 22 di giugno; e poi seguì l’eruzione veemente addì 5 di luglio. Le pietre sortite dal cratere volavano intorno all’Hekla come le api intorno all’arnia; spesso s’innalzarono raggi d’acqua e si precipitarono sui campi. Durante questa eruzione si sentirono giornalmente sino a quattro scosse di terra. Negli anni 1767, 1768, 1770 e 1771 il monte gettò egualmente fuoco.
Il monte Krabba più alto dell’Hekla sembra aver incominciato non prima del 1726, nel quale gettò un torrente di lava, che divisa in varie braccia inondò la regione circonvicina, e spinse un braccio, largo da per tutto di un mezzo miglio geografico, alla distanza di tre miglia, sino al mare, ove la lava cuoceva alcuni giorni nell’acqua.
Il monte Leirhnukt fu piacevole e coperto
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di erba sino al 1725, anno in cui fece la prima eruzione; e da quel tempo in poi desso è il vulcano più terribile.
Il monte Katlegiaa ovvero Kötlegau, incominciando dal 900 sino al 1755, ha avuto solamente 6 eruzioni; accompagnate però di molte disgrazie, come d’inondazioni considerabili, che nel 1721 durarono tre giorni. Nel 1755 si sciolse tutto il ghiaccio sulla montagna, ed inondò la terra sino al mare, ove condusse pezzi di rocce di enormi ghiaccio. Il fuoco e l’acqua sortirono dalla montagna con tanta veemenza e strepito, da far temere il rovescio della terra intera; il tuono della montagna si fece sentire per la distanza di 30 miglia. Le pietre e le scorie gettate furono roventi, e pesarono sino a 3 libbre l’una. A ciò seguì una spaventevole grandine, che in ciascun granello racchiudea sabbia e cenere. La cenere pregna di un odore insopportabile di zolfo riempì l’aria, e cagionò gravi incomodi di petto. Nel 1756 ebbero luogo altre cinque eruzioni simili, cioè addì 15 gennaio, ai 28 e 29 di giugno ed ai 12 e 25 d’agosto. Gli effetti furono terribili, poiché i boschi ed i campi si seppellirono sotto la sabbia, la
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venere e le pietre, e le case e le tenute divennero la preda delle onde; e l’acqua da bere e l’aria restarono guaste per molto tempo. La forza del fuoco sotterraneo produsse nuove montagne e rocce. In una regione nacquero tre sommità nuove, alte di 60 braccia e larghe due miglia geografiche, le quali si estesero per tre miglia geografiche dentro il mare. Alcune montagne di ghiaccio che si trovarono nella vicinanza furono spogliate totalmente del loro ghiaccio, i loro fondamenti si scossero, e durante l’incendio si abbassarono e s’innalzarono(1). Oltre queste montagne se ne trovano dell’altre sull’Islanda che hanno gettato fuoco ed acqua; ed è da desiderarsi che quest’isola interessantissima per la storia naturale possa essere esaminata con maggior attenzione.
Nell’Asia sonovi molti vulcani; la Siberia sola ne ha sei. I più conosciuti sono i tre seguenti di Kamtschatka, cioè 1° l’Aratschinski che infuriò particolarmente nel 1737
(1) Ved. Physik. Beytraege vol. II. p. 98-120, ed i viaggi di Olafsen e di Povelson verso l’Islanda vol. 2 1772, 4.
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e 1767, 2° il Tulbatschinski che nel 1739 distrusse 50 werst di terreno all’intorno, e 3° il Kamtschatka, il maggiore di tutti, il di cui piede ha una circonferenza di 300 werst. Questo vulcano getta annualmente due fino a tre volte della cenere, e qualche volta in quantità tale che il terreno ne resta coperto sino a 300 werst all’intorno. Esso, incominciando dal 1727 sino al 1731, ha bruciato quasi continuamente. L’eruzione del 1737 fu la più spaventevole. Incominciando dal 25 di settembre infuriò in modo che sembrava una roccia rovente; torrenti di fuoco proruppero da diverse aperture, e lo spettacolo finì con una quantità incredibile di cenere. Il tremuoto che allora si sentì, ritornò ancora il 23 d’ottobre, e la primavera dell’anno seguente.
Anche sulle isole Kurili si osservano vari vulcani, come pure sulle isole Aleuti, e su quelle delle Volpi.
Sulle isole del Giappone si contano otto vulcani, tra i quali è notabile l’Unsen, che sembra di cuocere ogni volta che piove; e secondo la descrizione di Kaempfer(1),
(1) Ved. Dr. Halde IV. p. 119.
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i suoi vapori zulfurei sono forti al segno di uccidere gli uccelli nella circonferenza di molte miglia.
La maggior parte delle isole Marianne Filippine hanno de’ vulcani, come possiamo osservare sopra le isole più considerabili di Luzon e di Mindanao.
Sull’isola di Java vi sono due vulcani, uno è poco distante da Panarukan sulla parte meridionale, il quale scoppiò il primo, e che deve aver cagionato la rovina di 10000 uomini; l’altro, chiamato Foyat, è situato in mezzo all’isola. Struyk(1) ve ne conta ancora 5 altri.
Il vulcano dell’isola di Timor era una volta visibile in gran distanza sul mare, ma nel 1688 si precipitò durante un tremuoto veementissimo, ed in oggi nel sito ove stava si scopre una grande palude. Possiamo credere che un simile avvenimento sia successo al mare morto.
Sopra l’isola di Banda è il Gannongapy, ovvero Gounapì, che bruciò 17 anni di seguito, e che nel 18° (il 1586
(1) Iuleiding tot de algemeene Geographie p. 67.
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dell’era nostra) cagionò danni incredibili. Questo vulcano ha gettato pietre di 6 piedi in lungo: il mare che bagnò il di lui piede, e che prima era profondo di 15 sino a 16 piedi, a forza di eruzioni è diventato non solamente basso, ma pure ha dovuto ritirarsi per le montagne nuove che vi sorsero. Esso infuriò nuovamente nel 1615.
Il vulcano di Ternate è uno de’ più conosciuti: la sommità di esso si nasconde nelle nuvole, ed il piede è guarnito di selve. In cima si apre un cratere largo, diviso in tante terrazze simili ad un anfiteatro. Il monte brucia in diversi tempi dell’anno; particolarmente è notabile l’incendio del 1673. Antonio Galya nel 1538 non poté misurare la sua profondità con uno scandaglio di 500 tese. In questa montagna si sente continuamente uno strepito terribile.
Tra la Nuova Guinea e le isole Molucche, in un sito ove non si poté trovare alcun fondo, soffrì il capitano Schouten una scossa di mare il 28 ed il 29 di giugno 1616, in modo che il bastimento ne ricevette colpi sensibilissimi. Il mare presso
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la costa di Siam è pieno di rocce di pietre pomici; e tra il 14° e 20° di latitudine settentrionale, ed il 136° 142' di longitudine dall’isola di ferro, s’incontrano estensioni considerabili ove nuota la pietra pomice. Il Pico Adam sull’isola di Ceilan è conosciuto sufficientemente.
L’isola di Ormuz giace interamente sopra un fuoco sotterraneo; per lo passato ha bruciato 7 anni di continuo, ed ancora al presente getta spesso del fuoco dalle sue montagne di sale.
Nella Persia vi sono diversi vulcani, tra i quali si nota l’Albours presso il monte Tauro, due miglia distanti da Herat: esso fuma continuamente, e spesso distrugge le regioni circonvicine con fiamme e ceneri. Oltre di questo si nota ancora l’Adervan nel Lauristan.
I vulcani più conosciuti nella China sono il Peping ed il Lingfung; l’ultimo getta fiamme chiare di notte ogni volta che ha piovuto.
Nell’Africa conta Kircher 8 vulcani, due in Monomotapa, quattro in Angola, Congo e Guinea, uno nella Libia, ed uno nell’Abissinia. Oltre di questi sono quivi crateri
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innumerabili che gettano fuoco, ed antri di zolfo che vomitano fiamme e fumo, come l’antro di Beni Guazeval presso Fez. Il Pico di Teneriffa fu già conosciuto da Kircher come vulcano. Questo monte fu inquietissimo nel 1715 e 1720. Da quel tempo in poi è quieto, ma tramanda incessantemente del fumo.
L’isola del Fuego, appartenente a quelle del Capo Verde, allorquando fu scoperta non avea montagna alcuna; ma adesso evvi un vulcano in mezzo all’isola, il quale si scopre anche in distanza considerabile; tratto tratto getta dello zolfo, e talvolta cenere, e pietre di grandezza tale, che si sente distante nove miglia lo strepito della caduta.
L’America sembra essere la patria de’ vulcani. Sulla costa del Messico, nella parte settentrionale, si trovano 14 vulcani accesi. Sulla California se ne contano 5, de’ quali tre sono situati sulla costa. Nella parte meridionale dell’America se ne contano più di venti: in fine ne esisteranno quivi sicuramente più di 42, e volendo contare per vulcani tutte quelle montagne che fumano e gettano fiamme, ne possiamo contare con Buffon più di 60, ed in conseguenza sopra tutta la terra
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più di cento vulcani accesi. Humbold(1) dice: «possiamo chiamare tutta la pianura di Quito un solo vulcano di varie sommità. Non solamente il Pichincha, il Kotopaxi, l’Antisana, l’Ilinissa e ’l Tunguragua sono vulcani, ma il Chimborasso stesso, o almeno è stato; anzi durante il tremuoto del 1797 si è quivi spaccata dappertutto, ed ha gettato zolfo, acqua ec.» In un’altra lettera 1., C. 10 p. 286 dice di esser stato il 26 ed il 28 di maggio 1802 due volte presso il cratere del Pichincha, montagna vicina alla città di Quito. Nessuno, continua esso, per quanto si sa, l’ha finora veduto meglio di Condamine. Per osservare meglio il fondo del cratere ci sdraiavamo bocconi, e non credo che la fantasia possa immaginarsi cosa più trista, più tetra e più assomigliante ad un mortorio che questo aspetto. L’apertura del vulcano forma un buco circolare della circonferenza di una lega francese incirca. I margini, a guisa di punti prominenti, al di sopra sono coperti di neve; l’interno è di
(1) Annali del museo nazionale della Storia Naturale quint. 3 p. 149.
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un nero oscuro, e la profondità (ove si distinguono le sommità di varie altre montagne, le di cui punte sembrano giacere 300 tese sotto di noi), è spaventevole. Non dubito che il fondo del cratere non stia al livello colla città di Quito: ove sarà dunque mai il piede di questi monti? La Condamine trovo questo cratere estinto, anzi coperto di neve; noi abbiamo dovuto dare agli abitanti di Quito la trista notizia che il vulcano nella loro vicinanza è ora acceso, ed i segni evidenti non lasciano alcun dubbio. I vapori sulfurei quasi ci soffocavano, mentre ci avvicinavamo al cratere; vedevamo anzi alcune fiamme turchine saltare di qua e di là, ed ogni due o tre minuti sentivamo colpi sensibili di tremuoto, che scossero i margini del cratere, erano più sensibili in distanza di 100 tese. La grande catastrofe del 1797 ha probabilmente riacceso il fuoco del Pichincha. Due giorni dopo visitai nuovamente la montagna, e dopo averla misurata, trovai l’altezza di 2477 tese, ed il diametro di 754 (il cratere del Vesuvio ha solamente 313 tese di diametro). Salimmo sull’Antisana fino all’altezza di 2773. Visitammo anche il Kotopaxi che trovammo ancora dell’altezza
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di 1744 tese; è dunque falso di dire che questa montagna dopo il tremuoto del 1797 sia diminuita. La punta sassosa del Cotopaxi fa vedere ch’è un fuocolare capace di resistere e di conservare la sua figura. Il Tunguragua al contrario ha molto diminuito; in vece di 2650 tese secondo Bouguer, ha esso presentemente solo 2530; e gli abitanti di questa contrada assicurano aver veduto precipitare la di lui sommità durante la grande scossa del 1797. Anche il Chimborasso, creduto sin’ora quieto, è di natura vulcanica. La serie di montagne, le quali si giunge sino a lui, consiste in rocce bruciate e ridotte in iscorie miste di pietre pomici. Simili produzioni vulcaniche di quella contrada si trovano molto al di là dell’altezza di 3085 tese. La sommità di esso, finora non ancora visitata, è probabilissimamente il cratere di un vulcano estinto; il sol pensiero di questa possibilità eccita un giusto orrore, poiché riaccendendosi nuovamente questo colosso, dovrebbe distruggere l’intera provincia. Un manoscritto che possiede Leandro Zapla re indiano a Lican, composto nel secolo XVI nella lingua del Paraguay, e tradotto nella favella spagnuola, dà notizia
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di una tale rivoluzione della natura, accaduta intorno alla metà del secolo XV. Allora fu che regnando ancora Uninia Abomatha, l’ultimo re indipendente di Lican, si precipitò la più alta montagna del mondo, chiamata dagli indiani Copa Urku (Capo de’ monti) la quale dev’essere stata più considerabile del Chimborasso. Questa montagna esiste ora come spezzata in forma di due punti alti chiamati dagli spagnuoli Nevado del Altar. L’eruzione del vulcano durò sette anni, ed il manoscritto dice che allora vi regnava una perpetua notte di sette anni. Considerando la quantità de’ prodotti vulcanici nella pianura di Tapia intorno alla montagna caduta, e riflettendo che le eruzioni del Cotopaxi hanno più volte occasionato un’oscurità di 15 o 18 ore di seguito, dobbiamo confessare, che questa alterazione non è tanto fuori di proposito. I preti rivelarono al re il significato sinistro di questa catastrofe. Il globo, dissero essi, sarà cangiato; altri Dei verranno e scaccieranno i nostri: è pensiero vano voler resistere al destino. I Peruviani in fatti vi giunsero ben presto nel 1470, ed in luogo della
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antica religione v’introdussero il culto del Sole(1).
(1) Chi volesse saperne di più sopra i Vulcani, potrà leggere l’opera di Francesco di Beroldingen sopra i Vulcani del tempo antico e moderno, considerati fisicamente e mineralogicamente. Manheim 1791 in 8. 2 vol. L’opera è eccellente, e dà molti schiarimenti su questo articolo.